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La riforma delle Amministrazioni Pubbliche nell’era di Twitter

Oriano Giovanelli esamina punto per punto i provvedimenti realizzati fin qui, evidenziando, decreto per decreto, le luci e le ombre.”Percepisco una differenza fra il lavoro della ministra Marianna Madia e del suo qualificato staff e l’ansia da prestazione del presidente del Consiglio e apprezzo molto di più il tentativo sistemico della prima che la frenesia da annuncio del secondo”.

  “www.ilcampodelleidee.it” ha ospitato un mio intervento nell’agosto del 2014 sui primi passi fatti dal governo in materia di riforma delle pubbliche amministrazioni.  Dei 1000 giorni che si era dato  per rivoltarle come un calzino facendone da fattore di blocco un fattore di modernizzazione e sviluppo ne sono passati circa i 2/3. Confidando realisticamente sulla stabilità politica fino al termine della legislatura ci sono quindi ancora margini, ma sempre più stretti,  per vedere i risultati di un’azione che fin dal primo momento mi sono impegnato a guardare con la fiducia del tifoso non del governo ma della PA.

 

La prima cosa che  mi sento di dire è che percepisco una differenza fra il lavoro della ministra Marianna  Madia e del suo qualificato staff e l’ansia da prestazione del presidente del Consiglio e apprezzo molto di più il tentativo sistemico della prima che la frenesia da annuncio del secondo. In questo caso il presidente del Consiglio non è un buon consigliere. Per questo, rispetto alla centralità della presidenza del Consiglio nella gestione del processo di riforma come antidoto alla logica delle canne d’organo su cui erano naufragati i buoni propositi di tanti ministri della Funzione pubblica, oggi sento il bisogno di una  vera e propria Cabina di Regia, altamente professionale e tecnica, che accompagni l’attuazione delle diverse deleghe e la relazione fra queste ultime e pezzi di riforma che passano per altre vie e per altri ministeri, a partire dalle riforme istituzionali. Mi spiego meglio: il nuovo codice degli appalti, ad esempio, è un bel pezzo di riforma dell’amministrazione, come lo è la faticosa e per nulla soddisfacente fase di attuazione della abolizione delle province, come lo sono i provvedimenti che riguardano la scuola piuttosto che la giustizia, in particolare il processo telematico. Questa cabina di regia, che necessariamente andrà oltre la legislatura,  deve essere presidiata dal ministro della pubblica amministrazione e innovazione e tenere assieme tutte questi parti. Ci sono passaggi, ad esempio come la riduzione del numero delle prefetture e la loro trasformazione in uffici territoriali dello stato, che sono a rischio di precipitose marce indietro dopo l’avvenuto annuncio, oppure di pasticci e contraddizioni come è accaduto con le province.

 

Esempi anche recenti non mancano. Chi  ricorda le norme con cui si è finalmente assunto l’impegno a non derogare più all’età prevista per il collocamento in pensione  dei dirigenti, dei docenti, dei magistrati? E il divieto per questi, una volta pensionati, di essere richiamati sotto altre forme in servizio a far parte di organi gestionali di servizi pubblici? Si trattava di norme  sacrosante in un paese dove ci sono quelli che non si possono mai rimuovere, che perpetuano se stessi e i propri poteri più o meno trasparenti. Qualcuno dovrebbe fare un piccolo bilancio di quanto è accaduto dalla data del primo annuncio ad oggi: così vedrà le deroghe consentite e gli stratagemmi messi in campo per aggirare un provvedimento semplice, che serviva non a rottamare ma a garantire il necessario ricambio. Una cosa analoga può accadere per le prefetture. E’ almeno un ventennio che uno come me aspetta che le prefetture vengano riformate, ma l’inghippo è già bello e pronto. La riforma delle prefetture prevede la loro trasformazione in uffici territoriali dello stato e, nelle intenzioni, risponde  a due requisiti: 1) semplificare e risparmiare, 2) ridurre i poteri dello stato sul territorio in considerazione dell’aumentato ruolo delle regioni e dei comuni. Però, guarda caso, con l’altra mano si sta  approvando una revisione del Titolo V della Costituzione che aumenta i poteri dello Stato e diminuisce quelli delle Regioni su materie che hanno un forte impatto sul territorio (infrastrutture, impianti energetici ecc. ) i cui effetti dovranno essere governati. Ma da chi? E come si innesta l’abolizione delle province, la nascita delle città metropolitane con il cambio di natura e di numero delle prefetture? 

