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Il potere esecutivo: l’attività politica e l’attività amministrativa Il ruolo del funzionario dell’ente locale a venti anni dalla “riforma Bassanini”

di Giuseppe COCCHI

 

Il ruolo del funzionario dell’ente locale ha subito una profonda trasformazione per effetto della “riforma Bassanini”. A vent’anni dalla sua approvazione, l’”astratta distinzione” tra funzione di “programmazione e controllo”, assegnata agli eletti del popolo e la funzione di “amministrazione attiva”, assegnata ai dipendenti della pubblica amministrazione necessita di una revisione.

Episodi di complicità tra funzionari pubblici, politica e malaffare sono all’ordine del giorno e la recente approvazione del “pacchetto anticorruzione” non ha contribuito in maniera sostanziale a debellare nell’opinione pubblica la percezione di inefficienza e connivenza negli apparati amministrativi. Occorre che il legislatore abbia uno “scatto d’orgoglio” e superi definitivamente il “trauma tangentopoli”.

… Come ? …

.….. restituire al popolo, attraverso i suoi eletti, l’”ultima parola” (salvo verifiche di un organo terzo) potrebbe essere la nuova strada da (ri-)esplorare ……

 

CAPITOLO I – LA DISTINZIONE DEI POTERI DELLO STATO

Paragrafo 1 – Il rapporto tra politica e pubblica amministrazione – definizioni – pag.4

Paragrafo 2 – Un problema attuale dalle origini antiche: dalla legge Cavour n. 1483 del 1853 alla Costituzione repubblicana del 1948 – pag.5

Paragrafo 3 – Il rapporto tra politica e amministrazione alla luce dei principi sanciti dalla Costituzione: imparzialità, buon andamento e legalità – pag.10

Paragrafo 4 – Evoluzione della legislazione sul pubblico impiego prima della privatizzazione: il d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, e l’istituzione della dirigenza dello Stato – pag.14

Paragrafo 5 – La “prima privatizzazione”: separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa – pag.17

Paragrafo 6 – La “seconda privatizzazione”: l’estensione del modello privatistico al rapporto del lavoro pubblico – pag. 18

Paragrafo 7 – La “terza fase” della riforma: il testo unico del “pubblico impiego, la riforma del titolo V della Costituzione, le innovazioni della Legge 15 luglio 2002, n. 145 e la “riforma Brunetta” – pag.24

Paragrafo 8 – Lo stallo nel rapporto politica/amministrazione attiva come presupposto della profonda crisi del sistema che danneggia la crescita economica del paese.Il “tentativo Madia” – pag.26

CAPITOLO II – GLI EFFETTI DELLE RIFORME SUL RAPPORTO POLITICA AMMINISTRAZIONE ATTIVA

Paragrafo 1 – Il punto di vista del funzionario dell’ente locale – pag.31

Paragrafo 2 – Gli effetti delle “riforme Bassanini” – pag.35

Paragrafo 3 – Gli auspici falliti della privatizzazione del pubblico impiego – pag.36

Paragrafo 4 – L’involuzione della figura del Segretario comunale e la confusione nell’attribuzione di competenze generata dalla modifica del titolo V della Costituzione – pag.39

Paragrafo 5 – Il “capitolo formazione” dei dipendenti pubblici – pag.42

Paragrafo 6 – Le “misure anticorruzione” introdotte partire dalla L.190/2012 – pag.44

CAPITOLO III – LA RIFORMA POSSIBILE

Paragrafo 1 – L’analisi dei comportamenti sociali dei cittadini italiani – pag.47

Paragrafo 2 – La corruzione e gli effetti sul progresso economico-sociale del Paese – pag.49

Paragrafo 3 – La speranza del riscatto attraverso una nuova politica legislativa – pag.50

Paragrafo 4 – Il superamento della “finta dicotomia politica amministrazione attiva” – pag.51

Paragrafo 5 – Effetti benefici della riforma prospettata – pag.54

Abstract

Il ruolo del funzionario dell’ente locale ha subito una profonda trasformazione per effetto della “riforma Bassanini”. A vent’anni dalla sua approvazione, l’”astratta distinzione” tra funzione di “programmazione e controllo”, assegnata agli eletti del popolo e la funzione di “amministrazione attiva”, assegnata ai dipendenti della pubblica amministrazione necessita di una revisione.

Episodi di complicità tra funzionari pubblici, politica e malaffare sono all’ordine del giorno e la recente approvazione del “pacchetto anticorruzione” non ha contribuito in maniera sostanziale a debellare nell’opinione pubblica la percezione di inefficienza e connivenza negli apparati amministrativi. Occorre che il legislatore abbia uno “scatto d’orgoglio” e superi definitivamente il “trauma tangentopoli”.

… Come ? …

.….. restituire al popolo, attraverso i suoi eletti, l’”ultima parola” (salvo verifiche di un organo terzo) potrebbe essere la nuova strada da (ri-)esplorare ……

 

Capitolo I – LA DISTINZIONE DEI POTERI DELLO STATO

Capitolo I – 1. Il rapporto tra politica e pubblica amministrazione – definizioni

Il complesso rapporto fra politica e amministrazione, in Italia, è sempre stato tra i temi più dibattuti in sede politica e di dottrina 1 .

Secondo l’impostazione classica discendente dalla classica teoria della separazione dei poteri elaborata nella prima metà del XVIII secolo dal Barone Montesquieu 2 in ogni Stato vanno distinti tre tipi di poteri i quali, a loro volta, devono essere esercitati da organi diversi e tra loro indipendenti: il potere legislativo, a cui è attribuita la potestà di dettare le leggi; il potere esecutivo, la cui missione è quella di eseguire le stesse leggi; e, infine, il potere giudiziario, a cui compete verificare la corretta applicazione delle leggi nei rapporti tra soggetti privati o tra questi ultimi e l’Amministrazione dello Stato.

Con tale tripartizione del potere l’illustre pensatore del ‘700 immagina di introdurre una sorta di gioco di controlli e contrappesi fra i tre poli di potere sopraindicati evitando, in tal modo, le eventuali interferenze tra gli stessi. Una forma di governo che, secondo tale ipotesi, costituisce l’unico modo di garantire la libertà dei cittadini.

Nello specifico il potere esecutivo comprende: l’attività politica o di governo e l’attività amministrativa 3 .

Considerata la reale difficoltà nello stabilire le differenze tra i due tipi di attività, la dottrina ha indicato che la prima di esse – attività politica o di governo – è considerata un’attività “libera nei fini, cioè non vincolata dai fini posti da altri soggetti, e nei contenuti, cioè nelle scelte tra fini, e talvolta anche nelle forme, nei modi della sua esplicazione: in contrapposto, appunto, con l’attività amministrativa la quale, invece, si svolge in relazione a fini a essa prefissati (prevalentemente dalla legge) ed è normalmente vincolata anche nelle forme” 4 .

 

Capitolo I – 2. Un problema attuale dalle origini antiche: dalla legge Cavour n. 1483 del 1853 alla Costituzione repubblicana del 1948

Nei regni preunitari d’Italia si può rilevare una sostanziale identità tra funzione politica e funzione amministrativa. Il Sovrano con la sua Corte definiva sia gli indirizzi da perseguire sia le modalità con cui raggiungere gli “scopi del Governo” per mezzo di atti amministrativi sottoscritti dallo stesso Sovrano o da suoi “fidi” delegati.

A questa impostazione tradizionale, a partire dalla metà dell’Ottocento, negli ordinamenti dei diversi paesi europei ne segue una seconda, ben distinta, caratterizzata dalla distinzione, quantomeno formale, tra il governo e l’amministrazione 5 .

In Italia, il modello originario del nuovo rapporto politica amministrazione venne disegnato dalla legge Cavour 23 marzo 1853, n. 1611 per il riordino dell’amministrazione centrale e della contabilità generale dello Stato. Tale legge è considerata per dottrina unanime come il punto di partenza della storia dell’amministrazione italiana. Tale legge e le successive modifiche introducono un modello di gestione amministrativa rigorosamente strutturato secondo il principio gerarchico.

In tal senso, l’articolo 1 della citata legge disponeva, da una parte, che “ i ministri provvederanno all’amministrazione centrale dello Stato per mezzo di uffici posti sotto l’immediata loro direzione ” (comma 1); e, dall’altra, che “gli uffici relativi ad un medesimo ramo di amministrazione, e dipendenti da un solo ministero, potranno essere riuniti in direzioni generali, che faranno tuttavia parte integrante del ministero” (comma 2).

Dal citato precetto normativo si deducono con chiarezza i due elementi caratterizzanti la prima organizzazione amministrativa italiana, cioè l’accentramento amministrativo e la forte subordinazione gerarchica alla persona del ministro, che non consentirono di individuare alcun rapporto collaborativo tra politica e amministrazione 6 .

In altre parole il ministro è, al tempo stesso, rappresentante politico e capo dell’amministrazione, mentre gli alti funzionari sono dei suoi collaboratori, dei consiglieri (con un modernismo parleremmo di staff) e pertanto privi di attribuzione proprie e di conseguenza di responsabilità 7 .

Con il Governo di Bettino Ricasoli, nel 1866 si ebbe un primo tentativo di riequilibrare i poteri amministrativi, introducendo la responsabilità dei direttori generali; tuttavia, il progetto di riforma proposto non fu approvato in Parlamento.

Altri tentativi seguirono quello di Ricasoli nella speranza di uniformare il comportamento dell’amministrazione a principi di giustizia ed eguaglianza giuridica piuttosto che a principi di prossimità al potere esecutivo.

Per tutti si cita Silvio Spaventa, che in un memorabile discorso del 1880 ebbe a dire: “L’amministrazione dev’essere secondo la legge e non secondo l’arbitrio e l’interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti” 8 .

Il dibattito pubblico dell’epoca si avvale della sostanziale unanimità delle posizioni a favore della necessità di distinguere le funzioni politiche da quelle amministrative; pur tuttavia la discussione si accende sulla modalità di ripartizione delle funzioni.

Il criterio di differenziazione proposto da Presutti è interessante in quanto si avvicina alla soluzione poi evolutasi nel tempo; esso è si basa sulla distinzione all’interno del potere esecutivo di due grandi categorie di atti: gli atti meramente amministrativi, riguardo ai quali non è possibile alcuna discussione in merito alla discrezionalità della decisione; gli atti politici o di governo, riguardo ai quali vi è incertezza intorno ai criteri, ai quali l’atto deve essere conformato 9 . Solo con l’avvento della sinistra storica, il modello centralizzato voluto da Cavour registra dei cambiamenti significativi nel rapporto tra l’amministrazione e la politica, soprattutto con il venir meno della simbiosi fra ambedue le sfere di potere.

A partire dal 1876, si pose con forza la questione degli impiegati, in particolare la necessità di stabilire delle regole certe e chiare per la burocrazia, aspetti questi ultimi che, fino a quel momento, non erano stati presi considerazione.

Pur tuttavia si sviluppa un “modello di governance” dove l’alta amministrazione si identifica con la politica a mezzo dell’individuazione fiduciaria del ceto burocratico; tale nuovo modello determina un indebolimento “potenziale” del potere dei politici, i quali, malgrado ciò, continuano ad essere gli unici responsabili.

Si crea, in tal senso, una situazione di contrasto poiché, da una parte, siamo in presenza di “un’alta amministrazione politicizzata” e dall’altra, davanti ad “una burocrazia acefala e irresponsabile” 10 .

