18/06/2016 – La natura giuridica della responsabilità e del potere disciplinare. Annotazioni minimali

La natura giuridica della responsabilità e del potere disciplinare. Annotazioni minimali

R. Nobile (La Gazzetta degli Enti Locali 17/6/2016)

Affrontare il problema della ricostruzione in termini dogmatici della natura giuridica del potere disciplinare può apparire cosa oziosa e forse inutile. 

Tale, peraltro, non è: dall’esatta comprensione di cosa il potere disciplinare sia discendono in via immediata tutta una série di implicazioni che ineriscono al modo del suo corretto esercizio. Detto altrimenti, l’esatta rappresentazione della natura giuridica del potere disciplinare è condizione insopprimibile per guidarne il corretto esercizio.

Prima di affrontare ex professo la complessa problematica della natura giuridica del potere disciplinare, è bene evidenziare súbito che essa è strettamente connessa e connaturata con la piú ampia tematica della responsabilità disciplinare. Per essere piú precisi, si può dire che potere disciplinare e responsabilità disciplinare si intersecano mutuamente e che sono evenienze giuridiche comprensibili solo se mutuamente e congiuntamente intese.

L’esercizio del potere disciplinare, infatti, è prerogativa ascritta al datore di lavoro per garantirgli un efficace strumento idoneo ad assicurarsi l’esecuzione delle prestazioni dedotte in obbligazione che definiscono costitutivamente il rapporto giuridico di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.

Per contro, la responsabilità disciplinare è quel particolare rapporto fra violazione dei comportamenti doverosi e sanzione prevista dall’ordinamento, ossia fra mancata corretta esecuzione delle prestazioni lavorative o comportamenti connessi e sanzione disciplinare.

La relazione che definisce la categoria giuridica della responsabilità in generale può essere utilmente rappresentata mediante una stringa logica, di particolare utilità per evidenziare i nessi previsti dall’ordinamento e le relazioni di interferenza con altre tipologie di responsabilità, e quindi con altre tipologie di poteri sanzionatorî.

La categoria giuridica della responsabilità in generale può essere utilmente indagata rappresentandola nei termini di una relazione di implicazione necessaria secondo la seguente formula

[-(Op)→□S] & [-(Op)] → □S

laddove “p” è l’azione che un dato soggetto agente deve tenere, “O” la sua obbligatorietà, “-(Op)” rappresenta la violazione della norma “Op”, “□” denota la necessarietà, “S” la sanzione prevista dall’ordinamento, e “→” l’implicazione necessaria.

Il sintagma “[-(Op)→□S] & [-(Op)] → □S”, può pertanto essere letto nei termini seguenti: se una data norma “Op” che qualifica come obbligatoria una data azione viene violata, allora segue necessariamente la sanzione S. 

Dall’interpretazione della formula si desume che le conseguenze in termini giuridici della violazione di un obbligo che ha ad oggetto un’azione “p” sono una funzione, ossia una variabile dipendente, della tipologia della sanzione “S” che l’ordinamento ad essa riconnette, e che quindi data la molteplicità delle tipologie delle sanzioni ammesse in un dato ordinamento giuridico, una medesima azione può simultaneamente costituire il presupposto logico della comminazione di piú sanzioni, il che, detto altrimenti, significa che una medesima condotta può dare luogo a molteplici forme di responsabilità.

In questo modo, se “S”, ossia la sanzione ordinamentalmente prevista, è una sanzione disciplinare, la violazione del precetto “Op” dà luogo a responsabilità disciplinare.

La notazione proposta consente di cogliere in modo immediato anche la relazione fra potere disciplinare e responsabilità disciplinare. 

Il potere disciplinare, in definitiva, altro non è che una potestà riconosciuta dall’ordinamento al datore di lavoro che ha ad oggetto la legittimazione all’applicazione della sanzione “S” al verificarsi della violazione della norma “Op” che costituisce rappresentazione di un comportamento giuridicamente dovuto che il datore di lavoro ha diritto di pretendere, se commissivo, o rispetto al quale sussiste un dovere di astensione da parte del lavoratore, se omissivo.