 

La mia sensazione è che si stia perdendo il filo di quello che in quegli appunti già citati chiamavo l’allineamento astrale: riforme istituzionali e riforma delle amministrazioni si tengono insieme e, piaccia o no, vanno accompagnate con il consenso dei livelli istituzionali coinvolti. Se le Regioni non legiferano sulle aree vaste, come si riordina il sistema dopo l’abolizione delle Province?  E i servizi? Che facciamo dopo aver detto e ridetto che le regioni devono programmare e legiferare? Le trasformiamo in organi di amministrazione? E come la mettiamo con l’art.118 della Costituzione? Se quella riforma (che ha un impatto forte sul sistema) fallisce, non è un bene per nessuno; analogamente succede se alla abolizione delle province non fa seguito un processo molto più spinto di quello odierno di unione e/o fusione dei Comuni e, in una prospettiva che mi auguro non troppo lontana, una riaggregazione delle Regioni, con conseguente diminuzione del loro numero, per dare loro una dimensione fondamentale per l’interlocuzione con l’Europa. Questa è la riforma!

 

Siamo alle solite, non basta annunciare o dire che si deve fare, bisogna mettere in fila azioni, risorse, incentivi, regole per la mobilità ecc. E fare davvero. Intanto la gestione di tante  strade che erano passate dall’Anas alle Province sta tornando sotto la competenza dello Stato. Sarà contenta l’Anas ( uno dei luoghi dove non smette mai di proliferare la corruzione), per la quale aumenta la torta da gestire e sarà contento qualche professionista di nomine nei CDA,  ma non è detto che siano contenti i cittadini. Tutto è sempre troppo motivato dai tagli da fare. Così si continua ad alimentare un’idea nefasta di pubblica amministrazione e di pubblico dipendente, logorandone la funzione democratica, civile e sociale, quando il problema è il manico politico, la sua capacità di fare buone leggi e di seguirne l’attuazione.

 

Fatta questa lunga premessa vorrei soffermarmi sui decreti attuativi della  riforma 124 dell’agosto 2015:

 

Il primo che prendo in esame è emblematico nel suo candore. Riguarda la riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le autorità portuali. Ecco come comincia la relazione illustrativa: …La perdurante assenza di una stringente strategia nazionale volta a sviluppare il sistema portuale nel suo complesso… In altri termini, siccome non so cosa fare davanti ai grandi cambiamenti che hanno coinvolto negli ultimi 20 anni il sistema del movimento planetario delle merci, intanto riduco le autorità portuali dal 24 a 15, modifico la governance delle aree portuali, cerco di semplificare le procedure di approvazione dei piani regolatori portuali, semplifico e unifico gli uffici di gestione, quelli doganali e dei controlli. Per carità, io ho fatto il sindaco di una città con un piccolo porto, e so che razza di problema sia, a causa di un guazzabuglio di competenze e procedure cervellotiche, governare quelle aree e pianificarne lo sviluppo. Quindi ben venga il decreto. Ma il tema del mio piccolo porto è che negli anni 70 esportavamo mobili, manufatti per l’edilizia e altro ancora, e arrivavano petroliere; oggi se va bene ospitiamo qualche aliscafo per portare in Croazia i turisti. Non so se mi spiego: se un provvedimento amministrativo non corrisponde ad una strategia economica, della movimentazione delle merci e delle persone, se non lo si mette in relazione con la vocazione dei territori italiani che è storicamente plurale e variegata, purtroppo il risultato sarà mediocre e  la stessa relazione ammette che questa strategia non c’è. Questo non è ”benaltrismo”, ma il minimo che ci si aspetta da un governo  per produrre qualche cosa di utile per il paese. Anche se in 140 caratteri si può dire lo stesso che si passa  da 24 a 15.

