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Il codice etico, unico strumento

contro malaffare e corruzione

Una classe dirigente degna di tale nome dovrebbe essere consapevole che esistono pratiche non penalmente rilevanti ma non per questo meno moralmente disdicevoli da cui chi ha responsabilità politiche, burocratiche o imprenditoriali deve tenersi alla larga

 
 
 

Il dibattito sull’etica pubblica non cessa di infiammare il Paese, arrivando a investire anche aree di autodichiarata incontaminazione come il Movimento 5 Stelle. Ci si interroga circa il vero limite della purezza oscillando dall’avviso di garanzia alla condanna definitiva, ma senza dare risposte nelle quali non si scorga un velo di ipocrisia. La risposta è sempre quella che a seconda dei casi conviene di più. La verità è che la discussione sulle regole nasconde una generale e profonda allergia all’unico strumento efficace, tanto per i partiti e i movimenti quanto per gli enti pubblici e le imprese e le associazioni private: il codice etico.

Bene ha fatto lunedì sera Piercamillo Davigo durante la trasmissione Next su Raidue a tornare sulle sue dichiarazioni al Corriere che nei giorni scorsi avevano scatenato un putiferio, per precisare che il problema non riguarda solo certi politici, ma l’intera classe dirigente italiana. «Per molto meno di quello che emerge in Italia all’inizio di una vicenda giudiziaria all’estero si dimettono. Da noi fanno cose orribili e dicono: ‘ Aspettiamo la sentenza’», ha chiosato il presidente dell’associazione magistrati.

 

 

Verissimo. E non si può non ricordare come un certo cambio di passo nel mondo delle imprese private sia stato avvertito quando la Confindustria, sotto la spinta coraggiosa e decisiva del presidente dell’associazione siciliana Ivan Lo Bello, ha fatto propria una norma in base alla quale le aziende che non denunciano le richieste di pizzo vengono espulse dall’organizzazione. Anche se nello stesso mondo imprenditoriale si continuano tuttora a registrare resistenze diffuse al rispetto di regole etiche stringenti. Resistenze non evidenti, ma significative. Sotto forma di segnali.

Un caso? Due anni orsono l’Ance vara un codice etico che abbatte radicalmente il tabù dei tre gradi di giudizio, decretando la sospensione dagli incarichi per chi viene rinviato a processo con l’accusa di gravi reati. Pochi mesi dopo arriva all’associazione dei costruttori una lettera della Confindustria nella quale, a scanso di equivoci, si rammenta che la presidenza sta per scadere, e che secondo le norme statutarie non può essere rinnovata né prorogata. Ineccepibile. Se non fosse che in tanti altri casi analoga sollecitudine non è stata usata.

Così in politica. Da un lato la candidata sindaco di Roma Virginia Raggi ammonisce a non usare «gli avvisi di garanzia come manganelli», dichiarandosi comunque disposta a dimettersi su richiesta di Beppe Grillo, e dal lato opposto si sente Denis Verdini rivendicare con orgoglio: «sono innocente fino al terzo grado di giudizio».

Il fatto è che troppo spesso il confine dell’etica viene identificato con i reati penali. Mentre una classe dirigente degna di tale nome dovrebbe essere pienamente consapevole che esistono pratiche non penalmente rilevanti ma non per questo meno moralmente disdicevoli, da cui chi ha responsabilità politiche, burocratiche o imprenditoriali ha l’obbligo di tenersi alla larga. Valgano come metro di paragone le regole che vietano a funzionari e responsabili istituzionali di accettare regali di valore introdotte da quasi tutti i governi dei Paesi sviluppati.

E’ qui che interviene il codice etico, capace sotto certi aspetti di essere ancora più rigoroso ed efficace delle norme penali. Per esempio c’è chi, come l’ex giudice ed ex parlamentare Giuseppe Ayala, sostiene che l’annosa questione di quali intercettazioni telefoniche contenute negli atti giudiziari siano o meno pubblicabili si possa risolvere semplicemente adottando uno specifico codice etico per i giornali e i giornalisti, anziché ricorrere a leggi che inevitabilmente finirebbero per limitare la libertà di stampa.

Il vero problema è che spesso anche i codici rimangono sulla carta, ridotti a semplice foglia di fico. Per questo è necessario che vangano applicati con serietà, avvalendosi di probiviri scelti con saggezza e preferibilmente terzi: cioè esterni alla categoria che adotta quelle regole. Ma si può stare certi che il contributo al recupero di moralità della nostra classe dirigente potrebbe essere davvero fondamentale. Anche grazie a un effetto collaterale non trascurabile, conseguente al fatto che violando un codice etico ci si espone non al giudizio indistinto della collettività ma a quello dei propri simili. E’ il risveglio del sentimento, tragicamente assopito da troppi anni, della vergogna. Il deterrente più micidiale che possa esistere contro malaffare e corruzione.

 

18 maggio 2016 (modifica il 18 maggio 2016 | 20:30)
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