Con l’avvento del periodo giolittiano (1900-1914), si realizza quello che si può definire il reale cambio di prospettiva: l’amministrazione passa dall’essere uno strumento destinato al compimento della volontà del sovrano a convertirsi in uno strumento messo a disposizione degli organi rappresentativi della volontà popolare per l’attuazione delle leggi.

In questo contesto, per quanto riguarda la richiesta di separazione tra politica ed amministrazione, non si registrarono, a dire il vero, dei cambiamenti significativi.

Le rivendicazioni fatte in sede politica e di dottrina a favore di una burocrazia più forte non si tradussero, dunque, in un aumento della sfera d’autonomia dell’amministrazione, quanto piuttosto in un “rafforzamento delle garanzie normative dei pubblici impiegati per porli al riparo dall’arbitrio della classe politica” 11 .

Di fatto si realizza un modello di gestione del potere esecutivo fondato sulla intercambiabilità tra i ruoli di dirigenza politica e dirigenza amministrativa. Così, “le cariche politiche e quelle amministrative vengono ricoperte, praticamente a turno, dai componenti di un gruppo ristretto ed omogeneo” , il che spiega perché “nessun potere ha interesse a ingerirsi nella sfera dell’altro” 12 ; e anche quando tale mobilità tra politici e burocrati va scemando, “le conquiste sullo statuto giuridico ed economico sembrano appagare la burocrazia più di qualsiasi riconoscimento formale di funzioni proprie” 13 .

Con l’avvento del regime fascista si assiste da un lato ad un tentativo di politicizzare anche gli apparati burocratici minori, anche con una forte ri-organizzazione gerarchica e, dall’altro, alla proliferazione delle c.d. “amministrazioni parallele”, come l’IMI (1931), l’IRI (1933) e l’INFPS (1933).

In definitiva, si può affermare che antecedentemente alla Costituzione repubblicana del 1948 il modello gerarchico-piramidale dell’amministrazione fondato sulla subordinazione del potere amministrativo al potere politico, introdotto dalla legge Cavour del 23 marzo 1853, n. 1483, è rimasto sostanzialmente in vigore per oltre un secolo.

Usando le parole di D’ALBERTI, “i dirigenti, prima oscurati dal ministro, si sono avviati ad una emersione con Crispi e poi con Giolitti e, dopo l’inversione degli anni ’20, hanno riguadagnato nel decennio successivo una loro sfera decisionale, che di nuovo s’è indebolita dopo la guerra” 14 .

 

Capitolo I – 3. Il rapporto tra politica e amministrazione alla luce dei principi sanciti dalla Costituzione: imparzialità, buon andamento e legalità

Con l’avvento della repubblica e l’approvazione della Costituzione repubblicana, i padri costituenti si pongono con forza la questione del rapporto tra politica e pubblica amministrazione, partendo necessariamente dall’esistente, cioè quanto disegnato dalla legge Cavour del 1853.

Di seguito si ripropongono gli articoli della Costituzione Italiana che riferiscono dei rapporto di pubblico impiego e del funzionamento della pubblica amministrazione;

Art. 28 – Costituzione

I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.

Art. 54 – Costituzione

Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

Art. 97 – Costituzione

Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. (comma applicabile a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014)

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

Art. 98 – Costituzione

I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità.

Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero.

E’ evidente che la Costituzione pone le fondamenta del rapporto tra cittadino e ufficio sui valori essenziali della “disciplina” e dell’”onore”.

Il termine “disciplina” implica l’attitudine dell’individuo all’osservanza delle regole, alla manifestazione di perizia, all’apprendimento e allo sviluppo di competenze.

Il termine “onore” implica la rettitudine morale, la buona reputazione conquistata con l’imparzialità dei comportamenti e l’onestà delle condotte.

La Costituzione quindi identifica come valori imprescindibili del funzionario pubblico qualità che vanno ben oltre il doveroso rispetto delle leggi.

La violazione di tali precetti costituzionali nonché dei singoli precetti normativi comporta la punibilità del funzionario in sede penale, civile, amministrativa, contabile e disciplinare, ferma restando la responsabilità civile della condotta che, di norma, si estende all’ente di appartenenza.

Inoltre l’organizzazione degli uffici si uniforma a criteri di buon andamento e imparzialità. Tale norma è rafforzata dal concetto secondo cui gli impiegati sono a servizio della Nazione e pertanto devono uniformare il proprio operato a principi di uniformità di giudizio, logicità e tempestività e giammai a criteri di prossimità politica o, ancor peggio, a mere convenienze personali o familiari.

La Costituzione in vero non distingue tra agire politico ed agire amministrativo; pertanto è indubbio che i requisiti costituzionali di cui agli artt. 28, 54, 97 e 98 della Costituzione sono richiesti non solo per i cittadini scelti per concorso per “amministrare la cosa pubblica” ma anche per quei cittadini scelti a seguito di procedure elettive per rappresentare le istanze del “Popolo Sovrano”.

Sebbene la Costituzione non abbia posto in rilievo distinzione tra funzioni politiche ed amministrative, occorre evidenziare che il tema fu comunque affrontato in sede di Assemblea costituente.

Da questo punto di vista, Costantino Mortati, deputato all’Assemblea costituente per la Democrazia Cristiana, riteneva imprescindibile inserire nella Costituzione delle norme di rango costituzionale sull’amministrazione, aventi come obiettivo, tra gli altri aspetti, l’indipendenza della dirigenza sul potere politico, ovvero delle norme che portassero “al riconoscimento di un ruolo autonomo della dirigenza” 15 .

Lo scopo del Mortati era quello di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici al fine di “avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non una amministrazione dei partiti ”; tuttavia il Mortati evidenziava che, insieme alle garanzie di indipendenza, occorreva rimarcare“il principio di responsabilità dei pubblici funzionari”.

Tuttavia la proposta di introdurre nella Costituzione il principio di distinzione tra la politica e l’amministrazione non trovò favorevole accoglimento, affidando al legislatore ordinario il compito di organizzare l’amministrazione pubblica secondo i principi e le indicazioni della Carta repubblicana.

Nella sostanza, quindi, anche dopo l’approvazione della Carta Costituzionale, i rapporti tra potere politico e potere amministrativo continuavano a propendere a favore del primo.

Per osservare sostanziali mutamenti del modello normativo delle relazioni fra politici e burocrati, bisognerà aspettare gli anni Settanta.

 

Capitolo I – 4. Evoluzione della legislazione sul pubblico impiego prima della privatizzazione: il d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, e l’istituzione della dirigenza dello Stato

Una prima apertura verso l’autonomia dirigenziale si ha con l’approvazione del Testo Unico del 1957 per gli impiegati civili dello Stato.

La norma citata inquadra quattro tipi di carriere: direttive, di concetto, esecutive e, da ultimo, di personale ausiliario.

In particolare la norma in questione dispone che i direttori generali provvedono direttamente ad emettere gli “atti vincolati di competenza” dell’amministrazione centrale e dispongono per quelli dovuti da organi inferiori, qualora siano stati da questi indebitamente omessi e non sia previsto da una legge l’intervento di altri organi amministrativi.

E’ evidente che la norma in parola, sebbene avesse un’evidente portata limitativa nel fatto che il trasferimento della competenza ai direttori generali si circoscrivesse ai soli provvedimenti vincolati, costituisce un primo passo verso la responsabilizzazione delle figure dirigenziali.

Un’importante innovazione si verificò con l’approvazione della legge delega 28 ottobre 1970, n. 775, cui seguì il d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748 (Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo); con tale norma, infatti, fu istituita la dirigenza amministrativa nelle amministrazioni statali, con l’obiettivo di attenuare la relazione gerarchica tra organi politici e uffici burocratici, e di attribuire alla dirigenza maggiori poteri. In definitiva, il presupposto della riforma del ‘72 era che l’indirizzo amministrativo venisse nettamente distinto da quello politico: al ministro sarebbe dovuto spettare solo il compito della determinazione delle direttive generali; mentre al dirigente la loro attuazione 16 .

Con questa riforma si addiviene, per la prima volta nell’ordinamento italiano, al riconoscimento a favore della dirigenza di poteri decisionali propri, anche relativi ad atti che impegnino l’amministrazione verso l’esterno. Altresì si delinea, seppure a carattere generale, il principio di separazione tra le funzioni di indirizzo e le funzioni di gestione; infine, si stabilisce una “primordiale” responsabilità dirigenziale di tipo gestionale 17 .

Si cercava, con questo nuovo modello, di sottrarre l’alta burocrazia alla piena dipendenza gerarchica dal ministro che contraddistingueva il periodo precedente, trasformandola in un corpo di collaboratori del vertice politico dotato di competenze proprie ed autonome 18 .

Tuttavia il ministro conserva il potere di intervento sugli atti dirigenziali a mezzo dell’adozione di atti formali di annullamento, revoca o riforma dei provvedimenti dei dirigenti (da adottare entro un breve termine) ovvero, per limitate categorie di atti, con provvedimenti espliciti di riserva a sé o di avocazione di questioni.

La riforma non diede i risultati sperati per effetto di due forze contrapposte, ma convergenti nei risultati: da una parte, per la resistenza dei vertici politici a privarsi del potere che avevano da sempre esercitato e che hanno continuato di fatto a conservare; e, dall’altra, per l’atteggiamento passivo dei dirigenti, intimoriti dalle nuove competenze che la legge comportava.

In ogni caso il semplice fatto di aver cercato pensare ad un modello di amministrazione imparziale, poco condizionabile dalle ingerenze politiche costituisce un primo passo per l’attuazione del disegno costituzionale contenuto negli artt. 97 e 98 della Carta Costituzionale.

Dopo il “primo passo” del ‘72, la problematica del rapporto tra politica e amministrazione si è riproposta a partire dalle riforme dei primi anni novanta del secolo scorso; sarà a partire da questo periodo, infatti, che la distinzione tra le funzione di indirizzo politico-amministrativo e le funzione di gestione amministrativa si affermerà definitivamente e condurrà (almeno in teoria) alla creazione di un’autentica classe dirigente amministrativa autonoma e responsabile.

Già con la legge 23 agosto 1988, n. 400, sulla disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il legislatore preannunciava la volontà di distinguere nettamente tra governo ed amministrazione.

Un ulteriore intervento riformatore è stato attuato con la legge n. 142 del 1990 sull’ordinamento delle autonomie locali, grazie alla quale si apre una prospettiva completamente nuova per quanto concerne la disciplina della dirigenza comunale e provinciale. Per questo motivo non può esser messa in discussione l’importanza di questa legge, che ha introdotto in maniera chiara ed univoca – a livello di autonomie locali – il principio di separazione tra politica ed amministrazione.

In base a questo principio, la definizione degli obiettivi e i poteri di indirizzo e controllo spettano agli organi di direzione politica; mentre la gestione amministrativa è affidata alla dirigenza.

Questo è ciò che si desume dallo stesso art. 51 della legge 142/90 il quale, nel secondo comma, dispone che “spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti” ; al terzo comma, invece, precisa che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell’ente” .

 

Capitolo I – 5. La “prima privatizzazione”: separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa

Con lo “storico” D.lgs. n. 29 del 1993, che introduce, tra l’altro, la cosiddetta “prima privatizzazione del pubblico impiego”, il rapporto politica-amministrazione e la disciplina della dirigenza si trasforma profondamente per l’introduzione, di due sostanziali novità: da una parte, la chiara distinzione di ruoli fra organi politici e burocrazia e l’attribuzione di una autonomia gestionale alla dirigenza; e, dall’altra, l’estensione di questa distinzione a tutti i settori dell’amministrazione (e non solo agli enti locali).

