15/07/2016 – Revisione della Costituzione: le parole della campagna referendaria

Revisione della Costituzione: le parole della campagna referendaria – 1

Per il SI: Una riforma attesa da molti anni

Per il NO: approvata da un Parlamento delegittimato

di Salvatore Sfrecola

 

Nel dibattito sulla revisione costituzionale che saremo chiamati a votare, secondo le ultime ipotesi, tra fine ottobre ed i primi di novembre, emergono alcune “parole chiave” che riassumono le posizioni del SI e del NO, parole e slogan destinati a convincere, offrendo una riassuntiva illustrazione di uno o più aspetti delle norme che sostituiranno una parte non trascurabile della Costituzione vigente, ben 45 articoli su 139.

Parole chiave, quelle che nel linguaggio della comunicazione usata dal Presidente del Consiglio riassumono esigenze, proposte, indicano obiettivi. Parole importanti, non solo per il loro autentico contenuto ma per quello che evocano. E difatti tornano nelle discussioni tra le persone, nei fondi degli opinionisti e nella cronaca delle tante discussioni aperte in Italia nelle più svariate sedi, politiche e scientifiche. Come nei conversari al bar o nei circoli.

Sono parole che la cui forza evocatrice è indubbia, anche quando espressione di un luogo comune, di un’opinione tramandata, ripetuta pedissequamente perché suona bene o semplicemente perché nella opinione della gente si è affermata la convinzione che sia così, come per le parole “risparmio”, “semplificazione”, “governabilità”.

Ecco, dunque, in primo luogo “riforma”, naturalmente “necessaria”, per di più “attesa da anni”, che realizza notevli risparmi, riforma, varata in Parlamento “con una larga maggioranza” (in realtà approvata da una maggioranza raccogliticcia e variabile; se fosse stata approvata con i 2/3 delle Camere non sarebbe stato necessario il referendum) per affrontare “efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. “Emergenze”, come le alluvioni che coinvolgono parti importanti del Paese non adeguatamente tutelato sotto il profilo idraulico. Emergenza, per indicare la necessità di superare il “bicameralismo paritario” ed assicurare la “governabilità”, in tandem con la legge elettorale entrata in vigore il 1° luglio 2016, l’Italicum, come sbrigativamente è stata battezzata nel dibattito politico-giornalistico. Invece si afferma che la Governabilità va individuata nel fatto che superato “l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato” si prevede “un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo”. È inevitabile che fosse così. Una camera non elettiva non può votare la fiducia. Anche il Senato del Regno, di nomina regia, non votava la fiducia. Nessuno lo ha mai dubitato.

Una riforma, si sostiene, che “ci chiede l’Europa”, che il Presidente della Repubblica Napolitano ha posto come obiettivo dell’agenda del Governo, come ripetutamente affermato dal Ministro Boschi. Una indicazione che il Presidente, sappiamo, non poteva dare. L’indirizzo politico discende dalle indicazioni dell’elettorato (che non ne ha date) e dal voto delle Camere che approvano le dichiarazioni programmatiche del Governo. Per cui la lettura “presidenzialista” della Costituzione è fuori della Costituzione.

E, poi, ancora “semplificazione ed efficienza” e “competitività per il nostro Paese” in ragione del fatto che, a seguito della riforma del bicameralismo, le leggi “saranno approvate più velocemente” (affermazioni indimostrata; anzi i dati indicano il contrario, semmai è il Governo a rallentare l’adozione dei provvedimenti delegati di propria competenza). Inoltre “risparmi”, di miliardi, e ovviamente, “meno politici”, perché si ha l’“abolizione” del Senato (che poi diventa modifica delle sue competenze) “220 parlamentari in meno (i senatori sono anche consiglieri regionali o sindaci, per cui la loro indennità resta quella dell’ente che rappresentano)” e “delle province”, più esattamente con “la soppressione di qualsiasi riferimento alle province quali enti costitutivi della Repubblica”, meno spese per le regioni. Cioè le province vivono come enti intermedi non  previsti in Costituzione.

