15/05/2016 – Duro il mestiere del sindaco, forte la ricerca dell’autoassoluzione

Duro il mestiere del sindaco, forte la ricerca dell’autoassoluzione

 
 
Consapevolezza della difficoltà estrema del ruolo del sindaco, ma anche una voglia nemmeno tanto nascosta di autoassoluzione. Sono questi gli elementi evidenti delle molte voci di sindaci levatesi nei giorni scorsi, dopo la sequenza dell’arresto del sindaco di Lodi e degli avvisi di garanzia ai sindaci di Livorno e Parma.

 

E così abbiamo assistito all’intervista rilasciata dall’ex sindaco di Venezia, Cacciari, secondo il quale è semplicemente folle chi pensa di voler fare il sindaco. Poi, abbiamo letto la lettera aperta di alcuni sindaci al Presidente della Repubblica per sottolineare le difficoltà del mandato. Da ultimo, il 14 maggi, il presidente dell’Anci e sindaco di Torino Piero Fassino, su Il Messaggero rilascia un’intervista che rincara la dose, indirettamente confermata da Il Sole 24 in una recensione di un libro scritto dall’ex sindaco di Forlì, Balzani.
In mezzo, moltissimi editoriali e commenti della stampa generalista, la gran parte dei quali segue sostanzialmente l’impostazione tracciata da Gramellini nel suo buon giorno del 13 maggio, intitolato “Pizza e Fico”; riferendosi agli esponendi di M5S, estremamente radicali nel chiedere ad ogni piè sospinto le dimissioni per ogni amministratore locale iscritto nel registro degli indagati, Gramellini scrive: “La realtà si sta incaricando di contraddirli, facendo piovere avvisi di garanzia sulla schiena dei sindaci del movimento. Cosa abbiano fatto di male non è chiaro nemmeno a loro: prendere decisioni, in questo Paese, significa spesso compiere atti al limite della legalità. Sarebbe ora che i pentastellati lo riconoscessero, invece di continuare a gridare «Onestà onestà» e intanto intestarsi tutte le posizioni in campo”.
Decrittare e rendere evidente lo schema è molto semplice. Il punto di partenza è:
1)      non sono solo i sindaci del Pd o di Forza Italia o delle forze politiche diverse da M5S a ricevere avvisi di garanzia;
2)      dunque, il problema degli avvisi di garanzia che piovono “sulla schiena dei sindaci” è comune e, questo, per due ragioni:
a.       la magistratura è visibilmente ostile alla politica, come confermato dalle recenti esternazioni di Davigo e da prese di posizione sul referendum confermativo della riforma della Costituzione di molti PM;
b.      anche gli amministratori M5S possono macchiarsi di reati;
3)      M5S si sta mostrando incoerente, perché sospende Pizzarotti ma non Nogarin, ma comunque non si mostra così rigido come con i sindaci del PD;
4)      in ogni caso, l’atteggiamento di M5S sta cambiando e divenendo meno radicale, grazie ad un “processo di maturazione” del movimento, che sta divenendo consapevole:
a.       del fatto che esiste una lotta pluriennale tra magistratura e politica;
b.      del fatto che amministrare significa “sporcarsi le mani”;
5)      comunque, in Italia, talmente tante e farraginose sono le regole tra cui districarsi e talmente complessa è la funzione dei sindaci che, appunto, è impossibile decidere senza “compiere atti al limite della legalità”.
Un’analisi, ovviamente, non tecnica, molto tra la presa di posizione nell’agone politico ed il sociologico. Ma, in ogni caso, suggestiva.
In tanti prendono l’occasione per citare Tacito, il quale osserva che più leggi vi sono, più uno Stato è corrotto.
Insomma, lo spunto è chiaro: il mestiere del sindaco è di per sé difficile, reso tale da una ridda di leggi impossibili da rispettare e da una magistratura ostile. E’, dunque, “pazzo” chi si avventura in questa carica, tale da dover essere compreso e coperto. Mentre sarebbe necessario prevedere modifiche rilevanti alle responsabilità ed all’organizzazione, il tutto contando nel “processo di maturazione” di M5S, che possa favorire riforme normative tali da attenuare le responsabilità dei sindaci, così da rendere ciò che Gramellini considera “al limite della legalità” entro detto confine.