 

Il secondo. Il decreto legislativo recante disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia  e assorbimento del corpo forestale dello Stato, invece, per molti versi mi allarma. Sono convinto che sia in atto un processo di pauroso accentramento dei poteri e delle funzioni e a riprova di questo mi sento di portare il fatto che si è buttata al vento la possibilità di organizzare su tutto il territorio nazionale una polizia ambientale a dimensione  regionale o interregionale, degna di questo nome. La polizia provinciale era una piccola forza che aveva acquisito negli anni una certa specializzazione attorno ai reati ambientali, alla gestione della fauna, alla tutela del paesaggio, dei boschi e dei corsi d’acqua. A seguito della abolizione delle Province questo personale in molte realtà è transitato sotto la responsabilità regionale, quando non è stato assorbito dalle esigenze di personale  delle singole  polizie municipali. Se avessimo messo in discussione gradualmente il corpo forestale dello Stato e via via  lo avessimo trasformato in strutture di polizia ambientale regionale avremmo fuso queste due competenze e rafforzato il presidio ambientale  del territorio di cui c’è sempre più bisogno. Non siamo noi il Paese delle discariche abusive, dei versamenti di inquinanti in mare e nei fiumi, dell’abusivismo edilizio, della gestione criminale dello smaltimento dei rifiuti, del disboscamento e delle frane?  Allora coordinare meglio i servizi delle diverse forze di polizia? Applausi!! Ridurre le forze di polizia da 5 a 4? Applausi! Trasformare personale civile in militare facendo assorbire la forestale dai carabinieri? Fischi di disapprovazione! (Se io ho scelto di fare il forestale e di non essere un militare sottoponendomi ad un concorso pubblico credo che tu che me lo imponi riceverai come risposta una serie di ricorsi). Disperdere una professionalità così importante? Fischi di disapprovazione!! Abbattere il presidio ambientale in un territorio dove ci si lamenta dei cinghiali e come risposta si vuole riaprire la caccia ai lupi? Molti fischi e contestazioni di disapprovazione!!! Un regalo fatto a chi? E mettendo assieme  l’iperbolico risparmio di euro 19.360.000 in tre anni da cui dedurre anche la spesa per un tweet per annunciare l’eliminazione di un corpo di polizia.  

 

Il terzo. Ho letto con l’occhio dell’autonomista anche il decreto recante principi e criteri direttivi per il conferimento degli incarichi di direttore generale, amministrativo e sanitario nelle aziende sanitarie e ospedaliere. Non mi pare di dover rilevare particolari criticità. E’ un bene che si cerchi di rendere più chiaro il confine fra politica e gestione in una materia così delicata. La definizione di un elenco nazionale, dei criteri con cui vi si può accedere, la determinazione della durata dell’incarico diversa da quella degli organi di governo politici, le modalità di valutazione e le modalità di revoca mi sembrano ben scritte. Ma non era forse l’occasione per valutare criticamente questa esperienza dei direttori generali che dal 1995 hanno sostituito i CDA? Siamo sicuri che tutto questo potere aziendalista fortemente condizionato dalla politica e che a sua volta è tramite per condizionare politicamente la nomina dei direttori amministrativi, dei direttori sanitari, dei primari, non sia eccessivo e foriero di cordate poco trasparenti e poco qualificate professionalmente? Se non si vuole tornare ad una forma di collegialità politica almeno si garantisca una collegialità della gestione professionale, in modo tale da rendere trasparenti e discusse scelte che hanno un impatto rilevantissimo sulle strutture sanitarie e ospedaliere, sulle relazioni con il mondo della farmaceutica, delle tecnologie, ecc. Ecco quindi anche qui un provvedimento che rischia di essere uno spot disancorato da una strategia che abbia al centro professionalità, trasparenza, lotta alla corruzione.