I conti del risparmio non tornano se si considera che, mentre gli Stati Uniti d’America, con oltre 380 milioni di abitanti, hanno 100 senatori e i deputati della Camera dei rappresentanti sono 435, la riforma Renzi mantiene 630 deputati. È presto detto. Se li avesse ridotti la revisione della Costituzione non sarebbe stata approvata.

In realtà, l’unico ad essere abolito sarà il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL)

Ripartiamo dalle parole da cui prende le mosse la narrazione dei fautori del SI, tra loro collegate: “riforma” e “ritardo”, nel senso di una riforma che interverrebbe a distanza di molto tempo da quando sarebbe emersa l’esigenza del cambiamento. La prima parola che ha accompagnato il dibattito sulla proposta di revisione costituzionale è, dunque, “riforma”. Sostantivo che indica la trasformazione di una situazione esistente, quindi naturalmente neutra, nel senso che trasformare, modificare significa solamente cambiare senza riferimento al merito e agli effetti di ciò che si riforma, che i promotori considereranno positiva, gli oppositori totalmente o parzialmente negativa. Lo conferma D’Alimonte, schierato per il SI “non esistono riforme perfette. Esiste invece lo status quo e esistono riforme che lo modificano in meglio o in peggio”. Nel linguaggio comune, tuttavia, come ne dà conto anche il Vocabolario della Lingua Italiana Dizionario della Enciclopedia “Treccani”, il sostantivo riforma ha una connotazione essenzialmente positiva. Nel senso di “trasformare dando forma diversa e migliore” (Vol. III**, 1431). Come “revisione”, “con esplicito rilievo dell’intento e dell’azione stessa di modificare quanto, a un riesame, risulta non più adeguato e rispondente alle nuove situazioni ed esigenze, spec. nel linguaggio giuridico: r. di una norma costituzionale” (Vol. III**,1389).

Accade così che i promotori della revisione della Costituzione, in primo luogo il Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico, si dicano orgogliosi di quello che hanno fatto, sostanzialmente negli stessi termini in cui esaltarono la riforma del Titolo II della Costituzione, varata in fretta e furia nel 2001, e da tempo ripudiata dagli stessi che la promossero dopo i disastri che ha provocato nei rapporti Stato – regioni. Riforma, dunque, perché migliorativa e perché “ce lo chiede l’Europa”, che ha sollecitato più volte riforme, ma non certo quelle costituzionali, ma quelle della pubblica amministrazione, della giustizia e del fisco che incidono pesantemente sulle attività economiche, dei cittadini e delle imprese. Queste riforme si fanno con leggi ordinarie. A meno che non si intenda fare riferimento a quel che compare nella famosa lettera del 5 agosto 2011, di Draghi e Trichet, il Governatore della Banca Centrale Europea entrante ed il cedente, che fu definita un dicktat allineato ad analoghi “documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e Parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese” (Zagrebelsky).

Riforma, per di più, attesa da tempo. Da settant’anni ha detto ripetutamente Matteo Renzi che, poi, ha ridotto i presunti tempi dell’attesa quando gli è stato spiegato che, in realtà, la Costituzione non aveva ancora 70 anni per cui non sarebbe potuto essere auspicata una riforma di una legge ancora nel grembo, quanto meno dell’Assemblea costituente, votata nel 1947. Il premier è convinto, dunque, di aver promosso una decisione storica non essendo stato sfiorato dal dubbio che il presunto “ritardo” sia dovuto al fatto che, nonostante molteplici studi elaborati in sede scientifica e politica e le approfondite riflessioni emerse nell’ambito delle Commissioni parlamentari bicamerali, autorevolmente presiedute da Aldo Bozzi(1983-1985), Ciriaco De Mita – Nilde Iotti (1992-1994) Massimo D’Alema (1997-1998) non si sia trovata una maggioranza disposta a condividere un testo. Perché, va ricordato, che le Costituzioni, in quanto leggi fondamentali di uno Stato, che disciplinano diritti e doveri sempre definiti “fondamentali” ed il funzionamento della democrazia attraverso la individuazione delle attribuzioni delle istituzioni fondamentali, il Parlamento, il Governo, il Capo dello Stato, gli organi di garanzia, la Magistratura, sono destinate a durare nel tempo. E quando vengono emendate i ritocchi sono limitati, anche quando significativi. Infatti quando si sente dire nel dibattito politico della Costituzione degli Stati uniti d’America e degli “emendamenti” approvati nel tempo parliamo di ritocchi non alla forma di governo ma alla migliore definizione di diritti fondamentali.