E, infatti, questa è chiarissimamente la richiesta del sindaco di Torino, nell’intervista a Il Messaggero: “Da tempo dico che bisognerebbe ridefinire i reati amministrativi. Come sono ora si stanno rivelando ambigui e fonte di atti giudiziari ingiusti, esponendo a rischi insostenibili anche l’amministratore più onesto del mondo”.
Fassino forse dimentica che i “reati amministrativi”, ma forse intendeva dire quelli contro la pubblica amministrazione, furono a suo tempo fortemente riformati e limitati nella loro portata al tempo del primo governo Prodi, del quale Fassino era, per altro ministro, esattamente per gli stessi scopi di oggi.
Cosa si intende dire “ridefinire i reati amministrativi”, esattamente? Questa è la vera questione aperta.
Sicuramente, il sindaco di Torino ha ragione quando afferma: “in Italia ci sono 8.000 Comuni i cui amministratori saranno forse 120.000. La stragrande maggioranza non è mai stata sfiorata da ombre. Si tratta di donne e uomini di tutti i partiti politici che si dedicano alle comunità che amministrano con passione, competenza, dedizione, peraltro con indennità di carica ridicole. E queste persone anziché essere rispettate vengono presentate come una categoria procliva a commettere reati”.
Ma, scade sulla semplificazione eccessiva della stampa generalista, quando afferma: “Un conto sono reati come corruzione e concussione e gli arricchimenti personali che vanno perseguiti severamente. Un altro conto sono reati di tipo amministrativo. Per questi ultimi non è in gioco un interesse personale e può capitare che un sindaco vi incappi inconsapevolmente cercando di espletare la sua missione”.
Ma, allora, entrando un po’ meglio nel merito delle questioni, forse si dovrebbe comprendere un elemento fondamentale, che inficia e priva di fondamento il ragionamento proposto da Gramellini e Fassino e la voglia di autoassoluzione che sta dietro l’attuale dibattito: governare e decidere senza compiere atti ai limiti della legalità è perfettamente possibile e, anche, doveroso: l’importante è volerlo e non accusare, poi, il destino cinico e baro, o il complotto dei giudici o dei burocrati o “giudaico pluto massonico” se, poi, scattano iniziative giudiziarie.
Esaminiamo i tre casi più di attualità, Lodi, Livorno e Parma, sia pure in termini generalissimi perché non è ancora del tutto chiaro cosa realmente sia avvenuto e partendo dal presupposto inscalfibile che i tre sindaci sono innocenti e che solo una sentenza definitiva potrà dimostrare il contrario.
A Lodi l’arresto del sindaco sembra sia scattato perché vi sono prove (testimonianze anche di una funzionaria ligia nell’applicare le regole anticorruzione ed intercettazioni) che il primo cittadino abbia inteso manipolare un bando di gara, per favorire l’assegnazione ad un certo prestatore.
La domanda che si pone (a Gramellini, a Fassino e a chiunque) è: modificare il contenuto di un bando di gara, in collaborazione con l’amministratore del soggetto che con la modifica si intende favorire, cercando la collaborazione della funzionaria allo scopo ed impegnandosi a formattare il pc per rimuovere le tracce del rimaneggiamento del bando, è un’azione “ai limiti della legalità” alla quale il sindaco di Lodi, come qualsiasi altro sindaco, è stato costretto o indotto, per rimediare alla farraginosità delle leggi o a chissà quale altro lacciolo burocratico?
Andiamo al caso di Livorno. E’ verissimo che il sindaco si è assunto la forte responsabilità di chiudere con una gestione in drammatica perdita della società che gestisce il servizio rifiuti, chiedendo il concordato preventivo “portando i libri in tribunale”. Ma, era davvero obbligato, allo scopo di rimediare alla farraginosità delle leggi o a chissà quale altro lacciolo burocratico, ad assumere 33 “precari”, così incrementando enormemente i costi di un’impresa in regime di concordato?