Per comprendere appieno la portata delle innovazioni di fonte legislativa e pattizia che si sono succedute nel tempo e che oggi enucleano l’ordinamento disciplinare nel comparto contrattuale delle regioni e degli enti locali, è indispensabile evidenziare quale fossero le peculiarità del sistema de quo prima dell’esercizio della delega legislativa contenuta nell’art. 2 della legge 23.10.1992 n. 421, attualizzata con la cosiddetta prima “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego di cui al d.lgs. 3.2.1993, n. 29 ed oggi confluito nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165, ripetutamente interpolato.

Come sarà dimostrato nel prosieguo del lavoro, infatti, le peculiarità dell’ordinamento disciplinare condizionano le modalità dell’esercizio dei relativi poteri nonché il modo di atteggiarsi del rapporto che si instaura fra datore di lavoro e dipendente.

Seguendo la linea di analisi tratteggiata, non può non essere evidenziato in via preliminare che l’intero ordinamento disciplinare per il pubblico impiego prima del d.lgs. 3.2.1993 n. 29 era indubitabilmente costruito sulla nozione di supremazia speciale, intesa quale elemento indefettibilmente connotante lo svolgimento del rapporto di impiego del pubblico dipendente.

La normativa disciplinare, infatti, altro non era che una parte della piú ampia normativa pósta a regolamentazione del rapporto di pubblico impiego, peraltro tutta ascritta alla fonte normativa, la quale, in quanto tale, non poteva che generare un evidente squilibrio nell’esercizio delle varie posizioni giuridiche in cui il rapporto fra pubblica amministrazione e dipendenti pubblici si articolava.

La dottrina più autorevole, che comunque era assolutamente dominante ed indiscussa nei suoi contenuti, era solita descrivere il rapporto di pubblico impiego evidenziandone l’incommensurabilità rispetto al rapporto di impiego iure privatorum in considerazione delle peculiarità e degli elementi specializzanti del primo rispetto al secondo, che valevano a qualificarlo in termini di “supremazia speciale”.

La cosiddetta “supremazia speciale” era resa sintomatica da una série di indizî, tutti estremamente qualificanti, i principali dei quali erano la costituzione del rapporto di impiego tramite un provvedimento amministrativo e non mediante una pattuizione contrattuale, la stretta relazione fra le ragioni del vincolo di subordinazione e le finalità istituzionali della pubblica amministrazione, la completa indisponibilità del contenuto delle prestazioni lavorative e delle ragioni della costituzione del relativo rapporto, nonché, ultimo, ma non meno importante, il fatto che il recepimento dell’esito della contrattazione collettiva di comparto si risolvesse non in un contratto collettivo nazionale di lavoro, ma da un atto normativo inserito nella gerarchia delle fonti di cognizione del diritto, avente la forma di Decreto del Presidente della Repubblica.

Quanto al suo contenuto, gli elementi costitutivi del rapporto di pubblico impiego erano desumibili quasi completamente dal d.P.R. 10.1.1957 n. 3, prima sua vera sistemazione normativa organica, e dal d.P.R. 3.5.1957 n. 686, recante norme di attuazione al primo testo normativo. 

Nella vigenza della logica dei d.P.R., pertanto, i doveri del pubblico dipendente in genere, e quindi anche del dipendente delle autonomie locali in particolare, erano oggetto di attenta disciplina da parte delle stesse fonti secondarie, in via immediata o mediata, senza che il rapporto di pubblico impiego fosse minimamente toccato da fonti di regolamentazione di natura pattizia.

I doveri del dipendente, che sono poi il presupposto violato il quale si configura la responsabilità disciplinare, o erano enunciati espressamente da norme positive, ossia dagli articoli da 11 a 17 del d.P.R. 10.1.1957, n. 3, o erano desumibili a contrariis dalle norme che punivano le infrazioni disciplinari, ovvero ancóra erano ricavabili dalla forma lessicale del giuramento, che ogni dipendente della pubblica amministrazione doveva solennemente pronunciare una volta ultimato con esito favorevole il periodo di prova.

In conclusione, il pubblico dipendente, prima della depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, era puramente e semplicemente assoggettato alla supremazia speciale della pubblica amministrazione, impersonalmente intesa, senza la mediazione di un datore di lavoro identificato fisicamente, personalmente ed istituzionalmente in relazione ad uno specifico ruolo ricoperto nell’organizzazione.

Completamente estranea al pubblico impiego, pertanto, era la nozione di collaborazione, ossia di quella nozione sulla quale si fonda il rapporto di lavoro subordinato iure privatorum, esplicitamente confluita a livello lessicale nella rubrica dell’art. 2094 c.c. e nel contenuto definitorio della figura del prestatore di lavoro subordinato, il quale, per la disciplina privatistica è colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Per questo orientamento, il potere disciplinare è strettamente connesso con le prerogative datoriali. Il datore di lavoro, infatti, in quanto imprenditore, è colui che organizza i fattori della produzione, orientando l’attività dei proprî dipendenti al conseguimento dell’attività cosí organizzata. È di tutta evidenza che sul lavoratore, pertanto, incombe uno specifico obbligo di finalizzare la propria attività allo svolgimento di una prestazione che sia rispendente alle aspettative del datore di lavoro. In ciò consiste il dovere giuridico di collaborazione del lavoratore nel momento in cui egli presta il proprio lavoro intellettuale o materiale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. 

Il potere disciplinare, pertanto, rappresenta il momento della reazione dell’imprenditore-datore di lavoro, il quale, non potendo coercire il dipendente ad assolvere alla propria prestazione di fare, attua uno specifico potere di autotutela normativamente disciplinato in modo unilaterale, che in tanto è lecito e legittimo, in quanto è conseguenza dell’avvenuta violazione di un dovere di leale collaborazione del dipendente.

La differenza specifica fra i due modi di concepire il rapporto di impiego sono di immediata evidenza, e presentano effettivamente estesi margini di insovrapponibilità, soprattutto se riferiti al momento patologico del sorgere delle pretesa punitiva in ámbito disciplinare per il concretizzarsi della violazione del contenuto della prestazione lavorativa.

Per la dottrina pubblicistica fondata sulla nozione di supremazia speciale della pubblica amministrazione sul pubblico dipendente, il potere disciplinare non poteva che essere analizzato in termini di potestà, ossia di completo assoggettamento del dipendente alle pretesa punitiva dell’ente pubblico a séguito della violazione di norme pubblicistiche. Detto altrimenti, l’inadempimento da parte del pubblico dipendente di uno dei doveri che su di esso incombono costituisce condizione necessaria e sufficiente per l’attivazione della relativa pretesa punitiva e quindi dell’esercizio dell’azione disciplinare, imprescrittibile per sua natura, ma non ritardabile oltre i termini indicati dalla normativa di riferimento una volta segnalato il fatto che si asserisce configurare il relativo illecito.

Diverso, per contro, è il modo di analizzare i termini del problema per la dottrina giuslavoristica formatasi sulla nozione di collaborazione, sia pure in presenza di uno specifico vincolo di subordinazione del lavoratore rispetto all’imprenditore datore di lavoro, nonché dell’altrettanto specifico obbligo di rispetto dei doveri di diligenza e di fedeltà espressamente enunciati dagli artt. 2104 e 2105 c.c.

L’attrazione dell’intera materia disciplinare al di fuori dell’ámbito pubblicistico, e quindi il definitivo abbandono del concetto di “supremazia speciale” è stata fatta oggetto di critica da parte della dottrina che ha contestato che dall’esercizio della delega legislativa contenuta nell’art. 2 della legge 23.10.1992 n. 421 fosse scaturita una depubblicizzazione del potere disciplinare.

Piú in particolare, all’alba della promulgazione del d.lgs. 3.2.1993 n. 29 si è discusso se il potere disciplinare ascritto alla pubblica amministrazione fosse o meno estraneo all’area della depubblicizzazione di cui al suo art. 2, comma 2.

Secondo una tesi di chiara matrice conservatrice, il potere disciplinare doveva essere considerato estraneo agli effetti della depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, in quanto materia coperta da una specifica riserva di legge, e, come tale esclusa dagli effetti della contrattazione collettiva nazionale. 

Questa tesi si fondava su una interpretazione particolarmente rigorosa dell’art. 2, comma 1, lett. c), n. 1) della legge 23.10.1992 n. 421, secondo la quale “sono regolate con legge, ovvero sulla base della legge o nell’ambito dei principi dalla stessa posti, con atti normativi o amministrativi […] le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento di procedure amministrative”. Questa interpretazione si fondava sulla nozione di responsabilità, comprensiva della responsabilità disciplinare nell’espletamento della prestazione lavorativa, giungendo a ritenere viziata per eccesso di delega legislativa qualunque tesi che avesse l’obiettivo di considerare interessati dalla depubblicizzazione anche i poteri disciplinari, con la conseguenza del mantenimento della giurisdizione esclusiva in capo al giudice amministrativo sulle controversie in subiecta materia.

La tesi era poi avallata dall’osservazione che per i dirigenti generali delle pubbliche amministrazioni veniva mantenuto il potere disciplinare fondato sulla disciplina pubblicistica, con ciò accreditando l’estensione di tale potere anche nei confronti dei ruoli subdirigenziali in nome dell’unità del rapporto di pubblico impiego, ancorché privatizzato.

Le ragioni dell’ambiguità proprie della prima depubblicizzazione sono state eliminate con il primo decreto correttivo del d.lgs. 3.2.1993, n. 29, ossia con l’art. 27 del d.lgs. 23.12.1993, n. 546. Ciò è avvenuto espungendo la clausola di specialità prevista per la dirigenza generale dall’art. 20, comma 5, del d.lgs. 3.2.1993, n. 29 nella sua formulazione originaria e ribadendo l’applicabilità generalizzata al rapporto di impiego privatizzato della disciplina contenuta nella legge 20.5.1970 n. 300 e dal titolo V del codice civile a prescindere dalla dimensione organizzativa della singola pubblica amministrazione.

La norma de qua, peraltro, si limitava a prevedere che i contenuti essenziali del potere disciplinare, ossia la tipologia e l’entità delle relative sanzioni, potessero e non necessariamente dovessero essere normati mediante contrattazione collettiva nazionale, lasciando residuare comunque evidenti momenti di ambiguità.

Questa anomalia è stata definitivamente eliminata con l’art. 27, comma 3, del d.lgs. 31.3.1998, n. 80, adottato in attuazione dell’art. 11, comma 4 della legge 15.3.1997 n. 59, secondo cui la tipologia delle infrazioni disciplinari e delle relative sanzione deve essere normata dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, con ciò ribadendo che la fonte primaria del potere disciplinare per le pubbliche amministrazioni interessate dalla depubblicizzazione del rapporto di impiego non è un atto normativo, ma direttamente la contrattazione collettiva, che si sviluppa dal confronto fra l’ARAN e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative di comparto.

L’art. 45, comma 16, del d.lgs. 31.3.1998, n. 80 ha poi eliminato il riferimento alla dirigenza generale prima illustrato, determinando il venire meno delle ragioni della differenziazione del titolo del potere disciplinare in funzione del ruolo del pubblico dipendente, concorrendo in tal modo ad accreditare l’unitarietà dello stesso rapporto di impiego depubblicizzato.

Enunciati sommariamente i termini del precedente storico della prima depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, è ora possibile evidenziare quali siano gli effetti indotti nell’ámbito disciplinare.

Ciò può essere mostrato osservando che, attuata la depubblicizzazione attraverso lo smantellamento del sistema cui si ispirava la logica dei d.P.R. ed attivata anche per il pubblico impiego la contrattazione collettiva nazionale per i varî comparti, è di tutta evidenza che non è piú sostenibile che la pretesa punitiva in via disciplinare trovi il proprio fondamento nell’asserita supremazia speciale della pubblica amministrazione rispetto al proprio dipendente.

Ciò rende immediatamente evidente che il fondamento del potere disciplinare della pubblica amministrazione deve essere rinvenuto altrimenti. Per comprendere quale sia il reale fondamento del potere disciplinare della pubblica amministrazione si deve necessariamente assumere che, per effetto della depubblicizzazione introdotta nell’ordinamento dal d.lgs. 3.2.1993 n. 29 e via via completata con i contratti collettivi nazionali di comparto, ed oggi definitivamente consolidatosi nel d.lgs.. 30.3.2001, n. 165, peraltro interessato da potenti venti di rilegificazione a partire dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150 in predicato di ulteriore potenziamento all’esito dell’art. 17 della legge 7.8.2015, n. 124, quello che originariamente era definibile sic et simpliciter in termini di rapporto di pubblico impiego, oggi non è piú tale e che ad esso compete piú propriamente la definizione di “rapporto di pubblico impiego depubblicizzato”.

La definizione proposta, com’è facilmente intuibile, ha quale proprio elemento costitutivo la nozione di dipendenza, e piú precisamente quella stessa nozione di dipendenza che anima la natura del rapporto di lavoro iure privatorumche, in quanto tale, è refluita nella definizione di prestatore di lavoro subordinato indicata nell’art. 2094 c.c. nei termini prima visti e specularmente nella definizione della causa di scambio del contratto di lavoro subordinato.

Rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato, il rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione in generale presenta un’immediata ed intuitiva differenza di specie: il datore di lavoro pubblico non è un imprenditore nel senso determinato dall’art. 2082 c.c.

La differenza appena evocata, peraltro, non induce ai fini che qui interessano alcun tipo di conseguenza.

Ciò può essere evidenziato osservando che l’imprenditore, nella definizione fornita dall’art. 2082 c.c., e nella connotazione accreditata dalla dottrina piú autorevole, è colui che organizza con professionalità un’attività economica al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizî. Indipendentemente dalla connotazione di specie della figura dell’imprenditore, agricolo secondo la definizione indicata dall’art. 2135 c.c., o assoggettato a registrazione, nell’accezione proposta dall’art. 2195 c.c., l’elemento qualificante di tale nozione è il momento dell’organizzazione professionale dei fattori che costituiscono il presupposto dell’attività di produzione o scambio di beni o di servizî. 

Gli elementi oggetto di organizzazione da parte dell’imprenditore sono quelli che compongono l’azienda, nella definizione accreditata dall’art. 2555 c.c., ossia il complesso dei beni strumentali all’esercizio dell’impresa. Il requisito ineliminabile della nozione di azienda è pertanto ed al pari di quello dell’impresa il momento organizzativo, ossia il collegamento funzionale impresso ai beni da parte dell’imprenditore.

Per avere produzione o scambio di beni o di servizî, l’imprenditore deve organizzare non solo beni, ma anche persone, la cui disponibilità viene attualizzata mediante le forme previste dall’ordinamento, prima fra tutte la stipulazione di contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato o a tempo parziale, ovvero ancóra mediante quelle forme di reclutamento flessibile oggi definitivamente previste dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento (part-time, somministrazione di lavoro, lavoro stagionale, contratti di formazione e lavoro, telelavoro), che per i comuni e le province coincide col CCNL del 14.9.2000 e dalla fonti legali di regolazione nel frattempo succedutesi e confluite nell’art. 36 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, ripetutamente interpolato.

Da quanto appena evidenziato, emerge con tutta evidenza che i rapporti di lavoro, a tempo indeterminato o a tempo determinato, comunque siano connotati, sono momenti ineliminabili del processo di organizzazione attuato dall’imprenditore, rapporti giuridici, questi, nei quali vengono dedotte in obbligazione prestazioni di vario genere e specie, con accollo di specifici doveri per entrambe le parti.

Il momento organizzativo, peraltro, non è proprio al solo imprenditore, ma è trasversale a qualunque forma di produzione di beni o di scambio di servizî, il che vale a dire che ben possono esistere nell’ordinamento soggetti ed organismi che producono beni o erogano servizî senza essere imprenditori nell’accezione indicata dall’art. 2082.c.c.

Il momento organizzativo, soprattutto dopo l’avvenuta depubblicizzazione del rapporto di impiego pubblico, è innegabilmente anche per le pubbliche amministrazioni, le quali, se non producono beni, certamente erogano servizî alla collettività indifferenziata. Il tutto con l’osservazione che i due ámbiti sono ulteriormente fra di loro saldati dal concetto di economicità della gestione, che li avvicina e li accomuna.

Ma vi è di piú. Nella vigenza del nuovo ordinamento del pubblico impiego, il legislatore ha introdotto la nozione di datore di lavoro, identificandolo in termini organizzativi, istituzionali e personali. Ciò è avvenuto con l’identificazione del datore di lavoro nel dirigente della struttura nella quale è incardinato il dipendente, al quale sono ascritti tutti i poteri proprî del privato datore di lavoro, come si esprime per tabulas l’art. 5, comma 2, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165.

Il potere disciplinare, in quanto strettamente connesso alla violazione del contenuto della prestazione legittimamente esigibile dalla pubblica amministrazione nei confronti di ogni singolo dipendente per il tramite dello specifico dirigente individuato organizzativamente, diviene quindi un riflesso della potestà organizzatoria oggi variamente distribuita fra gli organi di governo della pubblica amministrazione ed i dirigenti-datori di lavoro, senza che interessi o rilevi comunque la sua natura pubblica o privata.

Il potere disciplinare, in definitiva, non è altro che un mezzo dell’organizzazione del datore di lavoro, affinché sia comunque garantito il conseguimento delle finalità istituzionali della pubblica amministrazione, potere che esibisce il carattere della punitività e quello dell’unilateralità, divenendo strumento specifico di autotutela della parte datoriale.

La ricostruzione della natura giuridica del potere disciplinare nei termini proposti è conforme al disposto dall’art. 97, commi 1 e 2, Cost., secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”.

A questo proposito non può essere sottaciuto che se il potere disciplinare è assoggettato ad una specifica riserva a favore della disciplina pattizia contenuta nel contratti collettivi nazionali di lavoro, non è affatto vero che la fonte mediata di tale potere sia completamente priva di relazioni con la legge in senso formale o sostanziale. 

Ciò può essere evidenziato mostrando che la riserva di contratto collettivo nazionale ai fini che qui interessano è pur sempre posta da atti normativi aventi forza di legge, i quali di quello costituiscono il titolo e nel contempo il limite.

La legge, pertanto, è il momento dal quale il potere disciplinare trae fondamento in concreto, eventualità che è condizione necessaria e sufficiente per garantire il rispetto della riserva di legge prevista dall’art. 97, comma 1, Cost., riserva, che, come costantemente ritengono la dottrina e la giurisprudenza, non è assoluta, ma meramente relativa.

Che oggi la centralità della contrattazione collettiva nazionale di comparto abbia perso la propria pervasiva significatività è divenuto particolarmente evidente: lo si argomenta con semplicità, ma non per questo con minore incisività, a partire dall’art. 55, comma 2, del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, ampiamente interpolato dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150 “ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l’articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”. Il quale deve essere letto in combinato disposto con il suo precedente comma 1: “le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2”.

La materia disciplinare è stata dunque fatto oggetto di potenti interventi di remise en forme, che hanno spostato il suo baricentro nella direzione della primazia della fonte di regolazione di natura legale. Ciò è peraltro avvenuto in primis con la legge 27.3.2001, n. 97 ed è proseguito nei termini tratteggiati. Il perché è ovvio: il potere disciplinare, al pari della valutazione della performance introdotta su base legale dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150, è un vincolo organizzativo, o piú propriamente un vincolo presidio dell’organizzazione, e, come tale, è non negoziabile e/o definibile su base pattizia. Con queste premesse se ne comprende la rilevanza anche al cospetto dell’art. 17, comma 1, lett. s), della legge 7.8.2015, n. 124: peccato la le modalità della sua attuazione da parte del governo siano confluite in un vero e proprio pasticcio monstre.

 

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