Con il nuovo assetto disegnato dal legislatore, non sussiste più una relazione di tipo gerarchico tra dirigenza e organo politico.

Com’è stato sottolineato da più parti, il rapporto tra organi politici e la dirigenza, fino ad oggi improntato da un modello gerarchico,“assume più chiaramente i connotati di un rapporto di direzione, cioè di una forma di sopraordinazione diversa, per qualità e intensità, rispetto alla gerarchia” 19 .

Il rapporto di direzione, infatti, risulta privo del potere di ordine dell’organo sovraordinato, rimpiazzato dal potere di emanare indirizzi e direttive. Da questo punto di vista, mentre l’ordine richiede una pura e semplice applicazione, la direttiva, dal canto suo, implica un adattamento valutativo, operato da parte dell’ufficio subordinato. Inoltre, qualora risultasse motivata, ammetterebbe la non attuazione.

Occorre evidenziare che la prima formulazione della legge, lascia in capo alla politica il compito di avocare a sé gli atti per particolari motivi di necessità ed urgenza, evidenziando un residuo potere gerarchico che nel tempo verrà rimosso (art.14 comma 3 della L. 29/1993) .

In conclusione, può dirsi che sebbene il legislatore del ’92-’93 sia stato molto chiaro e determinato sul profilo funzionale (assetto dei poteri) del rapporto tra i due poli dell’organizzazione amministrativa, come dimostra la separazione dei compiti formulata; d’altro canto, non ha sciolto il nodo di fondo della fisionomia del profilo strutturale (assetto organizzativo) del rapporto tra politica e amministrazione, ed ha perso così di vista l’inevitabile strettissima connessione tra i due piani 20 .

 

Capitolo I – 6. La “seconda privatizzazione”: l’estensione del modello privatistico al rapporto di lavoro pubblico

Con le ”riforme Bassanini” ed in particolare con la legge 15 marzo 1997, n. 59 (nota come “ prima legge Bassanini”) cui fanno seguito alcuni decreti attuativi, quel processo di distinzione-separazione del rapporto tra funzioni politiche e funzioni amministrative sembra completarsi.

Da questa prospettiva, l’art. 11 comma 4 della legge 59/1997 delega al Governo per completare “l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” . A tal fine il Governo, in sede di adozione dei decreti legislativi, si atterrà ai princìpi contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ed al principio della distinzione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità

di direzione delle amministrazioni.

La riforma completa il processo di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego ed al contempo riafferma in punto di diritto la distinzione tra funzioni di indirizzo politico e di gestione amministrativa, con la riformulazione dell’articolo 3 del decreto legislativo 29/1993, in cui il legislatore si preoccupa di precisare il criterio di riparto tra le competenze degli organi politici e quelle degli organi burocratici 21 .

Del resto, con il d.lgs. 80/1998 si abolisce il ricorso gerarchico in capo al Ministro contro gli atti dei dirigenti, al fine di realizzare un’ulteriore distinzione tra politica ed amministrazione. Così, in conformità a quanto disposto al comma 3 del nuovo art. 14 del d.lgs. n. 29, gli organi politici non possono in alcun modo annullare, revocare, riformare o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti, pena l’alterazione e la vanificazione della suddetta responsabilità dirigenziale per i risultati.

L’unica eccezione a tale divieto è prevista in caso di inerzia o di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, che determinino pregiudizio per l’interesse pubblico. In tal caso, il ministro, dando comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri del relativo provvedimento, può nominare un commissario ad acta per il compimento di atti di competenza dirigenziale.

Ciò che importa sottolineare è che, a differenza di quanto accadeva originariamente con il c.d.“potere di avocazione ministeriale”, il nuovo meccanismo risulta più rispettoso della distinzione di ruoli fra organi politici e dirigenza, nel senso che l’intervento del ministro sull’amministrazione non è più legato ad una valutazione politica (necessità e urgenza), bensì ad un dato oggettivo (inerzia o grave inosservanza delle direttive generali che siano fonte di pregiudizio) 22 .

Si introduce altresì, con la nuova normativa, l’estensione del cosiddetto principio della temporaneità degli incarichi dirigenziali, finalizzata a introdurre una maggiore flessibilità e mobilità nei vertici delle pubbliche amministrazioni. In questo contesto, nel biennio 1998-1999 è stato stabilito, in primo luogo, la cessazione degli incarichi dirigenziali esistenti, da confermarsi entro novanta giorni; in secondo luogo, per quanto riguarda gli incarichi dirigenziali più alti –Segretario generale di ministero, Capo dipartimento, ecc. – potevano essere confermati, revocati, modificati o rinnovati entro novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo; in terzo luogo, tutti gli incarichi dirigenziali di direzione degli uffici delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, dovevano essere conferiti a tempo determinato, per una durata non inferiore a due e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo; ed infine, la possibilità, per i ministri, di conferire incarichi dirigenziali entro il limite del 5% delle figure dirigenziali, a persone scelte dall’esterno che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche e private, con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro, o provenienti dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato 23 .

Questa nuova situazione – ovvero l’introduzione del principio di temporalità di tutti gli incarichi dirigenziali, da una parte, e lo stabilimento di una sorta di meccanismo di “spoil system” per le cariche di maggior rilievo, dall’altra – è stata fortemente criticata dalla dottrina scientifica 24 .

A tal proposito, è stato efficacemente osservato che  assoggettando conferimento, conferma e cessazione degli incarichi dirigenziali ad una così forte discrezionalità degli organi politici (discrezionalità che va ben al di là del già previsto potere di revoca dell’incarico dirigenziale a seguito del mancato conseguimento dei risultati) si promuove la politicizzazione dell’alta burocrazia, a detrimento del principio costituzionale di imparzialità dell’amministrazione, e si fa rientrare dalla finestra quella sovrapposizione della politica sull’amministrazione che si è dichiarato di voler tenere fuori dalla porta  25 .

In tal senso, una parte della dottrina ritiene che il legislatore parte da una diagnosi giusta e propone un obiettivo anch’esso giusto, ma il mezzo prescelto ovvero il ricambio per nomina politica dei dirigenti e la loro precarizzazione, non era l’unico strumento adottabile per raggiungere l’obiettivo, e neppure quello più efficace. La ricerca di una maggiore flessibilità e mobilità (fattori che hanno provocato un cambiamento) “si sarebbero potuti ottenere con la selezione sulla base del merito e non dell’anzianità […] piuttosto che «azzerando» la dirigenza e rimettendo la sostituzione a un giudizio del governo, e con un sistema imparziale di valutazione periodica, seguito dalla dismissione in caso di giudizio negativo, piuttosto che limitando dall’inizio la durata nella carica dei dirigenti” 26 .

In definitiva, si può affermare che con la disciplina del ’98 è stata iniziata una fase di precarizzazione e politicizzazione della dirigenza pubblica che, come si vedrà, aumenterà notevolmente con la legge novella del 2002 e proseguirà fino ai giorni nostri.

In particolare le cd. riforme Bassanini (ed in particolare la L.127/1997) seppure in linea di principio hanno ribadito la separazione delle competenze tra politici e dirigenti, hanno nella sostanza rafforzato un meccanismo di pesante condizionamento dei primi sulle carriere dei secondi (meccanismi di nomina e revoca nonché di conferimento degli incarichi dirigenziali e delle connesse indennità di posizione), tale da vanificare di fatto il principio suindicato e da configurare una sorta di governo del capo dell’amministrazione, per interposta persona, quella dei dirigenti e, ove nominato del direttore generale.

Un ulteriore passo indietro è introdotto dalla legge 191/98, la cd. Bassanini-ter, che annulla il principio di separazione delle competenze con la riforma del novellato dell’art.51 della L142/90 e l’introduzione con l’art.51 bis e l’art.51 ter, per il capo dell’amministrazione di investire delle competenze dirigenziali, con proprio atto, i responsabili dei servizi e degli uffici seppur privi di qualifica dirigenziale ovvero, se del caso, i segretari comunali secondo il disposto del “ regolamento sul funzionamento degli uffici e dei servizi” la cui competenza è attribuita alla giunta comunale 27 .

Infine occorre dire che la riforma si completa con il d.lgs. 286/99 che sostituisce il sistema dei controlli, incentrati su valutazioni di legittimità dell’azione amministrativa, con un rinnovato sistema di valutazione dell’azione della P.A. mirante a valorizzare i risultati dell’azione e non le modalità attraverso cui si raggiungono tali risultati. Si introduce infatti il cosiddetto controllo di gestione ed il controllo strategico, oltre che un complesso sistema di valutazione della dirigenza.

 

Capitolo I – 7. La “terza fase” della riforma: il testo unico del “pubblico impiego, la riforma del titolo V della Costituzione, le innovazioni della Legge 15 luglio 2002, n. 145 e la “riforma Brunetta”

Nel 2001 si susseguono importanti novità che rivoluzionano ulteriormente il rapporto politica e amministrazione attiva.

Viene introdotto il testo unico del pubblico impiego (d.lgs. 165/2001) ed entra in vigore un’articolata riforma del titolo V della Costituzione, che si rivelerà piena di insidie per la scarsa chiarezza nella ripartizione di compiti e funzioni tra lo Stato e le Autonomie territoriali.

Tentativi di “raffinare” il concetto di separazione tra politica e amministrazione non si sono fermati; numerose sono state infatti le riforme (e/o i tentativi di riforma) che si sono susseguiti nel tempo per ottimizzare le relazioni tra politica a amministrazione.

In sintesi si ripropongono le principali riforme della pubblica amministrazione:

– con la legge 15 luglio 2002, n. 145, è stato rafforzato il concetto di “ spoils system” ovvero della possibilità per il politico di turno, una volta eletto, di identificare in via sostanzialmente fiduciaria il proprio dirigente cui assegnare il compito di raggiungere l’obiettivo di realizzare le proprie politiche;

– con D. Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (la c.d. “Riforma Brunetta ”), ha preso avvio la “Terza riforma del pubblico impiego”; il nuovo corpo normativo, chiamato a dare attuazione alla legge delega 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, riguarda i lavoratori pubblici «contrattualizzati» (art. 1, comma 1) e va ad innovare ampiamente la disciplina del lavoro pubblico recata dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

Gli obiettivi perseguiti dalla riforma, individuati nell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 150/2009, sono una «migliore organizzazione del lavoro, il rispetto degli ambiti riservati rispettivamente alla legge e alla contrattazione collettiva, elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, l’incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera, il riconoscimento di meriti e demeriti, la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, il rafforzamento dell’autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza, l’incremento dell’efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo, nonché la trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche anche a garanzia della legalità» .

Tra le principali novità proposte dalla Riforma Brunetta si segnalano:

1. l’introduzione del concetto di “performance” e, al contempo, di un ciclo di gestione della performance medesima, mirato a supportare una valutazione delle amministrazioni e dei dipendenti volta al miglioramento e al riconoscimento del merito;

2. la previsione di uno stretto collegamento tra performance, valutazione, premialità e trasparenza;

3. una procedura semplificata per le sanzioni disciplinari, con la definizione di un catalogo di infrazioni particolarmente gravi assoggettate al licenziamento;

4. la riforma della contrattazione collettiva, volta a chiarire i differenti ambiti di competenza dell’amministrazione e della contrattazione;

5. il rafforzamento delle responsabilità dirigenziali 28 .

