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Consip: tutti i limiti della spending review e dell’anticorruzione

 
Per avere un’idea precisa dell’impatto dell’inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Napoli nei riguardi dei vertici della Consip per sospetta corruzione, occorre porre attenzione all’importo dell’appalto oggetto dell’attenzione dei PM, il facility management.

Si tratta della gara con l’importo a base d’asta più alto in Europa: 2,7 miliardi. Un solo ente, la Consip spa, gestisce un solo appalto del valore di pochissimo inferiore al mega prelievo forzoso di 3 miliardi imposto alle 107 province, dalla sciagurata legge 190/2014 disposta in attuazione della disastrosa e a fondato sospetto di incostituzionalità legge Delrio.

La Consip spa è la regina dei “soggetti aggregatori”, gli enti, cioè, che dovrebbero accentrare su di sè il grosso degli appalti pubblici. Ed infatti, la Consip, è ormai di gran lunga il primo committente pubblico in Italia, quello che “muove” ogni anno miliardi in appalti.

E’ ormai evidente la tendenza al “gigantismo” delle gare d’appalto trattate e gestite dalla Consip, nell’intento di accentrare sempre di più le commesse pubbliche.

D’altra parte, questo è esattamente il mandato attribuitole con forza crescente a partire dall’idea originaria dell’allora commissario alla spending review Carlo Cottarelli, il teorico della necessità di “ridurre gli enti appaltanti da 35.000 a 35”, con la Consip al centro del sistema dell’aggregazione degli appalti pubblici.

Sui giornali e sui media, l’idea di Cottarelli, perseguita poi con risolutezza a partire dall’articolo 9 del d.l. 66/2014, per finire col d.lgs 50/2016 contenente la “qualificazione” delle amministrazioni appaltanti esattamente allo scopo di ridurre drasticamente il loro numero, è sempre stata salutata con entusiasmo, sottolineandone i molti benefici. Abbiamo letto che, grazie alla centralizzazione degli appalti, finalmente il costo della famosa siringa sarebbe stato uguale dalla Calabria alla Lombardia; che grazie agli appalti centralizzati si sarebbero ottenuti i risparmi derivanti dalle economie di scala; che per merito dell’aggregazione, si sarebbero svolti appalti più corretti perchè gestiti da tecnici competenti e super specializzati; soprattutto, l’aggregazione sarebbe stata una misura efficacissima contro la corruzione.

La Consip, in questi anni, ha continuato ad infarcire i media di comunicati stampa magnificatori di enormi “risparmi” sugli appalti. Un dato riferito sempre come vero e assoluto dai media, anche se, poi, andando a guardare la spesa per appalti prevista e consuntivata dal Def, essa è in costante crescita e nonostante qualsiasi amministrazione aggiudicatrice possa agire in via autonoma e prevedere i prezzi della Consip come base di gara, regolarmente riesce ad ottenere ribassi e sconti molto più rilevanti.

L’idea di puntare sulla centralizzazione degli appalti, fin qui ha creato più disagi operativi, che vantaggi concreti. Mentre, infatti, il “risparmio” è più story telling mediatico che realtà, le regole poste per consentire alle amministrazioni di agire in via autonoma si sono fatte sempre più complesse: un comune, ad esempio, per capire se e come può appaltare un servizio o una fornitura deve guardare se vi sono convenzioni Consip, capire se è obbligato ad utilizzarle in base all’oggetto (e vi sono norme diverse e in continua ebollizione, come l’articolo 1, comma 7, del d.l. 95/2012 o i Dpcm attuativi dell’articolo 9, comma 3, del d.l. 66/2014), al valore e a regole speciali (intricatissimo è il sistema degli appalti informatici).

Non è, in effetti, per nulla un caso se l’entrata in vigore del codice dei contratti, ancora più deciso verso la centralizzazione degli appalti, ha praticamente bloccato le commesse pubbliche.

