09/09/2016 – Così fan tutti, pure i grillini

Così fan tutti, pure i grillini

Pubblicato il 8 settembre 2016 

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

Che la giunta della capitale italiana sia messa in croce perché il sindaco incarica un assessore e non svela che sa che è iscritta nel registro degli indagati, violando così il codice del movimento cui appartiene alla luce del quale occorre sempre massima trasparenza, verità, onestà e curriculum mondati da ogni peccato, anche solo potenziale, può starci.

 

Se il movimento al quale appartieni si erge a censore del mondo e rivendica la propria assoluta integrità a differenza degli altri, ma al momento di formare la compagine politica cade in fallo due volte, è evidente che ti piovano addosso mille critiche. E’ anche vero che in altri comuni, come Milano, possano esservi situazioni in tutto analoghe. Ma, poiché appartieni al più volte ripetuto movimento che sposa l’integralista battaglia per la trasparenza e la condizione di scegliere solo amministratori puliti e integerrimi, è evidente che la tua esperienza fa più notizia. Sicché l’errore commesso è grave non solo in sé, ma anche perché oscura quello di altri.

Che, però, la crisi dell’amministrazione capitolina debba anche essere cagionata dalla scelta del capo della segreteria e del vice capo di gabinetto, mi consenta caro Titolare, appare del tutto ingiustificabile ed aggrava ulteriormente la questione, ammantandola di grottesco.

Un sindaco, in effetti, può e deve essere libero di scegliere l’assessore che crede, anche se interessato da iscrizione in registri di indagati: basta che lo dica e che spieghi perché la fiducia politica riposta nell’assessore stesso non venga scalfita, anche a disdoro ed eccezione del movimento di appartenenza (salvo, poi, spiegare perché lo stesso non possa valere a Parma, ma questo è altro discorso). Ma mettere in crisi un apparato per la scelta dei componenti del gabinetto (un ipertrofico ufficio monstre di 260 dipendenti!), questo no.

Senza troppi giri di parole, è evidente che le nomine del vice capo di gabinetto e del capo della segreteria sono l’una frutto di un debito alla destra romana sostenitrice certamente dell’attuale sindaco al momento delle elezioni, l’altra frutto di un premio alla militanza attiva di un componente del movimento. Ed è qui che è inaccettabile la vicenda. Sulle scelte politiche non è possibile sindacare: un vertice politico si circonda dei collaboratori politici che meglio gradisca o che, comunque, debba accettare nell’ottica della collaborazione in coalizione.

Sulla struttura tecnica, per quanto adibita al supporto del politico, non è ulteriormente ammissibile che la scelta invece di essere il frutto dell’utilizzo dell’apparato amministrativo esistente (il comune di Roma ha decine di migliaia di dipendenti: ha senso assumerne dall’esterno altri o triplicare lo stipendio ad interni?), oppure della selezione asettica concorsuale, sia, invece, una cooptazione per ragioni “fiduciarie”, che, poi, porta alla stortura di infoltire l’apparato amministrativo, quello che gestisce, non di tecnici al servizio della Nazione, ma al servizio della politica, trasformando l’apparato amministrativo da servente a servile?

I cittadini della capitale come di qualsiasi comune dovrebbero poter essere certi che l’autorizzazione, il permesso, l’accertamento, il sollecito, l’esenzione, la rateizzazione, provenienti dall’ufficio sono guidati non da logiche di appartenenza e di espressione di consenso elettorale, ma dall’attuazione di un programma politico che legittimamente viene espresso compiendo scelte, fatte le quali gli atti conseguenti si applicano in egual modo e misura per tutti. L’apparato, quindi, non deve essere scelto perché di fiducia personale del sindaco o del politico, come tributo pagato ad una parte politica qualunque essa sia, ma perché valutato in grado di svolgere quell’attività da soggetti terzi, avulsi da qualsiasi logica politica. Il tutto, ovviamente, dando al sindaco ed a qualsiasi organo politico il modo per valutare l’azione svolta dall’apparato, allo scopo di colpire chi si macchi di boicottare politicamente le scelte o di incapacità operativa, senza sconti e in modo agile e semplice.

La situazione paradossale di Roma evidenzia, purtroppo, tutti i difetti della riforma Madia della dirigenza, assolutamente inidonea ad impedire i fenomeni della cooptazione della dirigenza o dei posti nelle tecnostrutture, e addirittura fonte dell’estensione parossistica di incarichi dati per ragioni di appartenenza e tessere e non per capacità dimostrate e valutate. In assenza di correttivi, casi come quelli di Roma prolifereranno e non vi sarà nessuna Anac in grado nemmeno di tentare di porre un argine.

Il direttore de Il Fatto Quotidiano, nel fondo dell’8 settembre in merito all’argomento sostiene che “un sindaco eletto dal popolo ha tutto il diritto di scegliersi i collaboratori”.Verissimo. Ma, l’elezione diretta non attribuisce certo al sindaco il diritto di trasformare i rapporti di lavoro dei propri collaboratori così da triplicarne i compensi, o da modificarne lo status da semplice funzionario a dirigente, per potere divino. Se un sindaco liberamente eletto si fida proprio di quelle persone, le impieghi. E se ritiene di incrementarne lo stipendio, non utilizzi risorse pubbliche, ma si avvalga di denari propri o del proprio partito. Se, ancora, gli stretti collaboratori di fiducia del sindaco ritengano di avere i requisiti per accedere a stipendi superiori e qualifiche più alte, possono farlo quando vogliono: partecipino a concorsi pubblici e li vincano.

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