Andiamo a Parma. L’avviso di garanzia è scattato, tra l’altro, per l’assegnazione dell’incarico al direttore generale del Teatro Regio. Il consiglio di amministrazione della fondazione che lo gestisce aveva attivato un avviso “di ricognizione esplorativa” per individuare la persona da incaricare, che però si è chiuso “senza esito”. Sicchè il medesimo consiglio di amministrazione ha deciso di scegliere il direttore generale al di fuori dei circa 30 candidati presentati. Nonostante l’avviso (reperibile sul sito della fondazione) lasciasse al consiglio di amministrazione sostanzialmente un arbitrio totale nella scelta, come si evince leggendo l’articolo 8: “La Fondazione si riserva altresì la facoltà di scelta del Direttore generale sulla scorta del migliore tra i progetti presentati, a esclusivo e insindacabile giudizio del proprio Consiglio di Amministrazione”. E’ ravvisabile la necessità di agire al di fuori della procedura selettiva in quanto il sindaco è stato a ciò costretto o indotto, per rimediare alla farraginosità delle leggi o a chissà quale altro lacciolo burocratico?
Le tre domande erano retoriche. Non è ravvisabile alcuna coazione nei confronti dei sindaci ad agire così come risulta dalle fonti dei media. Si è trattato di scelte pienamente consapevoli.
Nel caso del sindaco di Lodi, la consapevolezza pare anche confermata dalla propria confessione, oltre che dalle intercettazioni che rivelano l’intento di eliminare alcune prove, con la formattazione del pc. Nel caso del sindaco di Livorno, la consapevolezza del gravame finanziario sulla società in concordato preventivo a seguito dell’assunzione dei 33 precari pare dimostrata dalle dichiarazioni sui giornali, con le quali il sindaco e chi ne spiega o difende l’operato afferma che quei lavoratori sarebbero comunque probabilmente assunti, a seguito di provvedimenti del giudice del lavoro. Nel caso del sindaco di Parma, la consapevolezza è indirettamente dimostrata dalla circostanza, invero curiosa, che coscientemente il consiglio di amministrazione, pur sostanzialmente liberissimo di scegliere chi meglio pareva tra i 30 candidati, ha comunque inteso fare a meno di rispettare la procedura selettiva.
Detto questo, non è per nulla scontato che queste azioni abbiano realmente comportato la commissione di reati e, anzi, qui si esprime la convinzione opposta.
Ma, il problema della “legalità” dell’azione amministrativa non può limitarsi alla sola verifica della fedina penale.
L’adempimento all’obbligo civile di non commettere reati è una precondizione, necessaria e non sufficiente, per governare. Occorre, infatti, che si governi bene, cioè ottenendo risultati utili per la comunità amministrata. Ma il “bene” non può essere definito autonomamente in via esclusiva da chi agisce: va perseguito nel rispetto di regole generali, le leggi, che predefiniscono a volte i fini dell’azione, i modi dell’azione, i costi dell’azione, lasciando tal altra discrezionalità solo tra più fini, ma se entrambi conformi all’interesse pubblico.
In altre parole, l’interesse pubblico non viene individuato di volta in volta dal sindaco o dal politico di turno, ma è il frutto di una serie di regole ed azioni, sempre conformi alle regole.
Sicchè, mentre non si può e non si deve esprimere nessun giudizio di colpevolezza dei tre sindaci di Lodi, Livorno e Parma, è, invece, possibile evidenziare che le loro azioni certamente sul piano della legittimità dell’azione amministrativa (legalità amministrativa e non penale) sono molto discutibili.
In primo luogo, ma lo abbiamo già scritto, perché si è trattato di scelte sicuramente non dovute e non obbligate.
Per quanto riguarda Lodi, è chiaro che l’azione posta in essere è in contrasto con le regole degli appalti, con la libertà di concorrenza, con l’imparzialità dell’azione amministrativa. Ma, anche, con le regole di comportamento da seguire con i dipendenti, vista l’azione di coazione, sia pure non forzata, nei confronti della segretaria. E occorre, a questo proposito, ricordare che sebbene sia verissimo che ben pochi dei 120.000 amministratori locali, come ricordato da Fassino, sono coinvolti in azioni penali, altrettanto vero è che ogni giorno ciascuno dei 120.000 amministratori si relaziona con i dipendenti allo scopo di forzarne scelte e firme. Chiunque lavori negli enti locali lo sa benissimo.