In un periodo nel quale l’anticorruzione è, però, almeno a parole, al centro dell’attenzione, il valore della Consip come aggregatore capace, grazie alla sua specifica competenza, di gestire appalti a prova di ingerenze e corruzione, era dato per scontato e molto esaltato dai media. La convinzione che l’accentramento degli appalti rendesse meno facile per le imprese corrompere era radicatissima.

Chi scrive ha sempre osservato che l’accentramento degli appalti non poteva essere di per sè una formula di garanzia della riduzione dei rischi di corruzione.

Se per un verso accentrando gli appalti ovviamente risulta meno diffuso quantitativamente il rischio e meno aperto all’inesperienza o permeabilità di troppi funzionari, per l’altro l’accentramento eccessivo produce di per sè un rischio elevatissimo. Il vero corruttore punta al bersaglio grosso, all’appalto di grande importo, con meno persone da contattare e corrompere e maggiori possibilità di illecito arricchimento.

Ovviamente, non è possibile trarre alcuna conclusione rispetto ad un’inchiesta solo all’inizio, dalla quale i soggetti coinvolti potranno uscire senza alcuna macchia.

C’è, però, un fatto che emerge e che desta preoccupazione, al di là della sua rilevanza penale. Sappiamo che la normativa anticorruzione contenuta nella prima parte della legge 190/2012 non regola il reato di corruzione, ma la fattispecie della “corruzione amministrativa”, che può venire in essere anche senza commettere il reato, ogni volta che l’azione amministrativa sia “inquinata” dal perseguimento di interessi in tutto o in parte confliggenti col corretto esercizio del potere pubblico, a vantaggio di soggetti privati.

La normativa anticorruzione comprende molti provvedimenti attuativi, tra i quali i piani anticorruzione nazionale e di ciascuna specifica amministrazione, nonchè il dpr 62/2013, cioè il codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Una serie di regole anche appunto solo comportamentali, rivolte ad evitare prima ancora che la commissione di reati contro la PA, conflitti di interesse anche solo potenziali.

Leggendo le cronache di questi giorni sul caso Consip, si è appreso che, al di là dei sospetti di corruzione sull’appalto di facility management, i vertici della società erano soliti “incontrare” gli imprenditori concorrenti nelle gare. Tanto che, appresa in qualche modo la notizia dell’indagine della Procura in corso, il rimedio preso non è stato quello, normale e rispondente al diluvio di regole comportamentali anticorruzione, di vietare ogni contatto con le controparti degli appalti, bensì la “bonifica” degli uffici della Consip dalle “cimici” installate su ordine degli investigatori.

Appare ben evidente la stranezza dei fatti: il principale committente pubblico italiano, costituito non solo ad artefice del risparmio per gli appalti, ma a baluardo della lotta alla corruzione, che si scopre essere solito, tramite i suoi vertici, avere colloqui e incontri con gli imprenditori interessati alle gare.

Si dirà: tenere incontri con le imprese non costituisce certo reato, specie se, magari, le si ascolta su temi generali utili per capire il mercato, il suo andamento, le esigenze operative. Si conceda questo: tuttavia, la cosa proprio non si tiene con l’insieme (sempre più burocraticamente vessatorio) delle regole della normativa anticorruzione, che, si consenta, dovrebbero essere rispettate con maggior rigore soprattutto dal principale committente pubblico. Che se ha la necessità di incontrare gli imprenditori per fini generali e non meno che commendevoli, può certamente farlo con consultazioni pubbliche on line, ad esempio. Nè il principale committente pubblico dovrebbe avere motivo per preoccuparsi di inchieste giudiziarie, giungendo a bonificare da “cimici” i propri uffici.

La sensazione che il sistema della spending review e dell’anticorruzione sia sempre di più un insieme spaventoso di regole astruse e iperburocratiche, vessatorio con i piccoli, inefficace con i veri problemi quali grandissimi appalti inevitabili attrazioni per i tentativi di corruzione, è, purtroppo sempre più netta e forte.

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