Il fatto è che “l’esperienza insegna che una riforma costituzionale – ha scritto Enzo Cheli, costituzionalista, giudice della Corte costituzionale – resta un’impresa molto difficile (se non impossibile) quando manchi una necessità storica in grado di imporre e giustificare agli occhi dell’opinione pubblica le ragioni del mutamento. Né tale necessità può essere surrogata dalla presenza di motivi di opportunità, sia pure forti e pressanti, legati alle vicende della politica contingente. Se questo accade sarà lo stesso contesto degli interessi, delle tradizioni, degli equilibri consolidatisi nel tempo a reagine ed a mettere in scacco le forze che troppo improvvidamente abbiano cercato di utilizzare la leva della riforma come strumento per aumentare, nel contingente, la sfera della propria influenza”. Infatti il premier e quanti hanno promosso e condiviso la riforma costituzionale evocano ad ogni piè sospinto l’esigenza di assicurare la governabilità che, peraltro, è affidata palesemente non alle norme della Costituzione riformata ma alla legge elettorale, il cosiddetto Italicum, pensata a misura di un consenso elettorale ottenuto dal Partito Democratico in occasione delle elezioni europee, non riprodotto nelle più recenti consultazioni per l’elezione dei sindaci. Sicché oggi si vanno manifestando dubbi sulla opportunità di mantenere quell’impianto normativo che assegna un premio di maggioranza al partito che risultasse il più votato. Legge che, di contro, vuole mantenere il Movimento 5 Stelleche, cresciuto nei consensi, immagina di poter trarre vantaggio da quel sistema.

Il premier avrebbe dovuto, dunque, comprendere che, mancando una maggioranza qualificata ed ampia ed un consenso diffuso, la riforma non si poteva fare. E comunque non una che riguardi 45 articoli di una legge che ne conta 139. Infatti la nostra è una Costituzione lunga rispetto alle altre dei paesi che con il nostro possono confrontarsi quanto a storia, tradizioni, cultura istituzionale.

La Costituzione costituisce l’identità politica di un popolo che, guardando ad essa, si riconosce come comunità unita in un destino storico. La Costituzione è il punto di incontro tra le generazioni passate, presenti e future, ed è ad un tempo il frutto di una volontà di convivere e l’origine di una volontà di continuare ad esistere. Per questo essa vive di legittimazione: giuridica, politica e culturale. Così è stato per la Costituzione del 1948, approvata quasi all’unanimità e che per questo è stata la Costituzione di tutti.

La riforma costituzionale portata avanti dal Governo Renzi, approvata da una maggioranza limitata e occasionale è, secondo il Comitato per il NO una Costituzione che divide anziché unire, che lacera anziché cucire, che porta le cicatrici della violenza di una parte sull’altra, senza approntare lo spirito per rimarginare le ferite: questa riforma ha dunque già fallito.

