11/05/2016 – la “questione culturale” nell’organizzazione

LA “QUESTIONE CULTURALE” NELL’ORGANIZZAZIONE

 

Dopo tanti tentativi di riformare la pubblica amministrazione, intervenendo con modifiche di carattere normativo, tutte promettenti, ma prontamente riformate, si è giunti alla conclusione che il problema delle pubbliche amministrazioni è di natura “culturale”. Lo ha affermato il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, quando, nell’aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione, emanato nell’ottobre del 2015, ha abbandonato il meccanicismo ingegneristico delle formule prescrittive e ha invitato le amministrazioni a utilizzare quale forma di prevenzione, il “coinvolgimento”.

Questa affermazione potrebbe essere intesa come l’ammissione di un insuccesso. Ma può essere anche intesa come una importante svolta dell’apertura verso l’attenzione nei confronti delle persone che compongono il sistema organizzativo. Già in passato l’indimenticabile Adriano Olivetti aveva affermato che “ gli animali si addestrano, le persone si educano”.

In questa frase risiede l’approccio di cui le pubbliche amministrazioni hanno effettivamente bisogno. Già, intorno alla metà del secolo scorso, si era affermata l’importanza del “fattore umano”. Quella scuola di pensiero, finalizzata alla valorizzazione delle capacità individuali, con il tempo purtroppo è stata soppiantata dalla “ingegnerizzazione” dei processi di lavoro e dalla conseguente percezione delle persone come “risorse umane”. Se le persone sono risorse umane, cioè fattori di produzione (al pari delle risorse strumentali) ad esse si richiede soltanto di essere allocate all’interno di procedure predefinite, spogliandole di ogni individualità, buona o cattiva che sia. Questa modalità che è stata presentata come una evoluzione manageriale, ha rappresentato invece, una involuzione sociale. Ogni contesto organizzativo, infatti, è un sistema sociale nel quale, nel rispetto delle regole, si sviluppano comportamenti e relazioni funzionali al conseguimento di un fine comune.

In questi ultimi anni, abbiamo, invece, assistito alla pretesa di rendere migliore ogni organizzazione attraverso la formalizzazione di procedure, con lo scopo dichiarato di ridurre al minimo l’intervento dell’uomo. Certamente l’uomo rispetto alla macchina è indotto in errore ed è soggetto a dinamiche di tipo emozionale, ma non si può disconoscere che ha una capacità razionale e valoriale che lo pone al di sopra nei confronti di ogni macchina, così come di ogni sistema meccanicistico.

Non è il caso di polarizzare la questione. E non si tratta di parteggiare per l’uomo o le procedure. Si tratta invece di creare una integrazione funzionale che riesca a recuperare le persone in ragione del ruolo rivestito e che si riesca a progettare procedure che sappiano valorizzare gli aspetti positivi del contributo umano a ogni organizzazione.

È qui che si fonde l’esigenza di una cultura organizzativa. Che non vuol dire soltanto conoscenza delle norme o degli organigrammi, ma orientamento dei comportamenti verso il conseguimento comune dell’interesse pubblico. E tutto ciò non si può ottenere inasprendo il sistema sanzionatorio, come invece si vuol fare. L’organizzazione ideale è quella che valorizza e recupera i propri dipendenti, non quella che inasprisce le sanzioni e li emargina. Il compito di un vertice organizzativo, infatti, è quello di “contaminare” modelli culturali orientati alla integrazione, alla cooperazione e alla finalizzazione dell’attività per il conseguimento dei compiti istituzionali. È in tutto ciò che risiede la cosiddetta “cultura organizzativa” cioè nel rispetto del proprio ruolo “ a tutti i livelli”  e nella esigenza di integrazione con i colleghi.

(articolo realizzato per Westminster e pubblicato su www.marcoaurelio.comune.roma.it)

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