 

Il quarto. Ben diverso mi pare il caso del decreto recante il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica. Quando si può fare una società da parte di un Comune, di una Regione o da parte dello Stato, le motivazioni “rafforzate” necessarie, i limiti a fare e a partecipare, e le procedure per farlo, stringenti obblighi di dismissioni quando si è fuori dai parametri, governance, trasparenza, controllo, ecc.  Qui davvero camminiamo sulle uova e il rischio di romperle è molto alto. Cosa dice il tweet?  Passare da 8000 società pubbliche (qualcuno dice addirittura 39000) o a partecipazione pubblica, a 1000! (perché non a 999 o 1101? ). Lo sanno al governo (quello più di sinistra della storia dice il ministro Poletti!), che nel 1914 a Bologna un sindaco di nome Zanardi fondò gli spacci comunali per dare il pane a prezzo calmierato alla gente e che questa esperienza divenne poi la legge sugli enti di consumo? Era un servizio comunale proprio o improprio? E poi che dire di Jupiter e Febo? Sono i due piroscafi che lo stesso sindaco comprò nel 1915 e nel 1916 per sfuggire al monopolio del prezzo del grano e del carbone e rifornire i forni comunali e la società del gas cosicché Bologna poté fornire gas ed energia elettrica a prezzi più competitivi. Bononia docet! Disse Turati. E sanno al governo che Matteotti tirò fuori di tasca sua 900 lire per aprire una scuola a Fratta Polesine, era compito del comune aprire scuole? E che le aziende municipalizzate hanno una loro federazione fin dal 1910? Che a contenere il monopolio della energia elettrica da parte degli industriali prima della nazionalizzazione fatta dal governo di centro sinistra negli anni ‘60  vi erano solo società comunali? E gli asili nido e le scuole materne comunali erano servizi propri dei Comuni o una cosa fuorilegge? L’opposizione della Chiesa al riguardo fu durissima! E le farmacie comunali? Molti Comuni fecero le società di trasporto pubblico comprando società private clamorosamente fallite! Solo l’ignoranza fatta politica, succube di un sistema imprenditoriale con poche idee e alla ricerca di facili guadagni, non vede che laddove queste società si sono create e sviluppate è più alta la qualità della vita e più forte il sistema economico. Per carità il decreto poi ha delle sue ragioni e non è fatto neanche del tutto male, ma senza questa premessa è un obbrobrio! I Comuni sono immersi nella realtà preesistono alla Repubblica e agli Stati e alle loro leggi spesso stupidamente omologanti (adesso qualcuno ne vuole fare una per chiudere  i comuni sotto i 5000 abitanti, una iniziativa che neanche il fascismo ha potuto pensare!). E perché non chiedersi se dietro alla proliferazione locale di società non vi siano proprio delle stupide leggi nazionali omologanti? Dice niente il blocco del turnover e la necessità di trovare un modo per non paralizzare i servizi? E il patto di stabilità che Prodi definì di stupidità? I Comuni cercano di difendere i servizi che danno, percepiscono i bisogni nuovi e organizzano risposte prima che i fenomeni diventino rilevanti. Solo dopo arrivano qualche volta le leggi dello Stato a riconoscerli. E’ la storia, per fortuna  la storia migliore di questo Paese, che né i sabaudi, né i fascisti, né i governi democristiani del secondo dopoguerra sono riusciti a imbrigliare con i loro prefetti e con i loro podestà. E quando i servizi gestiti da queste società pubbliche diventano maturi, i Comuni si attivano per fare aggregazioni, per aprirle alla partecipazione privata o azionaria, senza aspettare che glielo imponga la legge, e queste  hanno spesso performance economiche che quelle private se le sognano senza venir meno al primato del servizio e al controllo pubblico. Ora se questo decreto serve per eliminare degenerazioni, e anche io ne ho viste e ne vedo,  ben venga; ma se dietro c’è l’obiettivo di smantellare una storia di successo per fare il favore a qualcuno, è destinata a fallire. Per non dire della proposta che la governance di queste società sia, salvo situazioni motivate, l’amministratore unico. Non vi dice niente il nome Mastrapasqua e tutta la vicenda degli ultimi 10 anni dell’INPS? Ancora nonostante tutto siamo al Presidente-Commissario e nel frattempo l’istituto deperisce sotto i colpi della crisi, delle decontribuzioni elargite a piene mani dal governo, dell’invecchiamento della popolazione. In generale sono convinto che non basta nominare l’uomo di fiducia dell’uomo solo al comando per far funzionare bene le cose. La democrazia, la collegialità, il confronto, la trasparenza non sono cose alternative all’efficienza e alla economicità di strutture complesse, ma  loro condizioni essenziali.