La riforma di una maggioranza “sulla carta”, frutto di una legge elettorale illegittima non è idonea a cambiare la Costituzione. Il rispetto della costituzione formale non è quindi in questo caso sufficiente perché questa non è la riforma di una maggioranza che, seppur limitata, potrebbe ancora risultare accettabile; questa in realtà è la riforma di una minoranza che, grazie alla sovra rappresentazione parlamentare fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 13 gennaio 2014 (Presidente Silvestri, Relatore Tesauro). Il Giudice delle leggi ha ritenuto che quella legge elettorale abbia “rotto il rapporto di rappresentanza”. Una maggioranza solo sulla carta avendo la Consulta fatto salvo l’attuale Parlamento, malgrado esso fosse stato eletto con una legge incostituzionale. Non perché il Parlamento fosse legittimamente composto, ma perché di fronte alla costatazione drammatica del vizio delle elezioni, un valore superiore sarebbe dovuto prevalere: quello della continuità dello Stato. Questo Parlamento, insomma, è legittimato a funzionare solo in ragione dell’emergenza di salvaguardare la vita dello Stato. Ma se questa è la ragione, la legittimazione ad esistere del Parlamento attuale non è illimitata e piena. Il mandato parlamentare è dunque limitato a conservare lo Stato, e non può spingersi fino a cambiarne, con un violento colpo di mano di una minoranza che artificiosamente è divenuta maggioranza, i connotati mediante l’intervento costituzionale ai massimi livelli. Questo nei fatti si traduce in un tradimento del limitato mandato che, a seguito della sentenza della Corte, grava su questo parlamento zoppo.

Su questa realtà avrebbe dovuto vigilare il Capo dello Stato che dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale non avrebbe dovuto, come afferma ad ogni piè sospinto il Ministro Boschi, sollecitare la riforma costituzionale ma dare un tempo limitato alle Camere perché, votata una nuova legge elettorale, fossero sciolte. Così si fa nelle democrazie parlamentari. Anzi, nelle democrazie tout court. Una condizione che, cominciamo a capire, non è più del nostro Paese.

“La riforma del Titolo V della Costituzione ridefinisce i rapporti fra lo Stato e Regioni nel solco della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001, con conseguente incremento delle materie di competenza statale”. È una riduzione del regionalismo su cui incombe la “clausola di salvaguardia” che consente allo Stato centrale di riappropriarsi di qualsiasi competenza regionale. Può andare bene ma si deve capire.

“I poteri normativi del governo vengono riequilibrati, con una serie di più stringenti limiti alla decretazione d’urgenza introdotti direttamente nell’articolo 77 della Costituzione, per evitare l’impiego elevato che si è registrato nel corso degli ultimi anni e la garanzia, al contempo, di avere una risposta parlamentare in tempi certi alle principali iniziative governative tramite il riconoscimento di una corsia preferenziale e la fissazione di un periodo massimo di settanta giorni entro cui il procedimento deve concludersi”. Nulla di nuovo sotto il sole. La decretazione d’urgenza ha oggi limiti ben precisi che il Governo Renzi ha sistematicamente violato in sede di conversione utilizzando la tecnica espropriativa della funzione parlamentare mettendo la fiducia su maxiemendamenti che hanno strozzato il dibattito nelle assemblee e in commissione.

“Il sistema delle garanzie viene significativamente potenziato: il rilancio degli istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in Costituzione; il ricorso diretto alla Corte sulla legge elettorale, strumento che potrà essere utilizzato anche sulla nuova legge elettorale appena approvata; un quorum più alto per eleggere il Presidente della Repubblica. Del resto i contrappesi al binomio maggioranza-governo sono forti e solidi nel nostro paese: dal ruolo della magistratura, a quelli parimenti incisivi della Corte costituzionale e del capo dello Stato, a un mondo associativo attivo e dinamico, a un’informazione pluralista”. Parole al vento. Le leggi di iniziativa popolare sono comunque soggette alla volontà dei partiti che se sono tenuti a prenderle in esame non hanno ovviamente il dovere di approvarle, qualunque sia il numero dei proponenti.

La chiusura del documento del SÌ è pudicamente equivoco: “Il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate”.

14 luglio 2016

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