Anche questo tentativo di ottimizzazione della pubblica amministrazione si è rivelato “insufficiente”, al punto che oggi si rinnova nuovamente, con la legge n.124/2015 (cd.“riforma Madia” ), il dibattito sul rapporto tra politica ed amministrazione e si mira a riformare nuovamente la dirigenza pubblica.

 

Capitolo I – 8. Lo stallo nel rapporto politica/amministrazione attiva come presupposto della profonda crisi di sistema che danneggia la crescita economica del Paese. Il “tentativo Madia” di riforma della dirigenza pubblica

In un illuminante lavoro del 2014, dal titolo “venti anni di politica e amministrazione in Italia”, la Scuola Nazionale della Amministrazione (SNA) e l’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione (IRPA), nella premessa, evidenziano che “ La disciplina delle relazioni tra politica e amministrazione è elemento centrale di pressoché ogni sistema amministrativo contemporaneo. In Italia, dopo il fallimento delle prime esperienze negli anni Settanta del XX secolo, la separazione tra politica e amministrazione fu introdotta, anche sulla base di precedenti sperimentazioni (e in particolare della legge n. 142 del 1990 sull’ordinamento degli enti locali), con la c.d. “delega Amato” del 1992 e con il d.lgs. n. 29 del 1993.

Questa ricerca, con indagini sul campo (interviste e seminari ad hoc) ed esaminando dati e statistiche, verifica lo stato di attuazione del principio di separazione tra politica e amministrazione in Italia a vent’anni dalla sua introduzione. I risultati confermano che la riforma del 1993 ha avuto esiti certamente poco lusinghieri, non solo per i suoi limiti originari, ma anche per il modo in cui essa è stata “corretta” e interpretata. Sotto il profilo funzionale, dopo venti anni, la distinzione tra funzioni di indirizzo e funzioni di gestione non è sempre agevole, ma questa difficoltà è stata spesso usata come “arma” o pretesto sia per conservare competenze amministrative degli organi politici, sia per non esercitare correttamente l’attività di indirizzo: lo confermano, ad esempio, i numerosi atti “ibridi” ancora esistenti e i molti organi collegiali ancora operanti (basti citare la commissione edilizia in ambito comunale). Sotto il profilo strutturale, la situazione è ancora più preoccupante. Da un lato, la disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali è divenuta strumento di fidelizzazione dell’amministrazione alla politica; dall’altro lato, le strutture di raccordo concepite per facilitare la separazione di funzioni, ossia gli uffici di diretta collaborazione, sono divenuti strumento per consolidare l’ingerenza politica e la commistione dei compiti.

A tutto ciò il legislatore non ha saputo porre rimedio. Sono ancora numerose le leggi di settore che mantengono competenze amministrative degli organi politici. La disciplina generale del procedimento amministrativo non fornisce indicazioni sulla distinzione delle funzioni e, in più, riconosce alla parte politica rilevanti attività amministrative (come in sede di conferenza dei servizi). Nel caso della nomina dei dirigenti, poi, proprio i c.d. interventi “correttivi” hanno aggravato la situazione, favorendo la fidelizzazione della dirigenza. D’altra parte, le numerose pronunce della Corte costituzionale confermano che le misure legislative non hanno contribuito ad una attuazione “virtuosa” della separazione tra politica e amministrazione. E proprio la giurisprudenza – sia costituzionale, sia di legittimità – ha avuto un peso decisivo nell’arginare le derive legislative.

Vi è, dunque, l’assoluta necessità di una riforma puntuale, mirata a correggere davvero i limiti emersi in questi venti anni di mancata separazione tra politica e amministrazione. Non si tratta dell’ennesima riforma legislativa, ma di cambiare il modo di governare, ricorrendo anzi a meno leggi e interessandosi maggiormente della realizzazione degli obiettivi .”

Secondo alcuni la riforma Madia sarebbe stata la risposta a questo stato di cose.

La stessa riforma, però, non è andata in porto a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 251 del 25 novembre 2016 che, senza entrare nel merito dei contenuti del testo normativo, ha rilevato un difetto di delega nella legge. In effetti la Corte Costituzionale, limitatamente alle materie che possono andare a confliggere con gli interessi specifici delle Regioni, ha affermato l’illegittimità costituzionale della previsione del mero parere in Conferenza unificata, piuttosto che invece quella della previa intesa in sede di Conferenza Stato Regioni.

L’intesa presuppone un accordo, il parere presuppone semplicemente l’acquisizione appunto di un parere, di un’opinione, lasciando il campo libero poi alla conseguente iniziativa governativa 29 .

Nel merito la riforma è stata fortemente criticata dalla associazioni di categoria perché, a differenza di quanto sostenuto dal governo e da alcuni autorevoli esperti 30 , la norma in parola aumenta il rapporto di “fidelizzazione” a scapito dell’”imparzialità” della dirigenza pubblica 31 .

E’ opinione diffusa, come rilevato anche nel citato studio della SNA e IRPA, che al fine di assolvere al precetto costituzionale e combattere la diffusa percezione di una pubblica amministrazione veicolo di corruzione:

  1. La subordinazione dei dirigenti pubblici ai politici rende evanescente anche la distinzione funzionale di ruoli e responsabilità tra le due componenti al vertice dell’amministrazione. Infatti, se i dirigenti sono «manipolabili e persino ricattabili», il corpo politico può riappropriarsi della gestione, senza tuttavia assumerne la corrispondente responsabilità.”
  2. La classe politica accettò volentieri di rendere l’alta dirigenza responsabile, anche giuridicamente, di tutti gli atti di gestione. Non può dimenticarsi che lo sfondo nel quale questa disciplina fu adottata è rappresentato dall’“intrico” d’inchieste giudiziarie che porteranno alla dissoluzione dei partiti politici dell’area dell’allora maggioranza parlamentare.L’imputabilità diretta ed esclusiva dei dirigenti a seguito dell’esperimento dell’azione penale è stata accolta con sollievo dai politici sopravvissuti a “tangentopoli” o da questa vicenda collocati al centro della vita istituzionale.”
  3. Nel nuovo regime, la dirigenza migliora notevolmente le proprie condizioni retributive e ottiene che l’instabilità dell’incarico non comporti la precarietà del rapporto di lavoro . Con la fidelizzazione politica, la dirigenza continua a sfuggire a meccanismi in cui la carriera sia legata a un accertamento oggettivo della professionalità e della produttività. Come si è visto, i vari espedienti che rendono gli incarichi temporanei svuotano l’istituto della responsabilità dirigenziale. La tendenza all’alternanza tra i due schieramenti politici principali consente alla dirigenza schierata politicamente di alternarsi negli incarichi meglio retribuiti (senza considerare una certa tendenza al camaleontismo politico ). Ciò permette a una caratteristica originaria della dirigenza pubblica, quella di formare una “società di uguali non meritocratica”, di transitare nel nuovo regime. Se nel primo ventennio si faceva carriera per anzianità, nel secondo si va avanti per consentaneità politica. Ma né ora né allora la professionalità, la capacità e il merito giocano un ruolo decisivo” 32 .

Solo un anno dopo la pubblicazione di questo quaderno di ricerca il Governo della Repubblica proponeva al Parlamento un testo di legge che secondo autorevoli commentatori sarebbe agli antipodi rispetto alle osservazioni e alle raccomandazioni lì contenute 33 .

 

CAPITOLO II – GLI EFFETTI DELLE RIFORME SUL RAPPORTO POLITICA AMMINISTRAZIONE ATTIVA

CAPITOLO II – 1. Il punto di vista del funzionario dell’ente locale

L’articolo del prof. Sabino Cassese dal titolo “l’imbuto dello Stato inefficiente” 34 apparso sul corriere della sera del 3 gennaio u.s. sembra sostenere la necessità che la pubblica amministrazione si svincoli dalle indebite pressioni dell’attività politica, perché: ”Gli Stati si reggono su due basi, la politica e l’amministrazione. Se la politica vacilla, come accadrà per qualche anno in Italia, a causa delle incertezze delle forze in campo, solo una buona amministrazione, attenta ai bisogni dei cittadini, può salvare il Paese dal declino”.

Il prof. Cassese denuncia, nel suo articolo, il fallimento della contrattualizzazione dell’impiego pubblico (intesa come privatizzazione dello stesso), la politicizzazione delle burocrazie, la generalizzazione del sospetto di corruzione, l’introduzione dello «spoils system» che ha reso dipendenti dai partiti gli impiegati, ai quali la Costituzione impone di essere imparziali.

Allora è indispensabile avviarsi ad una pubblica amministrazione (ed in particolare ad una dirigenza della pubblica amministrazione) che ispiri realmente il proprio operato al rispetto dei principi costituzionali di“imparzialità” “buon andamento”, consapevole che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (art.98 cost.).

Per raggiungere questo obiettivo occorre svincolare i decisori della pubblica amministrazione dal potere politico, che per evidenza manifesta che non può essere assimilato al potere dell’imprenditore privato.

Ma come si può svincolare il funzionario della Pubblica Amministrazione dal subire le pressioni, talvolta legittime talvolta indebite, dei rappresentanti del popolo ?

Il principale dilemma da risolvere per tutti quei dipendenti della Pubblica Amministrazione consapevoli del ruolo che la Costituzione gli attribuisce, stante l’attuale regime normativo (e quello che secondo autorevoli commentatori sembrerebbe ulteriormente configurarsi in concreta attuazione della cd. riforma Madia della dirigenza pubblica) è: – conviene svolgere il proprio lavoro con impegno, sacrificio e coerenza, nel rispetto dei principi costituzionali di “imparzialità” e “buon andamento” anche contro gli interessi ed i dettami del politico di turno ? 

La domanda sembrerebbe retorica: – chi lavora per la pubblica amministrazione è tenuto alla sola applicazione della legge (principio di legalità) e, di conseguenza, deve respingere (qualche integralista direbbe “denunciare”) ogni proposta, più o meno larvata, di adottare atti e comportamenti volti ad assecondare la volontà del politico che, per molteplici ragioni, potrebbe indurre ad assumere un provvedimento illegittimo o addirittura illecito -.

Pur tuttavia chi opera con funzioni decisionali nella pubblica amministrazione sa che, spesso, gli può essere richiesto di assumere decisioni “borderline” (cioè al limite dei valori di tolleranza), sfidando la sorte e affidandosi a doti di equilibrista che non tutti possiedono. Del resto la normativa italiana, come noto ai più, è farraginosa e complessa e lascia ampi spazi di interpretazione, che un qualsiasi buon funzionario, nel desiderio collettivo dei politici italiani, deve saper leggere secondo le direttive del gruppo di maggioranza, che è tenuto, per volontà del “popolo sovrano”, ad individuare gli obiettivi di interesse pubblico (che spesso dalla classe politica vengono confusi con gli interessi del proprio manipolo di grandi elettori votanti) da perseguire con efficienza, efficacia ed economicità.

In altre parole sarà capitato a moltissimi funzionari pubblici (soprattutto se dipendenti degli enti locali) di essere accusati di incompetenza, inefficienza o di eccessiva burocratizzazione delle procedure, quando si è segnalata una possibile illegittimità dell’azione amministrativa in un dato procedimento, con conseguenti pressioni rimproveri, offese e in qualche caso minacce da parte degli amministratori di turno; al contrario, sarà capitato a moltissimi funzionari pubblici di ricevere encomi ed apprezzamenti pubblici quando si è adottato, anche con coraggio, un provvedimento palesemente illegittimo ma non oggetto di ricorso dinanzi al TAR nei canonici sessanta giorni e pertanto pienamente efficace per il decorso del termine di impugnativa.