 

Il quinto. Vi sono poi  5 decreti che puntano a digitalizzare, semplificare e velocizzare i servizi della pubblica amministrazione. Alcuni di questi però a ben vedere presentano diversi profili di complessità fermo restando la bontà e la necessità di questo sforzo di modernizzazione.

 

  • Prendiamo quello che modifica il Codice della Amministrazione Digitale e punta, oltre ad altre cose, a dare a tutti i cittadini e alle imprese un “ampliamento del novero dei diritti di cittadinanza digitale; innanzitutto  diritto per ogni cittadino al domicilio digitale, a cui si accede anche con un PIN unico in collegamento con l’Anagrafe della popolazione residente.” Chiaro no? E non è nulla. Il PIN unico per la pubblica amministrazione tempestivamente presentato dalla ministra Madia, SPID 2016, consentirà di fare pagamenti da casa, o mentre siete in viaggio e svolgere tutte le pratiche amministrative che riguardano gli enti da cui si parte in via sperimentale: Agenzia delle Entrate, INPS, INAIL, Comuni di Firenze, Lecce, Venezia, Regioni Toscana, Liguria, Emilia Romagna, FVG, Lazio e Piemonte e fra 24 mesi tutta la PA. Ma chi lo dà questo PIN? Poste, Tim, Infocert. E come si fa ad averlo? Le modalità le decidono loro, ognun per se. Ad esempio: se hai dei servizi poste, accedi ad una procedura semplificata; se no devi andare a fare la domanda allo sportello abilitato, ma la lista di quali lo siano non c’è ancora; e ovviamente chi sta allo sportello cercherà di venderti i servizi poste, idem quelli del TIM; Infocert invece ti riceve “ di persona personalmente” ma solo a Roma, Padova e Milano e paghi 15 euro. Come già scrissi ad agosto 2014, nessun magistrato ci ha spiegato gli imbrogli che hanno percorso l’esperienza della Carta d’Identità Digitale, ma la causa dei fallimenti è sempre la stessa: confondere un servizio pubblico, soprattutto se in fase di avvio, con il business di società private. Se prima viene l’interesse e poi il servizio il rischio fallimento c’è. Non era questo il terreno per sperimentare una società tutta pubblica come facemmo con l’Enel negli anni 60, grazie alla quale portammo la luce ovunque, anche dove non era economicamente conveniente? E non era questo il terreno di una sinergia fra una azienda pubblica nazionale e le grandi municipalizzate, che almeno nel Centro-Nord, pur essendo controllate dai Comuni, hanno una efficienza aziendale e una capillarità del servizio da renderle altamente competitive? Auguri sinceri, perché invece abbiamo bisogno davvero di sfruttare tutte le potenzialità semplificatrici della tecnologia digitale, il che significa in primis, ripensare l’organizzazione degli uffici con mente digitale!
  •  Vi è poi il decreto comunicato ai cittadini come estensione della trasparenza, e in particolare “l’introduzione di una nuova forma di accesso civico ai dati e ai documenti pubblici, equivalente a quella che nei sistemi anglosassoni è definita Freedom of information act (FOIA)”. Ovvero tutto ti deve essere accessibile anche se non sei portatore di un diritto soggettivo legato ad un tuo interesse diretto al provvedimento, al documento o al dato di cui trattasi. Questa sarebbe una vera rivoluzione, un colpo mortale alla corruzione, un fatto in contro tendenza nel Paese delle cricche, dei servizi segreti deviati, delle P2-P3-P4, delle opere secretate. Ma il condizionale purtroppo è motivato. Infatti l’art.5 bis che sostituisce l’art. 5 del decreto legislativo n.33 del 2013 dettaglia i casi di diniego e questi, (perché la cosa non mi stupisce?) sono se possibile ancora più estesi e discrezionali di quelli previsti dall’art. 24 della 241 del 1990. Ergo aumentano i titolari del diritto di accesso, ma aumentano anche i casi in cui ti può essere opposto un diniego e la loro vaghezza fa supporre che ci troveremo ancora davanti ad episodi ampiamente discrezionali, esercitati ancora con silenzio-diniego, contro cui si potrà ricorrere al Tar (??) con i costi immaginabili e senza vere sanzioni in caso di soccombenza per il responsabile della amministrazione. Non è un caso che le associazioni che si battono per un vero FOIA italiano siano in subbuglio.
