06/07/2016 – Corruzione nei palazzi romani? La prevenzione non funziona, specie se i dirigenti li nomina la politica

Corruzione nei palazzi romani? La prevenzione non funziona, specie se i dirigenti li nomina la politica

 
Il nuovo ennesimo scandalo legato alla corruzione che coinvolge molti “palazzi” romani ed ha al centro il presunto deus ex machina Raffale Pizza, conferma due dati:

1) la disciplina della prevenzione della corruzione non funziona;

2) occorre urgentemente slegare in via definitiva nomine ed incarichi dirigenziali, specie di vertice, da qualsiasi designazione di matrice politica.

La prima conclusione dà ragione a quanto sostiene Piercamillo Davigo. Il sistema normativo dell’anticorruzione è sostanzialmente incapace di prevenire gli eventi criminosi. Sicchè, spetta sempre e solo all’autorità giudiziaria scoprire i fatti ed attivare le procedure necessarie per punire i colpevoli.

Del resto, la rete di conoscenze, aderenze, intrighi e “faccendieri” che viene regolarmente svelata dalle inchieste su scandali di questo tipo è talmente fitta e potente da annichilire qualsiasi pur bravo e volenteroso “responsabile della prevenzione della corruzione”. Allo stesso modo, piani triennali di prevenzione della corruzione, codici “etici” ed i mille adempimenti burocratici per pubblicare tutto e il suo contrario ai fini della trasparenza, fanno solo il solletico a chi intenda delinquere, corrompere e concutere.

Chi ha così pochi scrupoli da violare la legge penale non si fa certo irretire nė da disposizioni di carattere amministrativo come quelle previste dalla normativa anticorruzione, nè dall’Anac che essendo a sua volta un’autorità amministrativa e non giudiziaria può fare poco per sciogliere l’amministrazione dall’abbraccio soffocante della piovra della corruzione.

La quale vive e si rafforza sempre e costantemente delle relazioni personali di potere. Quelle relazioni immancabilmente create dalla personalizzazione del potere stesso, che avviene mediante l’assegnazione degli incarichi di vertice “ad personam”, attribuiti per amicizia ed in vista della restizione dei favori. Anche quando i destinatari delle nomine siano, magari, assolutamente non propensi a considerarsi in qualche modo debitori di chi li nomina. Ma, chi regge i fili della rete corruttiva parte dal presupposto che chi è posto ai vertici “non possa dire di no”.

Lo rivela chiaramente l’ordinanza di custodia cautelare per il Pizza, che così lo descrive: “titolare di partiva Iva per l’esercizio di attività di pubbliche relazioni, politicamente gravitante nell’area della Nuova Democrazia Cristiana, grazie alle entrature politiche forti e legami stabiliti con persone di vertice in enti e società pubbliche (Inps, Inail, Enel, Poste Italiane, Consip, Ministero della Giustizia e dell’Istruzione), faceva da ponte tra il mondo imprenditoriale e quello politico-istituzionale, svolgendo un’incessante eprezzolata opera di intermediazione nell’interesse di imprenditori interessati a partecipare a gare pubbliche o, comunque, in rapporti con le pubbliche amministrazioni“.

Per essere ancora più chiara, l’ordinanza aggiunge: “Pizza, per esercitare e perpetuare il potere di influenza che gli è notoriamente riconosciuto nell’ambiente degli imprenditori gravitanti nel settore degli appalti pubblici, sfruttando i legami stabili con influenti uomini politici, spesso titolari di altissime cariche istituzionali, si adoperava costantemente per favorire la nomina, ai vertici degli enti e delle società pubbliche, di persone a lui vicine» sul presupposto che, “dovendo successivamente essergli riconoscenti, risulteranno permeabili ai suoi metodi di illecita interferenza nelle decisioni concernenti il conferimento di appalti ed attività connesse“.

E’ evidente che non tutte le nomine e gli incarichi ai vertici di società ed enti pubblici siano passati per il Pizza, così come è da escludere che tutti gli incaricati debbano a lui l’incarico e risultino “permeabili” alla sua interferenza.

Ma, è altrettanto evidente che basta anche una piccola percentuale, perchè il disegno corruttivo abbia successo. Per ottenere grandi affari illeciti non occorre avere 100 uomini “di fiducia”: può bastarne uno solo, capace di “orientare” un appalto con un fatturato superiore alla somma di 100 appalti per fare le fortune di corruttori e corrotti.

La vicenda è la conferma, ennesima, di quanto sbagliata sia la strada scelta dalla riforma Madia della dirigenza, che mira a rendere i vertici pubblici ancora più succubi della politica e, quindi, potenzialmente esposti al rischio di “permeabilità” nei confronti di chi millanti o disponga realmente del potere di assicurare loro un incarico (per poi passare all’incasso).

Esattamente all’opposto della linea tracciata dalla legge 124/2015, occorrerebbe sì un ruolo unico della dirigenza, ma allo scopo di creare un obbligo e non una facoltà ad attingere a detto ruolo, che dovrebbe essere amministrato in modo del tutto autonomo da un organo di autogoverno, che designi i dirigenti da destinare alle cariche senza il minimo intervento finale nella scelta da parte della politica. Un organo di autogoverno composto per un terzo da magistrati e che si rinnovi ogni 2 anni al massimo, per evitare le influenze delle “relazioni” di faccendieri, che hanno ben capito l’essenza delle riforme sbagliate degli ultimi 30 anni. Riforme che hanno sottratto alla politica il governo diretto della gestione, per tentare di attribuirle sempre più il “governo diretto degli uomini” e, quindi, attraverso gli incaricati di “fiducia” schermarsi e perpetuare il malaffare. Se non si capisce questo, nonostante le cronache dimostrino l’evidenza dei fatti, non vi sarà mai la possibilità di cambiare strada.

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