Tali accadimenti sono frutto del convincimento del “ politico moderno” (quello post riforma Bassanini per intenderci) secondo cui il “funzionario pubblico ” è colui il quale deve dare la soluzione attuativa alle scelte politiche proposte, anche quando questi ritiene che esse non possono essere attuate nei modi e nei tempi che la politica auspica ; per questo motivo al funzionario è richiesto di muoversi, con maestria, in quella “nuvola grigia” che è la discrezionalità amministrativa che la legge, per definizione ”generale ed astratta”, garantisce agli operatori sul campo.

Invero, nel convincimento di buona parte della classe politica italiana, un buon funzionario è un soggetto al quale il politico rivolge una domanda della quale egli già conosce la risposta. Al funzionario il politico richiede, in maniera in certi casi “larvata”, in altri casi “espressa”, di attribuirsi la paternità della risposta che egli si attende alla propria domanda, riservandogli la possibilità di “scegliersi la forma“ con cui tradurre in atti e comportamenti amministrativi la soluzione precostituita.

Il politico, infatti, non sindacherà mai la premessa o la narrativa di un atto amministrativo, ma giudicherà l’operato del funzionario sulla base del contenuto del dispositivo adottato (fosse anche il silenzio o il ritardo nell’adozione dell’atto stesso); il politico si riserverà solo successivamente, in caso di provvedimento ritenuto illegittimo (o addirittura illecito) da parte della magistratura, di attribuire l’esclusiva paternità della decisione al funzionario, cui compete, in attuazione della cosiddetta “riforma Bassanini”, la titolarità della decisione.

 

Capitolo I – 2. La corruzione e gli effetti sul progresso economico-sociale del Paese

La riforma della fine degli anni ’90 si è tradotta in una sostanziale deresponsabilizzazione della classe politica, che di contro è “costretta” ad affidare l’implementazione delle proprie decisioni e le proprie scelte ai dipendenti della pubblica amministrazione.

La ragione per la quale la classe politica accettò volentieri che i funzionari responsabili, assumessero la piena responsabilità giuridica di tutti gli atti di gestione, come si è già detto, è nel susseguirsi di eventi che ha portato al crollo della cd. ”prima Repubblica” per effetto delle inchieste giudiziarie a tutti note come “ tangentopoli.

La classe politica ha dovuto quindi “uniformarsi” alle nuove regole del gioco.

Infatti, se da un lato questo nuovo regime allontana gli attori della politica dal rischio di essere direttamente coinvolti in episodi in cattiva amministrazione, dall’altro li obbliga alla ricerca di “ dipendenti fedeli” (non necessariamente assunti a tempo indeterminato), a scapito eventualmente altri dipendenti più rigorosi nell’interpretazione del ruolo costituzionalmente attribuitogli e pertanto meno predisposti ad assecondare le pressioni esterne.

Per questo motivo la carriera dei dipendenti pubblici si è progressivamente legata all’appartenenza politica.

La cronaca giudiziaria è oramai colma di casi di funzionari pubblici la cui “contiguità” col potere politico “diventa complicità“.

In tutti o quasi tutti questi scandali, i protagonisti sono Sindaci o Assessori, collusi con dirigenti infedeli, in molti casi in aperto dissidio con altri dirigenti e funzionari pubblici che scoperchiano il malaffare e che vengono lasciati soli a combattere la loro battaglia per la legalità.

La sensazione è di una battaglia che miete vittime da una parte e dell’altra: da un lato “politici e funzionari onesti” che non riescono a dare piena attuazione al proprio “mandato elettorale” o al proprio “ruolo istituzionale”, costretti spesso all’isolamento dopo le proprie prese di posizione o le proprie denunce; dall’altro lato “ politici e funzionari collusi o corrotti”, che hanno una visione del bene pubblico personalistica e che mirano al proprio arricchimento personale nelle forme più disparate.

In concreto il risultato percepito dai cittadini è che la riforma in atto da venti anni abbia aumentato il grado di commistione tra politica e burocrazia, accrescendo la percezione del fenomeno della corruzione all’interno delle pubbliche amministrazioni.

 

Capitolo II – 3. Gli auspici falliti della privatizzazione del pubblico impiego

Eppure la riforma che mirava alla privatizzazione del pubblico impiego era stata presentata come la panacea di tutti i mali.

Applicare le regole dell’impresa privata alla pubblica amministrazione è sembrato per qualche tempo sinonimo di “efficienza”; tuttavia non si è tenuto conto che “Quel che caratterizza la posizione del manager privato è, però, la precarietà: l’imprenditore, per la natura del rapporto che lo lega al manager, può deciderne il licenziamento ad nutum, in nome della legge del profitto e della libera disponibilità del bene di proprietà. Tale condizione non può essere trasposta tout-court nella dirigenza pubblica, perché la suastabilità è una condizione indispensabile per il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità della burocrazia (art. 97 cost.), anche in virtù della particolare circostanza della temporaneità del mandato elettorale” 35 .

Per misurare le capacità del dipendente pubblico si sono introdotti vari sistemi di misurazione delle capacità, da ultimo la misurazione della performance con la cd.“riforma Brunetta“.

Tali criteri, che avrebbero dovuto introdurre virtuosi meccanismi di concorrenzialità tra dipendenti, così come avviene nelle imprese private, si sono rivelati, il più delle volte, “fallimentari”.

Eccetto rare eccezioni, che pur esistono, l’attribuzione del salario accessorio segue, ancora oggi, la vecchia logica della “ distribuzione a pioggia”, anche perché non è “conveniente” per i politici (o per i dirigenti da questi nominati) premiare solo i fedelissimi, per sterilizzare il rischio di “rivolte” tra i dipendenti stessi, che spesso sanno ma, per quieto vivere, fanno finta di non sapere.

In conclusione le “riforme Bassanini”, che sulla carta avrebbero voluto dare piena attuazione al principio della distinzione tra attività politica, libera nei fini e nelle forme ed attività amministrativa, finalizzata a perseguire i fini individuati con l’attività politica mediante attività vincolate nei mezzi e talvolta nelle forme, ha invece ottenuto il risultato di “favorire” l’attuazione di fenomeni distorsivi.

Il risultato concreto è che la riforma, contrariamente alla sua finalità dichiarata, ha aumentato il grado di politicizzazione della burocrazia locale di Comuni e Provincie in particolar modo di quella di qualifica dirigenziale: (fonte wikipedia) “questa legge (riferito alla Bassanini) avendo creato un sistema dove gli incarichi dirigenziali/apicali sono revocabili ad nutum dagli organi di governo politici, ed avendolo creato in costanza della giurisdizione del giudice civile ordinario sui rapporti di impiego dei dipendenti pubblici locali, ha in pratica contribuito fortemente ad indebolire l’imparzialità della burocrazia degli enti locali favorendo la fidelizzazione politica dei dirigenti.

Infatti nella cultura giuridica dei giudici civili ordinari del lavoro è molto scarsa l’attenzione sulla virtù e sull’imparzialità del funzionario pubblico, essendo il diritto civile da costoro applicato tutto basato sulle categorie semplicistiche dell’adempimento o dell’inadempimento al contratto (che a livello di giudizio comportano una sopravvalutazione dell’attitudine all’obbedienza al superiore e una considerazione meramente “quantitativa” dell’impegno profuso dai funzionari, con una conseguente trascuratezza rispetto a categorie di valutazione “qualitative” come ad esempio l’imparzialità procedimentale e la giusta tutela degli interessi dell’utenza e dei cittadini. In tal modo i dirigenti comunali sarebbero di fatto incentivati a schierarsi con un’appartenenza politica quale unico mezzo per vedersi garantita la carriera o almeno la posizione, non necessariamente omogenea al governo politico dell’ente locale (laddove sia abbastanza estesa da rendere tali burocrati una compatta opposizione interna).”

Occorre aggiungere che con le riforme in parola, la supremazia del “ principio di legalità” (cui tradizionalmente si ispirava il comportamento del “burocrate modello”) nell’attuazione dell’azione amministrativa è stata progressivamente sostituita o comparata con altri principi, come l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, la promozione dell’attività economica, il sostegno alle imprese locali, la necessità di garantire la salvaguardia degli equilibri di bilancio e così via.

In altre parole il rispetto della legge sembra non rappresenti più il principio guida dell’azione amministrativa ma appare, con sempre maggior frequenza, che il principio di legalità possa essere derogato in nome di un’interpretazione “elastica” della farraginosa normativa italiana, con lo scopo di raggiungere il fine (misurabile con il controllo di gestione ed il controllo di risultato) a prescindere dal mezzo (rispetto delle norme), anche nei casi in cui il fine non coincida con l’interesse pubblico bensì con gli obiettivi del politico di turno (spesso assimilabili al “facimm’ ammuina” della Real Armata di Mare del Regno delle due Sicilie) nel termine del mandato elettorale.

 

Capitolo II – 4. L’involuzione della figura del Segretario comunale e provinciale e la confusione nell’attribuzione di competenze generata dalla modifica del titolo V della Costituzione

Caso paradigmatico dell’evoluzione in negativo della tutela della legalità è la trasformazione del ruolo del “segretario comunale o provinciale”, che da “garante della legittimità” degli atti si è trasformato, per effetto della d.lgs. n.191/98, nel “braccio armato” del politico di turno con il compito di ricondurre a “giusta ragione” i comportamenti dei funzionari/dirigenti dissenzienti, sotto la pressante minaccia della revoca dell’incarico fiduciario da parte del Sindaco pro-tempore.

“ I segretari comunali, prima delle micidiali riforme degli anni ’90, univano alla garanzia di correttezza e legittimità dell’azione amministrativa nei comuni, una funzione di amalgama territoriale: erano dipendenti del Ministero dell’interno; per quanto i sindaci potevano orientare gli incarichi nelle sedi, erano i Prefetti a decidere delle loro destinazioni e su di loro non incombeva alcuno “spoil system”. Potevano esercitare il loro ruolo con autorevolezza e terzietà.

Il segretario comunale era visto dai sindaci come la garanzia che un atto importante superasse l’esame del Co.Re.Co.. Oggi, la visione distorta della funzione di assistenza giuridico amministrativa priva di ogni autorevolezza il parere del segretario, schiacciato dai pareri della Corte dei conti o dell’Aran, dalle linee guida o pareri dell’Anac, da mille altri pronunciamenti di organi, esortati per costruire quella visione “oppositrice” alla proposta gestionale, operativa e di legittimità del segretario” 36 .

In sintesi le “riforme Bassanini” hanno sostanzialmente “ reso inutile” quella che un tempo era una riconosciuta “figura di garanzia”.

L’abolizione dei controlli preventivi ha prodotto effetti ancor più paradossali.

Infatti, in nome di una presunta sburocratizzazione delle forme di controllo sugli atti, il controllo sugli atti amministrativi esecitato dal “vecchio CO.RE.CO.” è stato completamente abrogato, lasciando a tutela del principio di legittimità dell’azione amministrativa il solo controllo successivo del giudice amministrativo o del Presidente della Repubblica (attivabile solo in caso di ricorso nei termini prescritti, a costi non certo “popolari”) ed il controllo giudiziario (attivabile solo in caso sussistenza di ipotesi di reato, tutte da dimostrare – ex multis si rimanda alla lettura della recente sentenza della Corte di Cassazione n°5439 del 06.02.2017).

