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Corte dei conti: l’interpretazione “costituzionalmente orientata” non può essere attivata solo a singhiozzo. Il caos della soft law

 
 
 
Lo segnaliamo ormai da molto tempo: più di una crepa è ormai evidente nel sistema dei controlli cosiddetti “collaborativi” operati dalla Corte dei conti, mediante i pareri resi alle amministrazioni locali.
Sono troppi, ormai, i casi di palesi ed insanabili contraddizioni tra le deliberazioni delle varie sezioni, mentre aumentano anche quelli nei quali le decisioni adottate in applicazione nomofilattica da parte della Sezione Autonomie si rivelano estremamente deboli sul piano interpretativo, contraddittori e oggetto di disapplicazioni.

Le amministrazioni locali restano sempre più attonite, di fronte ad un vortice inarrestabile di tesi, antitesi, modifiche parziali dei pareri, indicazioni nomofilattiche contraddittorie, che si aggiungono all’ondata di piena mai contenuta a dovere di circolari, linee guida, che adesso vedono ulteriori elementi come Faq e “soft law” ad affollare e complicare irrimediabilmente il quadro.
Il problema viene accentuato in modo così allarmante da segnalare la necessità di una riforma radicale ed urgente, quando, poi, i criteri interpretativi stessi vengono utilizzati a singhiozzo. In altre parole, non risulta possibile ricavare dai pareri della corte dei conti spunti interpretativi univoci, ripetibili e riutilizzabili nella ricerca di applicazioni pratiche e prognostiche di gestioni rispettose delle norme.
In sostanza, i pareri della magistratura contabile fanno sostanzialmente tutti “storia a sé”. Tuttavia, il sistema dei controlli “collaborativi” fa ergere le deliberazioni delle sezioni regionali di controllo a pronuncia “erga omnes”. Allora, sarebbe il caso di decidere una volta e per sempre: il ruolo dei pareri qual è? Decidere in modo generale e valevole per tutti su problemi che, infatti, nei quesiti debbono avere un grado di astrattezza e generalità ampio, così da consentire una pronuncia non connessa al caso concreto? Oppure, nonostante detta astrattezza della questione da porre e del principio giuridico da affermare, restano comunque indicazioni riguardanti uno specifico caso, tanto che i canoni interpretativi applicati cambiano di volta in volta?
In assenza di gravami da parte delle amministrazioni pubbliche avverso i pareri delle sezioni di controllo, le domande poste sopra sono molto importanti e l’assenza di una risposta chiara è gravissima. Perché, ovviamente, né i pareri delle sezioni né possono considerarsi per se stessi esenti sempre da errori; né appare possibile impedire alle sezioni di esprimere visioni differenti o modificare anche radicalmente gli orientamenti espressi.
Due deliberazioni della Corte dei conti, Sezione Autonomie, rappresentano in modo plastico le delicate questioni poste.
Il primo è la delibera 14/2016, secondo la quale la spesa connessa al trattamento economico dei dirigenti assunti ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/2000 va computata ai fini del calcolo del tetto della spesa del personale flessibile.
Si tratta di un caso di revirement, una revisione a 180 di una precedente pronuncia, la 12/2012.
E’ perfettamente possibile che chiunque, qualsiasi organo, possa modificare un proprio orientamento e non è affatto infrequente che accada anche ai consessi più alti, come Cassazione o Corte costituzionale.
Tuttavia, l’incidenza sull’operatività di un orientamento giurisprudenziale connesso all’esercizio del potere giurisdizionale è molto minore dei controlli collaborativi. Infatti, le sentenze fanno stato esclusivamente tra le parti; il loro contenuto è utilizzabile ai fini dell’interpretazione di casi concreti simili, ma ovviamente poiché i principi espressi sono connessi a casi concreti, non è corretto estenderli troppo a casi concreti differenti, anche considerando la diversità della sfera del diritto sostanziale, da quella del diritto processuale, ove determinate letture delle norme sono anche fortemente influenzate dal contraddittorio e dall’attività delle parti stesse.
I controlli collaborativi, invece, non hanno alcun contraddittorio, si svolgono in maniera unilaterale e, come rilevato prima, si estendono ad un intero sistema, non limitandosi alla soluzione di una questione concreta: non fanno stato tra “parti”, ma pronunciano diritto esteso a tutti.
Stando così le cose, la delicatezza di ogni parere pronunciato è estrema ed un cambio di veduta, per quanto legittimo, è ovviamente impattante e traumatico. Soprattutto perché se due interpretazioni sono radicalmente diverse, una delle due è senz’altro erronea. E a spettare, come avvenuto per la delibera 14/2016, 4 anni ai fini della revisione dell’interpretazione è davvero troppo.