Per quanto riguarda Livorno, la forzatura di assumere i dipendenti è abbastanza evidente, sia sul piano della legittimità, sia su quello della correttezza gestionale. Per essere certi che un’assunzione sia dovuta, visto che vi sono vertenze in corso e visto che il datore è in concordato preventivo, occorreva solo attendere la decisione dell’unica autorità in grado di stabilirlo: il giudice. Poiché c’era un rischio finanziario connesso, sarebbe stato necessario prevedere un fondo rischi adeguato alla circostanza.
Per quanto concerne Parma, si pone il problema generale e gravissimo dell’assenza di una ratio che consente agli organi politici di incaricare i vertici amministrativi senza applicare l’articolo 97 della Costituzione. Delle due l’una: o si afferma, come in parte la Consulta ha ammesso, i vertici sono connotati da fiduciarietà e, quindi, va previsto una volta e per sempre e con chiarezza che non occorra alcuna selezione e il datore di lavoro, per quanto pubblico, sceglie chi meglio gli aggradi e come meglio gli sembri (direttamente, per amicizia, avvalendosi di esperti in valutazioni di curriculum); oppure, si stabilisce una volta e per sempre che si accede nei posti pubblici solo per concorso. E che una selezione, per quanto esplorativa, possa andare deserta, ma che la cosa – invero possibile, ma improbabile – debba essere molto, ma molto ampiamente motivata.
L’analisi sia pur superficiale dei casi concreti non incide certo sulla difficoltà insita e verissima dello svolgere l’attività del sindaco, ma dovrebbe far riflettere molto bene sulle ricette proposte per porre rimedio a questa situazione.
Possono tornare, comode, allora, le sintesi del libro “Cinque anni di solitudine” dell’ex sindaco di Forlì Balzani, riportate da Il Sole 24Ore del 14 maggio.
Tra le righe, si trova un passaggio molto in linea con il pensiero di Gramellini e Fassino: il giornalista ricorda come il Balzani, nel libro, evidenzi la necessità del sindaco “di presentarsi sempre come colui che risolve deve fare i conti con un contesto di leggi, leggine, regolamenti che sono davvero come i famosi «lacci e lacciuoli» di cui parlava per altri profili Guido Carli. Ormai qualsiasi concorso pubblico, qualsiasi appalto, qualsiasi delibera è uno slalom fra bucce di banana e chiazze d’ olio tanto è facile trovare appigli per portare tutto davanti ad un qualche tribunale, penale o amministrativo che sia”. Come si nota, lo schema è: troppe leggi aumentano il rischio di violazioni anche inconsapevoli, che portino tutto davanti al giudice.
Ma, si tratta di una generalizzazione poco condivisibile. Intanto, non ha senso mischiare la giurisdizione amministrativa con quella penale. Per quest’ultima occorre commettere reati; per la prima, invece, bastano semplici violazioni alle regole del corretto agire amministrativo.
Non è così difficile, per quanto complicato, rispettare le regole dell’azione amministrativa, solo che lo si voglia. La sintesi del libro del Balzani riporta un errore clamoroso agli occhi di conosca i reali assetti del funzionamento dei comuni: l’ex sindaco, come visto, si lamenta per la circostanza che veniva chiamato in causa per “qualsiasi concorso pubblico” e “qualsiasi appalto”.
Ma, solo nella fantasia di chi non conosce e non è tenuto a conoscere gli assetti delle competenze degli enti locali un sindaco risponde di concorsi e appalti (questioni in qualche misura coincidenti con quelle riguardanti Lodi, Livorno e Parma, per altro). Tuttavia, dovrebbe essere chiarito molto bene che la normativa esclude in maniera tanto radicale quanto esplicita i sindaci da qualsiasi competenza (che non sia programmatoria) nella materia dei concorsi e degli appalti. Ovviamente, sol che lo si voglia. Ma, proprio perché la legge esclude i sindaci da questi atti di gestione, tanto più si eleva il rischio che si compiano lesioni all’ordinamento amministrativo che possano giungere fino all’illecito penale, quanto più i sindaci varchino i confini delle loro competenze. E non c’è alcuna ragione plausibile per confermare che a tali violazioni di confini possano essere costretti da fattori esterni.