  •  Con tre mosse si cerca infine di togliere i tappi che si frappongono alla autorizzazione e realizzazione di opere pubbliche e private. Dalla Scia (segnalazione certificata di inizio attività) per cui si prevedono certezza e accessibilità alla modulistica e semplificazione nel caso in cui siano necessarie più Scia per lo svolgimento della stessa attività; alla nuova regolamentazione della Conferenza dei Servizi che mi convince molto  poiché mette tutti i soggetti interessati al processo autorizzatorio nelle condizioni di pronunciarsi, senza dare però a nessuno un implicito diritto di veto fatto di mancate partecipazioni, oppure di silenzio rifiuto. Sono assolutamente del parere che il perno di una buona amministrazione sia il diritto del cittadino ad avere risposte certe in tempi certi, ma tutti sappiamo che in un modo o in un altro questo principio fissato dalla 241 del 1990 è stato sistematicamente aggirato. Non mi convince affatto, anzi mi allarma molto il decreto noto come velocizzazione delle “procedure autorizzatorie per insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o l’avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere positivi effetti sull’economia e sull’occupazione”. Mi stupisce che Cantone (…che faccio tutto io!) non abbia avuto nulla da ridire. Questo provvedimento  mette in capo al presidente del Consiglio e/o a chi lui stesso deciderà di delegare i poteri, la possibilità di scegliere quali sono questi interventi, dimezzare i tempi di autorizzazione, esercitare potere sostitutivo per l’espressione dei pareri: a me pare l’anticamera di quello che un tempo, con un termine colorito, si chiamava mercato delle vacche. In un contesto dove già tutto tende a concentrarsi attorno alla presidenza del Consiglio, lo scenario me lo immagino di già e francamente suggerirei di evitarlo.
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Il sesto. Ho lasciato per ultimo il decreto che maggiormente è stato usato per identificare questo pacchetto di atti estremamente complesso, per cui mi sento comunque di rivolgere un pensiero di comprensione alla ministra: il licenziamento disciplinare. Ti becco  a timbrare e poi uscire dal lavoro? Ti becco a timbrare per un collega assente dal lavoro? E’ giusto che tu sia sospeso e poi licenziato. Come si faceva prima? Esattamente così! Però bisognava trovare il modo di buttare in pasto ai mezzi di comunicazione una notizia truce (ma perché siamo ridotti così nel mondo del giornalismo?) allora comunico che ti licenzio subito. Ovviamente lo comunico, ma non posso farlo perché c’è una procedura rispettosa dei diritti di difesa e prova dei soggetti interessati (esiste anche per gli assassini). A questa procedura già esistente è stata apportata una sola modifica, cioè la possibilità di licenziamento del dirigente che non attiva la procedura medesima. E va bene! Colgo solo l’occasione per rammentare che se rimane la responsabilità soggettiva del dirigente a risarcire l’interessato qualora questi abbia soddisfazione davanti al giudice molti casi rimarranno irrisolti.

 

Mi pare che da quanto ho scritto si evidenzino ancora luci ed ombre. Soprattutto, siamo ancora lontani dall’aggredire i problemi che abbiamo nelle pubbliche amministrazioni, le quali – torno a ripeterlo – non hanno bisogno di azioni ad effetto ma di un forte coordinamento fra le varie parti del disegno, fra riforme istituzionali e riforme amministrative, fra risorse da investire e obiettivi da perseguire. Senza contare che si stanno  lasciando per ultimi tre nodi che stanno diventando drammatici: blocco del turnover e invecchiamento medio del personale, quantità e qualità della dirigenza, contratto. A quando azioni decise in questa direzione?    

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