La Sezione Autonomie appoggia il proprio revirement su un elemento ordinamentale assunto come innovativo rispetto alla questione affrontata 4 anni prima: cioè l’entrata in vigore dell’articolo 11 del d.l. 90/2014, che ha elevato la quota di dirigenti a contratto assumibili dal 10% (circa) previsto dall’articolo 19, comma 6-quater, del d.lgs 165/2001, al 30%, prevedendo anche l’abolizione del medesimo comma 6-quater. Sarebbe venuta a mancare, dunque, l’opportunità di tenere ferma l’interpretazione del 2012, secondo cui i dirigenti a contratto non andavano computati nel tetto della spesa del personale flessibile, in quanto sarebbe risultato eccessivo prevedere un limite ulteriore a quello numerico già previsto a suo tempo dalle rigorose disposizioni dell’articolo 19, comma 6-quater.
A parte il fatto che la cosa andava intercettata e segnalata nel 2014, due anni, fa quando il d.l. 90/2014 appunto ha modificato il quadro, il fatto reale e concreto è che la giustificazione della linea interpretativa seguita nel 2012 era estremamente debole, ai limiti dell’inconsistenza.
In ogni caso, la decisione della Sezione Autonomie appariva profondamente erronea[1] e meritevole di una pronta e profonda revisione, anche in assenza di modifiche normative. Soprattutto, perché pochissimi giorni dopo la pronuncia traballante e poco fondata, la Corte costituzionale emanò la sentenza 173/2016, nella quale ritenne che l’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010 “è stata legittimamente emanata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica. Essa, infatti, pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale e, precisamente, a quello costituito da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo indeterminato. L’art. 9, comma 28, censurato, d’altronde, lascia alle singole amministrazioni la scelta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previste. Ciascun ente pubblico può determinare se e quanto ridurre la spesa relativa a ogni singola tipologia contrattuale, ferma restando la necessità di osservare il limite della riduzione del 50 per cento della spesa complessiva rispetto a quella sostenuta nel 2009”.
Come si potesse continuare a sostenere che l’articolo 19, comma 6-quater, comportasse un regime di “diritto speciale” derogatorio all’articolo 9, comma 28, alla luce di una sentenza della Consulta per altro basata sul semplice buon senso, non è dato davvero comprendere. Così come paradossale risultava considerare eccessiva la presenza di due vincoli, quello numerico e quello della spesa, alle assunzioni di dirigenti a contratto; del resto, occorre segnalare alla Sezione Autonomie, anche adesso che ha rivisto il proprio orientamento e che è stato abolito l’articolo 19, comma 6-quater, non v’è ugualmente un doppio limite? Continua, cioè, a vigere quello imposto dall’articolo 9, comma 28, insieme alla soglia del 30% prevista dall’articolo 110, comma 1.
E’ chiaro, dunque, che la pronuncia del 2012 fosse sbagliata. Non a caso il parere 14/2016 fonda la revisione interpretativa proprio esattamente sulla sentenza 173/2012 della Consulta e pone l’esigenza di un’interpretazione “costituzionalmente orientata”.
Certo è che dopo 4 anni, orientare costituzionalmente un’interpretazione produce problemi. Il più clamoroso dei quali è costringere, ora, le amministrazioni che hanno fatto affidamento sulla pronuncia del 2012 a rivedere i conteggi sul lavoro flessibile, aggiungendo il carico del costo dei dirigenti a contratto, ma anche dei responsabili di servizio a contratto. Per molte, potrebbe rivelarsi lo sforamento del tetto e la necessità di scelte dolorose per rientrare. C’è da scommettere che sul tema fioccheranno ulteriori quesiti, ai quali probabilmente saranno date le risposte più varie e imprevedibili, innescando ulteriori incertezze.
Se, comunque, qualcuno ritiene che almeno sia possibile trarre l’idea che l’interpretazione costituzionalmente orientata sia da considerare un canone, una guida costante nella lettura delle norme, ebbene rimarrà molto deluso.
Sorprendentemente, nella stessa sessione di lavoro, la Sezione Autonomie con la delibera 16/2016 fa totalmente a meno dell’interpretazione costituzionalmente orientata, allo scopo di ritenere le amministrazioni locali obbligate ancora a ridurre di anno in anno il rapporto tra spesa di personale e spesa corrente, in quanto ritiene di dover configurare come norma puntuale e cogente l’articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006, nonostante l’abolizione dell’articolo 76, comma 7, del d.l. 112/2008, convertito in legge 133/2008 e, quindi, l’eliminazione del divieto di assumere nel caso di sforamento del rapporto del 50% tra i detti aggregati di spesa.