Un altro tema, pericolosissimo, è tracciato dall’ex sindaco di Forlì: la collaborazione dell’apparato amministrativo. L’articolo de Il Sole 24 Ore sintetizza il libro affermando che al sindaco serve “poter contare su un apparato amministrativo di grande competenza e incisività, ma non è così scontato che lo abbia a disposizione. In molti contesti, senza pensare qui ai casi eclatanti di malaffare, la struttura burocratica è appesantita da anni di sistemi di assunzioni sostanzialmente clientelari e nei vertici sconta spesso la scarsa attrattività per personale molto qualificato a fronte di trattamenti economici non sempre adeguati. Per completezza va aggiunto che in non pochissimi casi questa considerazione ha portato a miglioramenti economici, ma è servita non per avere nuovo personale di alta qualificazione, ma per far remunerare personale entrato con le routine di cui abbiamo detto e che ha fatto scalate di posizioni piuttosto «interne» come se fosse di alta qualificazione”.
E’ un argomento estremamente scivoloso e pericoloso. L’affermazione è molto suggestiva e fa molta presa sui molti che hanno una visione (per altro non di rado giusficata) negativa della pubblica amministrazione. Ma è in gran parte non corrispondente al vero e in altra parte figlia di un’analisi tendenziosa.
Ci sono stati certamente anni di “sistemi di assunzioni sostanzialmente clientelari”. Però, su questo punto:
1)      chi, nei comuni, ha fatto, negli anni in cui ciò era possibile, assunzioni clientelari se non i sindaci che ora se ne lamentano?
2)      dal 1992 ad oggi, si tratta di 24 anni, non poco, i politici ed i sindacalisti non fanno più parte delle commissioni di concorso: da quasi un quarto di secolo assumere in modo clientelare è molto più difficile di un tempo e molto più esposto alla commissione di reati; la gran parte del personale assunto da oltre un quarto di secolo a questa parte non è figlia di azioni clientelari, se non causate da reati. L’apparato, quindi, non è per niente pieno ed intriso di professionalità inadeguate;
3)      da circa 23 anni le pubbliche amministrazioni tutte, e i comuni in particolari, debbono valutare le competenze dei dipendenti e, in particolare, quelle dei vertici, mediante sistemi di valutazione, allo scopo sia di premiare il merito, sia di colpire il demerito. Moltissime amministrazioni, compresi i comuni, però, non lo fanno o lo fanno solo formalmente, rinunciando così ad una leva fondamentale per la qualificazione del personale: qualcuno costringe forse i sindaci a non utilizzare uno strumento essenziale per valorizzare le competenze?;
4)      le “scalate interne” sono state quasi sempre frutto di compromessi tra sindaci e sindacati, per mantenere il consenso, risultando, alla fine, sia poco selettive, sia poco produtive. Qualcosa ha indotto e coartato i sindaci ad agire così?
Dietro al messaggio lanciato dall’ex sindaco di Forlì, per altro assolutamente non nuovo ma trito e ritrito, il chiaro desiderio di poter assumere i dipendenti a piacimento, e, soprattutto, crearsi un apparato “di fiducia”.
