01/11/2016 – I compensi percepiti nell’esercizio della libera professione del dipendente pubblico a tempo pieno vanno riversati all’amministrazione quale illecito erariale

I compensi percepiti nell’esercizio della libera professione del dipendente pubblico a tempo pieno vanno riversati all’amministrazione quale illecito erariale
di Vincenzo Giannotti – Dirigente del Settore Gestione Risorse (Umane e Finanziarie) del Comune di Frosinone

 

La Procura conveniva in giudizio un dirigente a tempo determinato presso un Ente pubblico, al fine di vederlo condannare alla restituzione di tutti i compensi percepiti quale libero professionista, nonostante il chiaro divieto della normativa sul cumulo di impieghi presso la PA. Il dirigente evidenziava come la fonte di incompatibilità non si rinveniva nel contratto individuale di lavoro di diritto privato da lui stipulato, in qualità di dirigente amministrativo, ove nulla era previsto in merito alla possibilità di svolgere la libera professione (Dottore commercialista). La Procura insisteva, in ogni caso, nella presenza di ipotesi di responsabilità amministrativa del dirigente conseguente alla violazione dei doveri di ufficio riconducibili al divieto di cumulo, imposta dall’ordinamento giuridico, con riferimento allo specifico rapporto di impiego o di servizio intercorrente tra il convenuto, presunto autore del danno, e l’Amministrazione pubblica danneggiata, riconducibile all’attività libero-professionale extraistituzionale retribuita svolta contestualmente dal dipendente pubblico ma priva di idonea autorizzazione o, addirittura, non autorizzabile in quanto del tutto incompatibile con il principale impiego, atteso il principio di esclusività nello svolgimento del servizio di pubblico impiego verso l’Amministrazione (art.98, primo comma Costituzione).

Le motivazioni del collegio giurisdizionale

Dopo aver il Collegio contabile escluso le richieste del convenuto circa la giurisdizione del giudice ordinario, evidenzia come nel caso di specie il dirigente abbia violato il precetto delle disposizioni contenute all’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165 del 2001 il quale sanziona la violazione del divieto di svolgere incarichi retribuiti, non conferiti o previamente autorizzati dall’Amministrazione, prevedendo, in caso di violazione, l’obbligo di versamento del compenso ricevuto nel conto dell’entrata del bilancio dell’Ente di appartenenza, ma non certo limitata alla condotta meramente materiale ed esecutiva, quanto omissiva, del mancato versamento in favore dell’Amministrazione di appartenenza delle somme indebitamente percepite in conseguenza dell’espletamento di tali prestazioni lavorative “esterne” non autorizzate o non autorizzabili. Tale violazione degli obblighi imposti al dipendente pubblico costituiscono per un verso elemento costitutivo dell’illecito e, nel contempo, si rivelano idonei a radicare la giurisdizione dinanzi alla Corte dei conti.

Precisata la giurisdizione in cappo al giudice contabile, è possibile rilevare come da un riscontro della Guardia di Finanza, siano emersi rilevanti redditi del convenuto percepiti in costanza dell’incarico di dirigente a tempo determinato. Dall’analisi delle singole fatture e delle prestazioni rese dal dirigente nei confronti di clienti privati, risultavano che gli stessi non fossero stati previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Si rileva, inoltre, come l’art. 60, D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 preveda che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente“. Tale disposizione, recepita da tutte le PA, vincola gli impiegati statali e del pubblico impiego in generale ad adempiere alle loro prestazioni lavorative con carattere di esclusività, comportando, la violazione del relativo obbligo giuridico, la decadenza dall’impiego. Il successivo art. 65 del citato D.P.R. introduce, poi, la regola generale secondo la quale “gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali: l’assunzione di un nuovo impiego pubblico comporta la decadenza dal precedente“. Tuttavia, nell’ottica del temperamento del rigido principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego, nelle forme maggiormente “flessibili” delineate dal c.d. “diritto vivente della Costituzione”, il comma 6 dell’art. 53, D.Lgs. n. 165 del 2001 ha previsto espressamente l’applicazione dei divieti citati ai dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, compresi quelli di cui all’art. 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali. Sono nulli tutti gli atti e provvedimenti comunque denominati, regolamentari e amministrativi, adottati dalle amministrazioni di appartenenza in contrasto con il presente comma. In particolare sono state disciplinate specifiche e tipizzate esclusioni che escludono l’obbligo di comunicare eventuali relativi compensi ricevuti, stabiliti dal legislatore e rappresentando un numerus clausus e riferiti ai seguenti incarichi: a) collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; c) partecipazione a convegni e seminari; d) incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; f-bis) attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica (nel testo del periodo novellato nei termini dianzi riportati dall’art. 2, comma 13-quinquies, lett. aD.L. 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 ottobre 2013, n. 125).

Trattandosi nel caso di specie, di dipendente con regime di lavoro a tempo pieno, la sua prestazione lavorativa si rivela incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi esercizio di attività libero professionale. Non vi è dubbio che il dirigente convenuto svolgesse attività libero professionale di dottore commercialista e da questi ne ricevesse compensi, né può essere assunta a giustificazione la natura del contratto di diritto privato per violare le disposizioni della legge primaria che rende incompatibile l’attività libero professionale con quella del dipendente pubblico a tempo pieno. Nel caso di specie, precisa il Collegio contabile, non si comprende come un dipendente, peraltro incaricato di funzioni dirigenziali in ruolo apicale di un ente pubblico (unica funzione dirigenziale), legato all’osservanza di un orario di lavoro prestabilito e costituito da un minimo di 36 ore settimanali, possa svolgere, contemporaneamente e senza pregiudizio dei compiti istituzionali affidatigli, una prestazione lavorativa di tipo libero-professionale autonoma, semmai di altrettanto consistente ed intenso impegno lavorativo ed intellettuale (ex multis Sez. Giur. Sicilia, n. 927 del 2014).

Conclusioni

Sulla base delle sopra indicate motivazioni, in considerazione delle violazione al principio di esclusività del rapporto di lavoro, il dirigente deve essere condannato a restituire i compensi percepiti, in costanza del rapporto di lavoro di dirigente, delle attività di lavoro libero professionale espletate.

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