E’ una chiave di lettura proposta da molte sezioni regionali di controllo, in contrasto fin troppo chiaro ed evidente con l’intero apparato sempre del d.l. 90/2014, per poter essere considera corretta e sostenibile.
La Sezione Autonomie, con la delibera 16/2016, non si fa carico, questa volta, di verificare se esistano sentenze della Consulta con le quali simile chiave di lettura si ponga in contrasto.
Eppure, un sistema molto evidente per dimostrare che secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata l’articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006 vada considerato come norma solo di principio c’è. Basta risalire alla ragione per la quale detta norma è stata scritta. Il legislatore ha inteso modificare la disciplina dei vincoli alla spesa di personale dettati con la precedente legge finanziaria, la 266/2005, perché appunto eccessivamente puntuali e cogenti e, dunque, in contrasto con l’autonomia costituzionalmente riconosciuta agli enti locali. Autonomia valorizzata e difesa dalla Consulta, con la sentenza 417/2004, la quale dichiarò incostituzionali norme contenenti “vincoli che, riguardando singole voci di spesa, non costituiscono princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile ingerenza nell’autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa”, ledendo la specifica tutela costituzionale assicurata agli enti locali.
Ecco perché l’articolo 1, comma 557, lettera a), dispone in modo esplicito ed inequivoco che la riduzione dell’incidenza della spesa di personale rispetto a quella corrente è solo uno degli strumenti utilizzabile, insieme ad altri, per tenere sotto controllo la spesa del personale, precisando letteralmente che ciò è disposto “in termini di principio”.
Ora: come si possa insistere nel qualificare alla stregua di norma cogente, una previsione che è esplicitamente qualificata come principio, ed appositamente adottata allo scopo di rimediare all’incostituzionalità del precedente regime vincolistico e, per altro, inutile vista l’eliminazione delle conseguenze legate allo sforamento del rapporto del 50%, risulta assolutamente incomprensibile e non condivisibile.
Meno ancora l’indicazione della deliberazione 16/2016 appare fondata, laddove si evidenzi che in questo caso la Sezone Autonomie non ha nemmeno provato a porre in essere un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Ma, non è certo possibile utilizzare canoni interpretativi trasversali e necessitati solo a sprazzi, specie quando si intende interpretare il diritto con valore erga omnes.
La pronuncia 16/2016, appare, quindi, non solo non condivisibile nel merito, ma anche viziata nel metodo. Eppure, non v’è gravame a disposizione di nessuno per chiederne una revisione ben prima che passino anni in attesa di un eventuale revirement.
Questa è una disfunzione estremamente grave. Il tutto, ovviamente, dimostra che nella realtà i pareri della Corte dei conti restano quel che sono: pareri. Ad essi è scorretto attribuire valore cogente e imperativo. Nell’esercizio della propria autonomia, le amministrazioni possono e debbono avvalersi del parere allo scopo di approfondire le valutazioni necessarie alla decisione e possono e debbono discostarsi dalle conclusioni tratte, laddove emergano contraddizioni ed elementi di impossibile condivisione. Ovviamente, motivando molto bene e approfonditamente.
Certo, in questa operazione gli enti vedono in qualche misura lesa, tuttavia, la propria autonomia, perché l’opera interpretativa non è sullo stesso piano: incontrano la difficoltà di seguire un indirizzo differente, col rischio che ciò si ritorca contro, poiché molti altri soggetti, da agenzie come l’Aran, ad autorità varie, ad uffici ispettivi, assumono, poi, come dato “vero” e inconfutabile l’insieme della soft law, cioè tutti i vari pareri, linee guida, orientamenti applicativi, Faq e quant’altro, per altro creando, molte volte, regole di diritto totalmente diverse dalle regole interpretate, così da porre in essere un “ordinamento parallelo” cangiante, mutevole, impalpabile e non conoscibile a priori. Un caos che andrebbe fermato subito, ma che, invece, pare destinato a perpetuarsi ed amplificarsi.

 

 


 

[1] Sul punto, L. Oliveri, “Dirigenti a contratto oltre il limite di spesa per assunzioni flessibili? Lo svarione della Corte dei conti, Sezione Autonomie”, in www.ilpersonale.it, del 31 luglio 2012.

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