Ma, tutto questo contrasta con l’articolo 97 della Costituzione e, prima ancora, con la logica. E’ perfettamente normale che in un’azienda privata il proprietario si crei uno staff di sua totale fiducia: l’azienda è sua, ne risponde solo lui. Purtroppo, da quasi 30 anni si insiste nel devastante errore di voler considerare la PA alla stregua di un’azienda, senza considerare che le dinamiche e le regole sono completamente diverse e anche opposte in non pochi casi. Un comune non è di proprietà del sindaco pro tempore. Non c’è ragione alcuna perché il sindaco vanti un diritto ad assumere chi voglia senza regole di apertura al pubblico e selezione a parità di condizioni; non c’è ragione alcuna perché il sindaco abbia uno staff di fiducia se non limitato al capo ufficio stampa e, nei comuni più grandi e sempre che ciò sia considerabile legittimo (del che si dubita fortemente) ai sensi dell’ordinamento locale, del capo di gabinetto; lo stesso direttore generale (figura costosissima che in questi anni ha dimostrato un’utilità prossima allo zero) non pare affatto opportuno che si consideri come una longa manus della politica, per una ragione semplicissima: l’apparato amministrativo e la dirigenza non è servente “del sindaco”, di quel sindaco, di quella persona, di quel partito oggi al governo, ma degli organi, delle istituzioni e, soprattutto, della popolazione da queste istituzioni amministrate. L’apparato deve essere competente e va valutato rigorosamente a questo scopo, ma è al servizio, con i medesimi obblighi di competenza e lealtà, di qualsiasi sindaco si succeda, così come è obbligato a rendere i propri servizi nei confronti di qualsiasi cittadino, nel rispetto della programmazione politica, ma senza differenziazioni connesse ad appartenenze politiche oppure a meccanismi di produzione del consenso.
Del resto, se è vero che il mestiere del sindaco è gravoso, altrettanto vero è che non si può negare in Italia esista un problema di legalità. Cosa si intende affermare, quando si espone il pur corretto dato, che su 120.000 amministratori locali, sono pochi quelli coinvolti in procedimenti penali? Che il problema non esiste? Oppure, quando si afferma che i sindaci di M5S sono tutti coinvolti come gli altri, e che, allora, “se tutto è corruzione, niente è corruzione”?
Si tratta di analisi e sillogisimi totalmente privi di fondamento. Il fatto concreto è uno solo: al netto della difficoltà oggettiva a svolgere la funzione di sindaco, i casi di mala amministrazione e anche di commissione di reati esistono, pur non essendo la maggioranza.
Se così non fosse, non si sarebbe nemmeno costituita l’Anac, né Cantone sarebbe stato eretto a deus ex machina che risolve ogni illegittimità del mondo. E la normativa anticorruzione quali ambiti operativi considera, di per sé, ad alto rischio di corruzione? I concorsi e gli appalti, esattamente ciò di cui parla l’ex sindaco di Forlì, oltre a concessioni ed erogazioni di contributi. E l’Anac nei suoi piani anticorruzione individua sempre nell’ingerenza politica in appalti e concorsi uno dei fattori di rischio specifici.
Allora, poiché i rischi sono noti ed i fattori di rischio pure, la conferma che l’intento delle analisi della stampa e di molti interventi politici sia la ricerca dell’autoassoluzione appare chiara.
Non è per nulla dimostrabile concretamente che per decidere occorra stare ai confini della legalità, visto che gli strumenti per decidere nella legalità vi sono e considerato che i rischi operativi sono noti e gestibili, anche grazie al supporto di un’Autorità per altro estremamente attiva sul punto.
Su un passaggio, tuttavia, non si può che dare totalmente ragione al sindaco di Torino, quando afferma: “Ogni giorno il nostro impegno è ostacolato da una bardatura di norme, regolamenti e leggi spesso tra loro contraddittori. Si dimentica che noi eroghiamo ai cittadini asili, scuole materne, assistenza domiciliare agli anziani, politiche a favore dei disabili, trasporti pubblici: ogni volta che si mette in difficoltà un sindaco non si colpisce solo lui ma si colpiscono i cittadini”.
