11/06/2016 – Licenziamenti in caso di timbrature del cartellino per interposta persona. Addio alle zone franche di impunità

Licenziamenti in caso di timbrature del cartellino per interposta persona. Addio alle zone franche di impunità

di Riccardo Nobile

La materia del licenziamento disciplinare nel pubblico impiego è divenuta di indubbio e segnalato interesse. Le ragioni sono molteplici. Se ne sono interessati i mass media in relazione a singoli e circostanziati scandali assurti all’onore delle cronache. Se ne è interessato il legislatore, modificando l’impianto della normativa di riferimento con il d.lgs. 27.10.2009, n. 150. Il processo è stato condotto con particolare attenzione, rilegificando la sua regolamentazione, eliminando la pregiudiziale penale, interpolando l’art. 55 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 ed accostando alla fonte di regolazione gli articoli da 55-bis a 55-nonies. Se ne è interessato il legislatore con l’art. 17, comma, lett. s), della legge 7.8.2014, n. 124, il quale prevede l’“introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare”. Se ne è interessato da ultimo il legislatore delegato, peraltro nell’esercizio della relativa delega, con lo “schema di decreto legislativo recante modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124, sul licenziamento disciplinare”.

Sullo schema di decreto legislativo delegato è sopraggiunto il parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato 5.4.2016, n. 864, dai toni non propriamente accomodanti, il quale ha stigmatizzato alcuni asseriti svarioni in cui sarebbe incorso il legislatore delegato. La materia è stata osservata anche dalla Corte dei conti, sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello stato – per l’audizione del 16.5.2016 presso le Commissioni riunite I (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e XI (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati. Sulla vexata quaestio è intervenuto anche l’Ufficio studi del Senato della Repubblica – dossier n. 318 – dell’aprile 2016.

Sulla complessa vicenda del licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza in servizio con mezzi fraudolenti sono intervenuti nel frattempo importanti rescritti della giurisprudenza di legittimità. In primo luogo, la sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 26.1.2016, n. 1351 in materia di divieto di automatismi sanzionatorî (espulsivi e/o conservativi), la quale ha ribadito che in materia disciplinare la previsione legislativa una tantum di automatismi espulsivi non esime affatto dall’esame della verifica in concreto della proporzionalità fra gravità del fatto contra ius ed intensità della reazione sanzionatoria, attesa l’inobliterabilità dell’art. 2106 c.c. In secondo luogo, la sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 23.3.2016, n. 5777, in materia di personalità ed incedibilità del badge di servizio, la quale ha riconosciuto la legittimità del licenziamento disciplinare del dipendente che riceve in affidamento il badge del collega per marcarne la presenza al suo pòsto, facendolo in tale modo risultare in servizio, sebbene assente.

Questa pronuncia del giudice della legittimità si segnala per il contenuto particolarmente miserevole e miserabile della vicenda, nella quale si è arrivati ad adombrare il dubbio che in assenza di specifica dicitura o regolamentazione aziendale il badge sia liberamente cedibile.

Della vicenda si è da ultimo occupata la sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 25.5.2016, n. 10842, che ha analizzato la posizione del tutto complementare del lavoratore che affida il proprio badge al collega affinché quest’ultimo ne faccia risultare la presenza in servizio.

Il rescritto è di particolare importanza perché analizza il rapporto fra connotazione della prestazione lavorativa ex art. 2094 c.c. in relazione alla causa del contratto di lavoro subordinato in termini di accordo fra due soggetti, il primo dei quali si obbliga a collaborare alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore [rectius: del datore di lavoro] nell’ámbito di un rapporto di scambio facio ut des, e caratterizzazione dell’inadempimento contrattuale che giustifica il recesso unilaterale del contratto di lavoro ex art. 2119 c.c., quest’ultimo meglio noto come licenziamento “in tronco” o per giusta causa, definita come quella circostanza verificata la quale la prosecuzione del contratto di lavoro subordinato non è possibile anche solo provvisoriamente. 

La cosa in questione coinvolge il rapporto fra il contenuto dell’obbligazione di collaborazione assunta dal lavoratore subordinato ex art. 2094 c.c. e la permanenza del vincolo fiduciario fra quest’ultimo e il datore di lavoro, tenendo presente che l’inadempimento prestazionale del primo deve essere di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c., a prescindere dalla circostanza che il codice disciplinare preveda per il comportamento sub iudice la sanzione disciplinare espulsiva, osservato che la reazione sanzionatoria deve essere comunque proporzionata in concreto alla gravità del fatto commesso ex art. 2106 c.c.

Com’è noto, la giusta causa di recesso si risolve una clausola risolutoria sostanzialmente aperta, il cui significato è inverato da uno o piú elementi sintomatici, che sono una variabile dipendente di fattori polimorfi quali il livello della collocazione del dipendente nell’organizzazione datoriale, il contenuto della prestazione esigibile, la caratterizzazione dell’elemento psicologico che ha sorretto l’azione contra ius [intensità del dolo e grado della colpa], le circostanze di tempo e/o di luogo in cui è accaduto il fatto, la probabilità di reiterazione della violazione dei doveri di servizio, la prognosi postuma sulla recidiva, il disvalore ambientale, il carattere diseducativo dei fatti occorsi in relazione alla caratterizzazione del luogo di lavoro et coeteris paribus.

Entro questo complesso, ma univoco paradigma si colloca il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 25.5.2016, n. 10842, che parte dall’assunto che il badge marcatempo è personale e come tale incedibile e non affidabile a terzi, perché preordinato a far risultare la presenza in servizio del suo solo legittimo possessore mediante appropriata tracciatura indelebile. Proprio per questi motivi, la sua consegna a terzi affinché ne faccia uso per far risultare falsamente in servizio il legittimo possessore, peraltro assente, costituisce una evidente grave violazione del dovere di diligenza ex art. 2104 c.c., nella quale incorre sia il lavoratore che si presta all’utilizzazione indebita del badge del proprio collega, sia il lavoratore che, assente dal servizio, affida al collega l’effettuazione della falsa attestazione della presenza. 

La configurazione della giusta causa di recesso unilaterale [licenziamento per giusta causa o licenziamento in tronco] nell’accezione fornita dall’art. 2119 c.c. è dunque pienamente configurabile in astratto e tale diviene in concreto all’inverarsi di uno o piú degli elementi sintomatici che definiscono la clausola generale aperta indicata dalla fonte di regolazione che la prevede.

Il problema diviene dunque l’individuazione della cornice storica – e quindi tale definita in termini di coordinate spaziali e temporali – entro la quale il fatto è accaduto ed e stato percepito nell’ambiente di lavoro. Ciò accade – come correttamente ha osservato il giudice di legittimità – in presenza di un “comportamento gravemente irregolare ed assolutamente anomalo, oltre che inadempiente agli obblighi inerenti il proprio ufficio, e contrario agli interessi del datore di lavoro, che si presenta idonea anche alla luce del “disvalore ambientale” che lo stesso assume con particolare riguardo al contesto lavorativo in cui dispiegava la [propria] attività il [lavoratore che ha ceduto al collega il proprio cartellino segna presenze affinché quest’ultimo lo impieghi per farne risultare falsamente la presenza in servizio], a ledere in misura significativa il vincolo fiduciario che, in un’azienda di rilievo […] assume profili di speciale rilievo”.

Tale è ciò che accade quando il lavoratore che non può raggiungere il pòsto di lavoro in orario architetta un piano che prevede la consegna del proprio badge al collega affinché quest’ultimo lo utilizzi per far risultare falsamente in servizio il legittimo possessore, peraltro assente al momento della rilevazione della [falsa] presenza. È infatti evidente che un tale architettare, proprio perché tale, presuppone un comportamento doloso preordinato ad astringere un vero e proprio pactum sceleris volto alla commissione dell’illecito al quale si giunge pur di non dover altrimenti giustificare l’assenza nei termini previsti dalla buona fede ex art. 1375 c.c. e/o dalla contrattazione collettiva di comparto [es: utilizzazione di permessi brevi], con la conseguenza che il dipendente falsamente attestato in servizio percepisce la prestazione retributiva a fronte di una prestazione lavorativa non resa. Il tutto a prescindere dall’entità dell’assenza e dalla circostanza che si sia trattato di un unico episodio.

I termini della questione che coinvolge l’agevolazione del collega di lavoro nella falsa attestazione della propria presenza in servizio sono dunque i seguenti. La condotta dei due soggetti è soggettivamente dolosa e caratterizzata dal vincolo del concorso di persone nella commissione del fatto contra ius, che qui consiste nella falsa attestazione in servizio mediante comportamento fraudolento. Il quale è colpito da grave illiceità che giustifica il recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 23.3.2016, n. 5777 in relazione al comportamento del collega che marca la presenza al pòsto del dipendente assente, e dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 25.5.2016, n. 10842, in rapporto alla posizione del tutto complementare di chi affida il proprio badge al collega affinché quest’ultimo faccia risultare la propria presenza in servizio.

Come si può agevolmente notare, la giusta causa di licenziamento non è, né può essere, pósta in relazione con la quantità della mancata prestazione all’esito dell’acclarata falsa attestazione in servizio, la quale lascia qui il pòsto alla speciale caratterizzazione delle modalità alla cui stregua la falsificazione della presenza viene in essere. Sono queste e non altre le ragioni per le quali la reazione disciplinare del datore di lavoro, in casi come quelli commentati, è sintonica con la previsione dell’art. 2106 c.c.

Il che non ha alcuna attinenza con la piú ampia questione se la falsa attestazione in servizio della presenza con mezzi fraudolenti sia di per sé sola sempre e comunque fonte di licenziamento disciplinare del lavoratore subordinato, pubblico o privato che sia.

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