Inoltre avendo introdotto, nel 2001, con la riforma del titolo quinto della Costituzione, la potestà concorrente di Stato e Regioni in numerose materie dell’ordinamento, si è andato perdendo anche “il ruolo guida” dei ministeri nell’omogenea interpretazione delle norme attraverso le circolari interpretative e normative. La circolare è per definizione una comunicazione scritta da parte di un organo superiore volta a fornire indicazioni operative, disposizioni interpretative e/o modalità attuative; la pubblica amministrazione può, in via generale, discostarsi dalle indicazioni in essa contenute, motivando adeguatamente tale scelta sulla base della fattispecie concreta che si ritiene debba assumere la cura del pubblico interesse.

Il ruolo ministeriale di guida nell’operato della pubblica amministrazione è rimasto solo in materia demografica, laddove la competenza è ancora nazionale e, di conseguenza, le circolari ministeriali, al pari delle indicazioni delle Prefetture, hanno ancora ragione di esistere. Nelle altre materie, in nome del “principio di sussidiarietà”, si ci è affidati alle leggi (spesso scritte male) e ai regolamenti regionali e locali su cui non vi è, spesso, alcun controllo preventivo di legittimità (neanche quello del Segretario comunale/provinciale/regionale).

Il risultato di una tale architettura istituzionale è un aumento dell’entropia (ovvero della confusione) interpretativa, con la conseguenza che a fronte di domande analoghe del cittadino si ottengono, con sempre maggior frequenza, risposte differenti e cangianti.

Ciò produce imbarazzo per gli operatori sul campo che si sentono abbandonati al loro destino ed aumenta la sensazione dei cittadini comuni di illegalità e corruttela degli apparati pubblici.

E’ in questo “caos normativo” privo di “guide interpretative ”, dove il compito della decisione amministrativa è attribuito ad un‘unica persona (o al più a due persone, se si considera l’autonoma proposta del responsabile del procedimento) che si può manifestare la commistione innaturale tra burocrazia, politica e malaffare, a scapito dell’ ”interesse pubblico” e della “buona amministrazione” .

La causa di questo stato di cose non può essere addebitata ai dipendenti pubblici, una categoria sempre più demotivata, avanti negli anni e non adeguatamente istruita e aggiornata.

 

Capitolo II – 5. Il “capitolo formazione” dei dipendenti pubblici

In tal senso un cenno particolare merita il “capitolo formazione” dei dipendenti pubblici.

La parola formazione compare ben 28 volte nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 – “ Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ”.

La stessa direttiva Brunetta n°10 del 30 luglio 2010, nello spiegare l’ennesima riforma del pubblico impiego, ad un certo punto recita:“La formazione è, peraltro, una dimensione costante e fondamentale del lavoro e uno strumento essenziale nella gestione delle risorse umane. Tutte le organizzazioni, per gestire il cambiamento e garantire un’elevata qualità di prodotti e servizi, devono oggi fondarsi sulla conoscenza e sullo sviluppo delle competenze.”

Ebbene si può affermare, senza dubbio di smentita, che la formazione, soprattutto per gli enti locali, è spesso un “miraggio”; infatti, tranne rare eccezioni, negli enti locali manca ogni forma di programmazione della formazione del personale e quando la si attiva, la stessa è affidata a soggetti che non hanno mai concretamente operato come dipendenti pubblici e per questo non conoscono le difficoltà operative della categoria, con la conseguenza che le “lezioni” vengono percepite come mere “trattazioni teoriche” lontane dai bisogni giornalieri del dipendente stesso.

Al contrario l’attivazione di una formazione efficace dei dipendenti pubblici è indispensabile per evitare il “declino” delle istituzioni oltre che per garantire qualità ed uniformità nei servizi offerti; tale formazione dovrebbe essere effettuata principalmente da soggetti che hanno maturato la propria esperienza nella stessa pubblica amministrazione, trattando casi pratici di “best practice” (ispirandosi magari ai convegni medici in cui si illustrano gli interventi innovativi).

Andrebbero introdotti dei veri e propri “protocolli” cui i dipendenti pubblici devono ispirare le proprie istruttorie e le proprie decisioni, da diffondere mediante interventi di formazione continua ed obbligatoria. Si ridurrebbe in questo modo la “discrezionalità” nelle decisioni del singolo dipendente che, allo stato attuale delle cose, affida le proprie determinazioni alla personale sensibilità caratteriale, alle conoscenze ed esperienze maturate nel tempo, all’”interpretazione filosofica” del ruolo del dipendente all’interno della “malandata macchina amministrativa” o, ancor peggio, alla propria appartenenza politica e/o al proprio tornaconto personale.

Spersonalizzare” il ruolo decisorio, uniformandolo a comportamenti standardizzati e predeterminati può essere una delle misure utili per restituire fiducia nell’operato della P.A. (in questo senso deve essere salutato con interesse la recente normativa sulla SCIA unica sia in materia commerciale che edilizia di cui alla legge 124/2015 ed al d.lgs 126/2016 e al d.lgs. 222/2016, nonché l’approvazione dei modelli unici approvati in conferenza unificata pubblicati sulla G.U. n.128 del 05.06.2017).

 

Capitolo II – 6. Le misure anticorruttive introdotte a partire dalla L.190/2012

Anche le attuali misure anticorruttive, che si sintetizzano nella legge n. 190/2012 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” e nel decreto legislativo n. 33/2013 recante “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, si stanno rilevando insufficienti per arginare un fenomeno che sembra piuttosto un “malcostume” italiano.

La politiche anticorruttive, basate su ”codici di comportamento” e “piani anticorruzione” hanno da un lato aumentato gli adempimenti per i funzionari “onesti”, sempre più spaventati dal rischio di incorrere in errori sanzionabili nell’esercizio del proprio operato quotidiano e dell’altro hanno consentito ai funzionari “disonesti” di aumentare il prezzo del proprie prestazioni in ragione dell’aumento dei rischi.

Inoltre bisogna rivelare che i “piani anticorruzione” sono di frequente intesi dagli stessi operatori del settore (sia dipendenti pubblici che politici) come copiosi documenti da predisporre obbligatoriamente che nessuno legge ma che debbono essere redatti per evitare “noie” e sanzioni amministrative; del resto nessuno si interessa alla qualità ed alla diffusione del contenuto di questi documenti, così come alla verifica della loro attuazione.

Lo stesso principio secondo cui il controllo preventivo sulla corruzione è fondato sull’obbligo di rendere trasparente l’azione amministrativa (con la costruzione delle cosiddette “case di vetro”) a mezzo della pubblicazione di tutti gli atti adottati dall’amministrazione, si sta rivelando poco efficace.

Certamente l’introduzione nel sistema italiano del FOIA (freedom of information act) costituisce un primo passo per cambiare la cultura del controllo in Italia dove, sostanzialmente, è mancata“qualsiasi forma di controllo (dei cittadini) sull’attività dei pubblici ufficiali, poiché (…. si è sempre creduto …) questo compito spetta solo ai superiori gerarchici dei funzionari in questione” 37

Infatti non appartiene alla cultura italiana l’abitudine di conservare interesse a spendere il proprio tempo per seguire le vicende della pubblica amministrazione con lo scopo di “denunciare” tutte quelle situazioni anomale nelle fattispecie in cui le questioni non toccano direttamente i propri interessi.

Al contrario la paura di rappresaglie da parte dei potenti di turno “frena” l’accesso civico alla documentazione della pubblica amministrazione.

Inoltre bisogna riconoscere che l’associazionismo in Italia è “debole”; le azioni per risarcimento del danno da interesse diffuso o pretensivo delle poche associazioni che provano a costituirsi in giudizio non trovano facile accoglimento da parte del Giudice Italiano; a tale difficoltà va sommata la lunghezza dei processi civili che scoraggiano le azioni giudiziarie e la probabile prescrizione dei reati in caso di costituzione di parte civile nei processi penali.

Lo stesso istituto del whistleblowing, che in lingua italiana non è tradotto con un sostantivo ma che è genericamente definito come“l’istituto che tutela e incentiva chi segnala episodi corruttivi contribuendo a smascherarli”, non decolla.

Il whistleblower, che oggi qualcuno in dottrina definisce “il delatore pubblico” (con un’accezione del termine non certo positiva), in certi ambienti sarebbe definito come ”l’infame”, “lo spione” …. e ”lo spione” nell’ambiente di lavoro in cui ha evidenziato “fatti sconvenienti” deve continuare a lavorare ….

 

CAPITOLO III – LA RIFORMA POSSIBILE – MODIFICA DEL RAPPORTI TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE ATTIVA

Capitolo III – L’analisi dei comportamenti sociali dei cittadini italiani

L’incapacità di incidere delle attuali politiche anticorruttive impone una correzione di rotta che tenga conto dei costumi della società italiana, dove il ricorso alla raccomandazione è pacificamente tollerato, l’amicizia di un “potente” è considerata un vanto, la pretesa di legalità suscita l’interesse del cittadino solo quando l’azione illegittima (o illecita) lo lede direttamente.

Fino a che (come mi è capitato di constatare di persona durante la conduzione di un’indagine statistica) i cittadini riterranno il fenomeno “astratto” della corruzione un male gravissimo per la società (valutando la gravità del fenomeno pari a dieci in una scala di voto 0-10) salvo poi rispondere, al quesito successivo, di ritenersi disposti a ricorrere alla “raccomandazione” per garantire il lavoro ad un proprio figlio in cerca di occupazione, le politiche anticorruttive in Italia non avranno alcuna possibilità di successo.

Bisogna che si prenda atto del più classico dei mali italiani: quello di invocare l’onestà ed il cambiamento, salvo poi infuriarsi quando si è chiamati a pagare il prezzo del rispetto delle regole. Del resto tutti invochiamo la legalità, ma se questa poi arriva davvero ci sta stretta, perché in ognuno di noi c’è una parte di illegalità, cui siamo talmente abituati da aver pure dimenticato di averla.

Il sociologo americano Edward C. Banfield, in un noto saggio del 1959, ebbe modo di descrivere quello che ha individuato come una caratteristica peculiare di una comunità di un piccolo comune del sud Italia: “ il familismo amorale”.

Il familista amorale, caratterialmente avverso allo spirito di comunità, disposto a collaborare solo in vista di un proprio tornaconto, si comporta secondo la seguente “regola aurea”: “ massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, nel presupposto che tutti gli altri agiscano allo stesso modo” 38 .

Ebbene, il modello sociale descritto da Banfield nel lontano 1959 sembrerebbe aver “contaggiato” l’intera popolazione italiana al punto che alcuni illustri osservatori dei costumi sociali e politici del nostro paese addebitano buona parte delle difficoltà della nazione italiana a questo atteggiamento etico 39 .

Del resto l’Italia è il paese dove un Senatore della Repubblica che sedeva nei banchi della maggioranza, non più tardi di sette anni fa (anno 2010), sente il dovere di scrivere un libro dal titolo “M ignottocrazia” dove, in maniera feroce, descrive la deriva morale del sistema di potere in cui la corruzione, in senso a-tecnico, regna sovrana e il principale metodo per prendere l’ascensore sociale diventa quello del mercimonio del proprio corpo o, peggio, del proprio intelletto 40 .

Solo due anni prima (2008) Roger Abravanel, ingegnere specialista in business administration, consulente d’azienda da numerosi lustri, pubblica un libro dal titolo “Meritocrazia” in cui formula “quattro proposte per far risorgere il merito” in Italia. Nella post-fazione del 2011 si legge: “ oggi posso tranquillamente affermare che gli italiani sembrano aver capito che meritocrazia non significa penalizzare i più deboli. Il termine assume decisamente una valenza più positiva: gli italiani cominciano a capire che si tratta di un meccanismo che permette di far emergere l’eccellenza della classe dirigente, creando opportunità per tutti e ricchezza per il paese e che la meritocrazia ha permesso di ridurre l’ineguaglianza, perché ha aumentato le pari opportunità ” 41 . Secondo l’autore sarebbero esistite di fatto le condizioni per l’avvio di una rivoluzione del merito.

eppure un altro autore Alain Deneault, filosofo canadese, nel 2017 pubblica un libro dal titolo “la mediocrazia”, dove formula una teoria secondo cui i mediocri hanno oramai conquistato il potere 42 .

Non ci è dato stabilire con certezza se l’Italia è un paese dove il “modello sociale prevalente” fonda sulla “mignottocrazia”, sulla “ meritocrazia” o sulla “mediocrazia” o, ancora, se l’Italia è un paese in continua lotta per rinnovare (o ritrovare) la propria identità culturale.

 

Capitolo III – 2. La corruzione e gli effetti sul progresso economico-sociale del Paese

Tuttavia ciò che appare indubbio è che la corruzione (reale e/o percepita) produca effetti deleteri non solo sul piano morale, ma soprattutto sul piano economico e sociale.

La sensazione diffusa è che la corruzione, grande o minuta che sia, entri ogni giorno nelle nostre case e ci renda sempre più poveri.

Per dirla con la prefazione del recente libro del Presidente dell’ANAC, Raffaele Cantone: “ I soldi intascati dai corrotti significano opere pubbliche interminabili, edifici che crollano alla minima scossa di terremoto, malasanità, istituzioni al collasso, cervelli in fuga, giustizia drogata, mancanza di investimenti stranieri, ambiente violentato, politica inquinata. … Le regole del codice penale non bastano. Serve la prevenzione legislativa, amministrativa e cultuale. Serve, soprattutto la ribellione di ognuno di noi di fronte a quello “spuzza” di cui ha parlato papa Francesco nel suo indimenticabile discorso del 21 marzo 2015 davanti ai ragazzi di Scampia 43 ”.

Serve quindi la rivoluzione culturale proposta dal cantautore Brunori Sas nel brano “il costume da torero”; il testo della canzone recita: “non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è, ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me ”.

 

Capitolo III – 3. La speranza del riscatto attraverso una nuova politica legislativa

Questo rinnovamento culturale si rende indispensabile al fine evitare il declino del Paese; ma questo nuovo atteggiamento non innesterà alcun cambiamento se non è sostenuto da un valido sistema di regole, chiare egualitarie ed inderogabili, oltre che da un accorto sistema di controllo del rispetto delle regole stesse .

Nel commentare lo scandalo romano del 2014 noto come mafia capitale Sabino Cassese conclude il suo editoriale sul corriere della sera del 10 dicembre 2014 così:  Abbiamo bisogno di istituzioni perché gli uomini non sono angeli , diceva uno dei “padri fondatori” americani. Nel mondo molle dell’amministrazione romana, con tanti corpi ibridi, né pubblici né privati, ma che operano con risorse pubbliche, non vi sono regole, ma deroghe; non procedure, ma scorciatoie; non veri funzionari pubblici, ma uomini assoldati dalle fazioni. I diavoli, quindi hanno avuto la meglio” 44

 

Capitolo III – 4. Il superamento della “finta dicotomia politica amministrazione attiva”

Bisogna quindi abbandonare la schema tipico della cultura italiana – fate come dico ma non fate come faccio – e di conseguenza uscire da ogni finzione, a partire dal necessario superamento della finta “ dicotomia politica/amministrazione attiva”, alla quale le leggi Bassanini ci ha relegato.

Questo semplice obiettivo sarà raggiungibile restituendo il ruolo decisorio nell’adozione dei principali provvedimenti amministrativi (e di tutte le conseguenti responsabilità) ai cittadini, attraverso i propri eletti.

Se i cittadini votano i politici, è giusto (se non addirittura indispensabile) che questi si assumano pienamente la responsabilità delle proprie scelte, soprattutto quando queste scelte sono “borderline”.

Del resto, se non si intende operare in tempi brevi nel senso sopra descritto, si dovrà inevitabilmente legittimare la classe politica a scegliersi i propri dipendenti portando alle estreme conseguenze la politica di privatizzazione del pubblico impiego, con risultati che lasciano presumere il definitivo allontanamento dal precetto costituzionale dell’”imparzialità” e del “buon andamento” della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione e l’inevitabile incremento della “corruzione percepita”.

Oggi sono diventati frequenti i provvedimenti delle giunte comunali di “ riorganizzazione degli uffici e dei servizi” con lo scopo di porre nei posti giusti i dipendenti che meglio rispondono alle proprie esigenze politiche.

Sindaci e amministratori locali, infatti, avvertono sempre più un senso di soffocamento da parte dei “cosiddetti burocrati” ovvero di quegli strenui funzionari che ancora ritengono che la legge si applichi in maniera libera ed imparziale, assumendosi pienamente la responsabilità della propria interpretazione della norma, nel rispetto del ruolo stabilito dalla Costituzione, convinti che questi stessi funzionari siano narcotizzati dal bisogno di applicare “inutili codicilli” che non consentono di realizzare i progetti pubblici o privati di sviluppo dei territori e dell’economia locale o, addirittura, di tutela e salvaguardia delle tradizioni.

Pertanto per la politica, non esiste altra strada se non quella di “ sminuire il peso dei burocrati, di quelli che pensano di essere rigorosi, ma che in realtà fanno arretrare il paese “ con l’attuazione di politiche di riorganizzazione del personale.

se appare legittimo che la politica rivendichi il proprio ruolo non solo di programmare le scelte ma anche di vederle attuate nei tempi che i cittadini si attendono, sembrerebbe altrettanto opportuno non “costringere” la classe politica ad attuare le forme di riorganizzazione degli uffici per garantirsi funzionari capaci di “interpretare meglio” le proprie volontà; al contrario sarebbe utile che la discussione si spostasse sul merito dei provvedimenti che cagionano il “disaccordo” del politico di turno con il “funzionario interprete”.

In tal senso occorrerebbe avviare una seria riforma legislativa che consenta alla classe politica di superare il “trauma tangentopoli” e che restituisca ai funzionari il ruolo “tecnico” di “suggeritori” del politico per l’adozione dei provvedimenti (soprattutto se di natura tecnico-discrezionale) la cui emanazione dovrà essere affidata, in ogni caso, agli eletti del popolo, in particolar modo quando emerga un disaccordo con le proposte dei dipendenti.

Al Segretario comunale o provinciale, anche se di scelta politica, andrebbe riaffidato il compito di apporre il proprio parere di legittimità sugli atti adottati dagli organi decidenti.

Tuttavia sarebbe necessario salvaguardare l’efficacia dell’atto adottato (dal politico eletto) anche in caso di parere negativo dell’Ufficio di segreteria o del dirigente di settore.

Occorrerebbe però rendere obbligatorio il controllo successivo sul provvedimento così adottato dalla parte politica in contrasto con l’organo tecnico da parte di una autorità terza (che potrebbe essere l’ANAC o anche il giudice amministrativo).

Del resto la prima riforma della dirigenza attuata con la legge n.29/1993, lasciava al politico la possibilità di avocare a se gli atti di competenza dirigenziale sebbene per particolari motivi di necessità ed urgenza, specificamente indicati nel provvedimento di avocazione (art.14 comma 3). Questo articolo è stato modificato a partire dal 1997 impedendo sostanzialmente ogni forma di ingerenza del ministro sull’atto a partire dalla decisione su eventuali ricorsi gerarchici.

 

Capitolo III – 5. Effetti benefici della riforma prospettata

Occorre dire che una riforma di questo tipo avrebbe come logica conseguenza la possibilità di valutare la performance del dirigente (e con essa dei dipendenti responsabili del procedimento), del segretario comunale/provinciale ma anche la preparazione del politico e la sua “ propensione alla legalità”.

Il salario accessorio dei dipendenti con ruoli decisionali potrebbe essere finalmente parametrato a criteri di stima oggettivi; il politico potrebbe attuare le proprie decisioni programmatorie anche quando presuppone che il dipendente gli sia pretestuosamente ostile; inoltre il politico conserverebbe giuste ragioni, nel caso in cui il proprio operato fosse riconosciuto legittimo dall’autorità preposta al controllo successivo, per chiedere la “destinazione ad altro incarico del dipendente” in attuazione del principio di rotazione degli incarichi stessi (non escludendo in casi estremi e reiterati il “licenziamento”) quando questi ha redatto una proposta non conforme alla legge.

Si supererebbe in tal modo il principale nodo problematico del rapporto tra l’amministrazione (ovvero tra coloro che per concorso hanno riconosciute competenze tecniche) e la politica (investita del potere di rappresentanza degli interessi collettivi con la competizione elettorale).

E’ evidente che si tratterebbe di una redistribuzione dei compiti tra i politici eletti ed i dipendenti scelti per concorso; si riassegnerebbe ai politici non solo il ruolo di programmare le scelte di sviluppo e trasformazione di un territorio ma anche quella di attuarle nell’ipotesi in cui il dipendente (ovvero la cosiddetta “burocrazia”) le ritenga ingiustamente illegittime, salvo poi la verifica sulla corretta interpretazione della norma da parte di un soggetto terzo ed indipendente.

Il politico dovrà così immaginare programmi che per essere realizzati dovranno essere rispettosi della normativa vigente; lo stesso diventerà gioco forza il primo garante/responsabile della legalità e non potrà più nascondere il fallimento delle proprie proposte politiche dietro le incapacità della “macchina amministrativa”, sulla quale oggi si scaricano, spesso, tutte le colpe dei propri fallimenti.

Sembrerebbe essersi individuato il giusto punto di equilibrio tra diritto ad una istruttoria e a una proposta di adozione del provvedimento priva da condizionamenti di parte e il diritto della politica ad assumere la decisione finale, in quanto prescelti dal popolo.

In definitiva si tratterebbe di introdurre un principio di corresponsabilità della politica con l’amministrazione attiva, laddove il provvedimento venisse condiviso da entrambi, con la restituzione della decisione finale al politico nel caso in cui questi ritenga il provvedimento proposto dagli uffici “inappropriato”.

Resta inteso che l’introduzione di una forma di controllo esterno di legittimità affidato ad un organo terzo, sul provvedimento adottato dall’organo politico senza il parere favorevole dell’organo tecnico, garantirebbe l’imparzialità e il buon andamento all’azione amministrativa.

Uno schema di funzionamento della macchina amministrativa di questo tipo non sarebbe certamente innovativo; al contrario si può affermare che, almeno per gli enti locali, è a tutt’oggi in essere per tutti i provvedimenti adottati dagli uffici demografici, laddove il Sindaco può avocare a sé il potere di emettere un provvedimento in luogo dell’Ufficiale d’Anagrafe o di Stato Civile, fermo restando il potere delle Prefetture di esercitare forme di controllo gerarchico.

Senza alcuna pretesa di aver sciolto il bandolo della matassa, sicuramente la proposta sopra descritta sembra la logica conclusione per provare a superare l’ipocrita costume italiano secondo cui la legge “in astratto” va applicata mentre “in concreto” deve essere attuata solo quando “conviene”.

Se fosse riassegnata supremazia al “principio di legalità”, a mezzo di un adeguato sistema di controlli esterni assegnati ad organi indipendenti, la politica sarebbe costretta a venire allo scoperto, superando in un sol colpo la massima dello statista dei primi del ‘900, Giovanni Giolitti, secondo cui “la legge per gli amici si interpreta e per i nemici si applica”, che ha sempre dominato i comportamenti della pubblica amministrazione italiana, costituendone una regola costante nel tempo.

Se il popolo italiano non decide di uscire da questa ambiguità, restituendo ai propri eletti in compito di assumersi le responsabilità di attuare le scelte per le quali li ha votati senza poter accampare scuse (salvo poi pagare le conseguenze di eventuali errori sia in fase di adozione dei provvedimenti che di controllo delle proposte dei dipendenti infedeli o incapaci), il declino del paese è e resta inesorabile.

 

 

 

1 dottore di ricerca Francisco Ramos Moragues, Il rapporto tra politica e pubblica amministrazione e la disciplina della dirigenza: il modello spagnolo e italiano – (anno 2012) –

La prima parte di questo scritto “trae spunto ed in parte riproduce” il lavoro del ricercatore spagnolo.

2 MONTESQUIEU, El espíritu de las leyes (De l’esprit des lois), París, 1979, pp. 294-295

3 M. NIGRO, Lineamenti Generali, in AA.VV. (a cura di G., AMATO e A., BARBERA).

4 M. NIGRO, Lineamenti Generali, in AA.VV. (a cura di G., AMATO e A., BARBERA), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, p. 8

5 C. COLAPIETRO, Governo e Amministrazione. La dirigenza pubblica tra imparzialità ed indirizzo politico…, op. cit., p. 6

6 A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica. Contributo ad uno studio del rapporto di “autonomia strumentale” tra politica e amministrazione, Napoli, 2002, p. 9.

7 R. ALESSE, La dirigenza dello Stato tra politica e amministrazione, Torino, 2006, p. 2

8 S. SPAVENTA, La giustizia nell’amministrazione, discorso pronunciato nell’Associazione costituzionale di Bergamo il 6 maggio 1880. Pubblicato in Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Quaderni del trentennale 1975-2005, Napoli, 2006

9 S. PRESUTTI, Lo stato parlamentare ed i suoi impiegati amministrativi, 1881 op. cit., p. 295 e ss.

10 L. CARLASSARE, Amministrazione e potere politico, Padova, 1974, p. 11

11 C. COLAPIETRO, Governo e Amministrazione. I La dirigenza pubblica tra imparzialità ed indirizzo politico, op. cit., p. 46

12 R. FAUCCI, Finanza, amministrazione e pensiero economico, Torino, 1975, pp. 68 e ss. riportato in A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica. Contributo ad uno studio del rapporto di “autonomia strumentale” tra politica e amministrazione, op. cit., p. 13.

13 A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica. Contributo ad uno studio del rapporto di “autonomia strumentale” tra politica e amministrazione, op. cit. p. 14

14 M. D’ALBERTI, L’alta burocrazia in Italia, in AA.VV. (a cura di M., D’ALBERTI), L’alta burocrazia…, op. cit., p. 131 e ss.

15 C. COLAPIETRO, Governo e Amministrazione. La dirigenza pubblica tra imparzialità ed indirizzo politico…, op. cit., p. 47

16 G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993)…, op. cit., p. 498.

17 A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica. Contributo ad uno studio del rapporto di “autonomia strumentale” tra politica e amministrazione….., op. cit., p. 137.

18 C. D’ORTA, La riforma della dirigenza: dalla sovrapposizione alla distinzione fra politica e amministrazione?…, op. cit., p. 162

19 C. D’ORTA, La riforma della dirigenza: dalla sovrapposizione alla distinzione fra politica e amministrazione? …, op. cit., p. 16

20 A., ZOPPOLI, L’indipendenza dei dirigenti pubblici…, op. cit., pp. 135-136

21 Art. 3 comma 1 (Indirizzo politico-amministrativo. Funzioni e responsabilità) del D.Lgs.29/1993 come riscritto a seguito del D.lgs. 80/98

1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare: a) le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo; b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione; c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale; d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi; e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni; f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato; g) gli altri atti indicati dal presente decreto.

22 C. D’ORTA, La seconda fase di riforma della dirigenza pubblica: verso la fine del guado, cercando di evitare gli scogli…, op. cit., p. 2

23 Nuova versione dell’articolo 19 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.

24 Si veda, tra gli altri, C. D’ORTA, La seconda fase di riforma della dirigenza pubblica: verso la fine del guado, cercando di evitare gli scogli…, op. cit., p. 3 e seguenti (formato pdf); S., CASSESE, L’ombra dei politici sui manager di Stato, in La Repubblica, 11 febbraio 1998;

25 C. D’ORTA, La seconda fase di riforma della dirigenza pubblica: verso la fine del guado, cercando di evitare gli scogli…, op. cit., p. 5-6

26 S. CASSESE, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giornale di diritto amministrativo, 2002, pp. 1341 e ss.

27 Eduardo Barusso, le competenze degli organi dell’ente locale II ed.2000

28 www.iusexplorer.it/Publica/FascicoloDossier/La_riforma_Brunetta_e_la_disciplina_della_dirigenza_pubblica

29 Luigi De Angelis, La portata della sentenza 251/2016 della Corte Costituzionale sulla riforma Madia – www.promopa.it/approfondimenti/1552-portata-sentenza-251-2016-legge-124-2015-riforma-pa-madia.html

30 S. Cassese, l’imbuto dello stato inefficiente – http://www.corriere.it/opinioni/17_gennaio_04/stato-d640891a-d1f4-11e6-a55b-632cc5cf8e9f.shtml

31 S. Cassese, la nuova sfida dei dirigenti pubblici – http://www.corriere.it/opinioni/16_settembre_01/rivoluzione-dirigenti-pubblici-72d47716-6fab-11e6-856e-2cdca5568f05.shtml

32 Venti anni di “politica e amministrazione” in Italia, IRPA Working Paper – Policy Papers Series n°1/2014

33 Giuseppe Beato, SNA ed IRPA – Politica e Dirigenza pubblica in Italia – http://www.eticapa.it/eticapa/sna-ed-irpa-politica-e-dirigenza-pubblica-in-italia/#more-4299

34 L’esito referendario ha definitivamente chiuso più di un trentennio di tentativi riformistici della Costituzione. Ci aspetta un periodo di turbolenza politica e di incertezze (ne sono prova il disorientamento generale in materia di elezioni e di formule elettorali e l’improvvisazione con cui viene gestito il Comune di Roma). Possiamo evitare un ulteriore declino soltanto se ci dotiamo di una struttura esecutiva robusta, che sappia rispondere agli indirizzi che le dà il Parlamento con le leggi. Diventa, quindi, importante dedicarsi ai «rami bassi», all’amministrazione, perché la macchina statale è lenta e inefficace. La distribuzione delle funzioni e l’organizzazione delle amministrazioni sono obsolete, a partire da Palazzo Chigi, dove mancano le strutture necessarie e abbondano quelle superflue. I processi produttivi sono arcaici e le procedure si concludono in tempi lunghissimi: basta pensare agli intoppi che incontra qualunque decisione pubblica complessa, dalla localizzazione di impianti industriali alla costruzione di strade, allo sfruttamento di giacimenti di fonti di energia. Il numero dei dipendenti pubblici rispetto alla popolazione non è alto, ma quelli scelti con concorso sono in molte amministrazioni la minoranza e la produttività oraria è bassa, se confrontata con quella degli impiegati pubblici di altri Paesi. Le maggiori iniziative d’interesse collettivo sono bloccate o vanno avanti tra enormi difficoltà. L’Italia, tra i primi dieci Paesi industriali, crolla verso il cinquantesimo posto se si valuta l’efficacia della sua strumentazione amministrativa.

A questi mali cronici, nell’ultimo ventennio si sono aggiunti altri guai: fallimento della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, politicizzazione delle burocrazie, generalizzazione del sospetto di corruzione. Avviata nel 1992, la contrattualizzazione è fallita a causa dei sindacati confederali, che hanno riprodotto al loro interno i guasti del sindacalismo autonomo e sono stati incapaci di far prevalere gli interessi degli utenti su quelli dei dipendenti. Introdotto qualche anno più tardi, lo «spoils system», ha soddisfatto la fame di posti di un ceto politico privato delle due riserve precedenti (partecipazioni statali e banche pubbliche), ma ha reso dipendenti dai partiti gli impiegati, ai quali la Costituzione impone di essere imparziali: in questi giorni sono stati «salvati» 40 mila precari, senza che nessuno si chiedesse come siano stati reclutati e Ernesto Galli della Loggia ha messo molto bene in luce, sul Corriere della sera del 28 dicembre scorso, i guasti provocati dalla politicizzazione della dirigenza nel comune di Roma. Da ultimo, sul pubblico impiego si è abbattuto il sospetto, codificato in leggi, della corruzione.

Nei settanta anni di vita repubblicana, più della metà dei governi ha avuto un ministro incaricato di riformare l’amministrazione: segno che si era convinti della sua necessità. Dei 34 titolari della funzione, una decina hanno anche proposto ambiziosi disegni riformatori. Ma la loro breve durata e il fatto che lo spirito riformatore non è mai penetrato nel corpo dei dipendenti pubblici hanno reso inutili gli sforzi. Qualche cambiamento nella giusta direzione c’è stato, ma è stato sopravanzato dai mali amministrativi cronici (lentezza, assenza di motivazione, formalismo, culto dei precedenti, fuga dalle responsabilità, eccesso di controlli inutili, squilibrata distribuzione del personale e delle risorse finanziarie). Anche il governo Renzi si è mosso nella direzione giusta, ma ha sbagliato i tempi: le riforme amministrative hanno alti costi immediati e benefici ritardati; vanno quindi realizzate subito. Invece, la capitale riforma della dirigenza — forse troppo ambiziosa e troppo fiduciosa nel solo strumento legislativo — è stata lasciata per ultima ed è stata azzoppata in dirittura d’arrivo, nel momento di massima debolezza del governo, dall’azione congiunta dei vertici ministeriali e della Corte costituzionale. Gli Stati si reggono su due basi, la politica e l’amministrazione. La prima stabilisce i fini, la seconda appresta gli strumenti. Se la politica vacilla, come accadrà per qualche anno in Italia, a causa delle incertezze delle forze in campo, solo una buona amministrazione, attenta ai bisogni dei cittadini, può salvare il Paese dal declino.

35 Venti anni di “politica e amministrazione” in Italia, IRPA Working Paper – Policy Papers Series n°1/2014 (pag.83)

36 http://luigioliveri.blogspot.it/2017/06/segretario-comunale-la-distorta-visione.html#more

37 E.C. Banfield, le basi morali di una società arretrata op.cit. pag.104

38 Edward C. Banfield, la basi morali di una società arretrata

39 E. Galli della Loggia, l’identità italiana, il Mulino 1998

40 Paolo Guzzanti, Mignottocrazia

41 Roger Abravanel, Meritocrazia

42 Alain Deneault, La mediocrazia

43 R. Cantone – F.Caringella, la corruzione “spuzza” ed. 2017

44 S. Cassese, lo scandalo romano – punire i corrotti (ma più prevenzione) http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_10/punire-corrotti-ma-piu-prevenzione-9c9e4450-8042-11e4-bf7c-95a1b87351f5.shtml

 

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