Tuttavia, questa affermazione merita una specificazione. Non si tratta di tutte le leggi, norme e regolamenti. Il presidente dell’Anci avrebbe dovuto essere più preciso. Le norme che continuamente mettono in difficoltà i sindaci non sono certo le regole del codice penale o della disciplina anticorruzione, ma hanno “nomi e cognomi” ben precisi: sono le varie leggi finanziarie prima e di stabilità, poi, che hanno continuamente inciso sui comuni e gli altri enti locali, spremendoli come limoni per recuperare risorse che, invece, lo Stato non intende mai risparmiare; si chiamano “codice dei contratti”, intriso di regole e norme che tutto fanno, tranne che semplificare la realizzazione delle opere pubbliche; si chiamano “contabilità armonizzata” con la sua bulimia di principi contabili ai limiti del paradosso, che rende l’azione amministrativa schiva della ragioneria; si chiamano testo unico dell’edilizia e degli espropri, con le moltissime, estenuanti, pignole minute regole per produrre anche solo una carta; si chiamano “false semplificazioni”, cioè tutto quell’insieme di norme che vengono propagandate come destinate a “semplificare”m regolarmente risolte, poi, in complicazioni enormemente maggiori.
Tra queste norme rientra, ad esempio, a pieno titolo la devastante riforma delle province, che da due anni attanaglia anche i comuni, ad esempio impedendo loro di effettuare assunzioni. La legge 190/2014 ha sottratto alle province 3 miliardi, ma, parafrasando il sindaco Fassino, non è che abbia colpito i presidenti delle province, bensì i cittadini. Eppure, l’Anci ha esultato ed applaudito quando la riforma è stata approvata. E l’Anci, attraverso l’Ifel, collabora pienamente nella formulazione di una riforma della contabilità assurda, che nella consapevolezza di tutti, presto renderà ingestibili i bilanci. Sempre l’Anci si dimostra, nei fatti, regolarmente concorde con ogni legge finanziaria che penalizza i comuni, dopo aver alzato un po’ la voce.
Forse, allora, i sindaci dovrebbero analizzare un po’ meglio la situazione e rifuggire dalla tentazione di autoassolversi o di sperare nel coinvolgimento di tutte le forze politiche per ottenere riforme che azzerino i reati contro la pubblica amministrazione.
Il problema del ben amministrare resterebbe comunque. E resterebbe comunque anche l’altra dimensione, molto più pesante e rilevante, delle ingerenze operative ed amministrative, che da troppi anni i “parerifici” ad ogni titolo esercitano sugli enti locali: sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, Aran, Anac, Ministeri con gli interpelli e le Faq, servizi ispettivi della Ragioneria generale dello Stato. Si è creato un diritto parallelo convulso, contraddittorio, estraneo spesso anche alle stesse regole normative perché creativo di nuove, in cui alla fine tutto si negozia, si stravolge, si valuta in modi diversi nel tempo e a seconda delle sensibilità. Una maionese impazzita, che rende impossibile anche agli apparati stessi, per quanto competenti, assicurare ai propri organi di governo soluzioni lineari, prima che legittime.
Forse, i sindaci hanno sbagliato e di tanto, a suo tempo, quando esultarono per l’eliminazione dei controlli preventivi di legittimità. Forse, per evitare che i controlli, sciaguratamente aboliti, siano esercitati a posteriori dal giudice penale, sarebbe molto più opportuno pretendere a gran voce che siano ripristinati ed affidati ad organi amministrativi terzi; e pretendere che la Corte dei conti eserciti l’azione erariale solo quando vi sia una spesa non ammessa e in più rispetto al bilancio, e non si creino clamori e disastri operativi (cui porre rimedio in modo maldestro, come col “salva Roma”) sol perché, pur senza aumentare la spesa del personale, si assegni un’indennità chiamata con un nome diverso da quello previsto dal contratto collettivo nazionale, oppure non si sia “costituito il fondo”, anche se il bilancio di previsione lo contempli. Sarebbe da pretendere che gli organi deresponsabilizzati, che fanno controlli o esercitano azioni senza, tuttavia, rispondere nemmeno davanti al Tar della legittimità della propria azione, cedano il passo e si torni a controlli preventivi, seri, che misurino della qualità dell’azione amministrativa e garantiscano della sua legalità prima che essa sia violata, con piena assunzione di responsabilità anche del controllore e non solo del controllato.
Finchè questo non avvenga, finchè l’attenzione dei sindaci sia rivolta a lamentazioni generiche e al tentativo di ammorbidire le norme sulla responsabilità penale, la soluzione rimarrà lontana.

 

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto