02/12/2016 – Scaduta la delega sulla riforma della disciplina della dirigenza: i possibili scenari futuri

Scaduta la delega sulla riforma della disciplina della dirigenza: i possibili scenari futuri

Gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2016 sull’iter di riassetto della disciplina della dirigenza PA

di AMEDEO SCARSELLA

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 251/2016 ha imposto uno stop all’attuazione della Legge 124/2015 di riorganizzazione della pubblica amministrazione. La Corte si è pronunciata su un ricorso della regione Veneto che riteneva contraria alla Costituzione la riforma per una serie di ragioni, tra le quali anche la violazione delle norme sul rispetto dell’autonomia regionale. La sentenza, come ormai noto, ha ritenuto contrario al principio di leale collaborazione il fatto che alcune materie venissero regolate dallo Stato previo parere della Conferenza Unificata e non mediate la forma più “forte” dell’intesa, da raggiungersi nella Conferenza Stato–Regioni. In senso evolutivo rispetto alla giurisprudenza precedente, la Corte ha precisato che l’intesa nella Conferenza è un necessario passaggio procedurale anche quando la normativa statale debba, come nella specie, essere attuata con decreti legislativi delegati, che il Governo adotta sulla base di quanto stabilito dall’art. 76 Cost. Tali decreti – anche se condizionati a tutte le prescrizioni contenute nella Costituzione e nella legge delega – non possono sottrarsi alla procedura concertativa, proprio per garantire il pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze.

Riforma Madia e sentenza 251/2016 della Consulta: riassunto della situazione

La sentenza ha prodotto effetti su tre tipologie di decreti attuativi della legge. 124/2015:

  • quelli ancora da approvare (Testo unico sul Pubblico Impiego);
  • quelli già entrati in vigore (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica – decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, Dirigenza sanitaria – decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171 e Norme in materia di licenziamento disciplinare nella pubblica amministrazione – decreto legislativo 20 giugno 2016 , n. 116);
  • quelli approvati definitivamente il 24 novembre ma non ancora firmati dal Presidente della Repubblica (Disciplina della dirigenza della Repubblica e Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale).

Per la prima fattispecie il problema non si pone, in quanto il Governo non procederà alla predisposizione dei decreti se non dopo aver modificato in Parlamento l’art. 17 della legge delega che riguarda appunto il riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. A tale conclusione si giunge anche leggendo il testo dell’Accordo raggiunto ieri tra Governo e sindacati sul rinnovo dei contratti pubblici, dove come ultimo punto, contenuto nella parte riguardante il “Monitoraggio dell’attuazione della riforma della pubblica amministrazione” è possibile leggere testualmente che “il Governo, in relazione alle modifiche normative relative alla delega di cui all’art. 17 della legge 124 del 2015 si impegna ad un preventivo confronto con le Organizzazioni Sindacali”.

In merito alla sorte dei tre decreti legislativi già entrati in vigore, la Corte Costituzionale ha indicato una strada, quando ha precisato nella sentenza che “le pronunce di illegittimità costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione”. In altri termini, la Corte dopo aver premesso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità non si estendono ai decreti attuativi già emanati, invita il Governo ad individuare soluzioni correttive anche al fine di evitare comunque situazioni di incertezza che potrebbero prodursi a seguito della decisione della Corte. Da precisare che la Regione Veneto ha già proposto l’impugnazione davanti alla Corte Costituzionale del decreto legislativo sulla dirigenza sanitaria. Per ragioni di completezza appare utile segnalare che sussiste una posizione, attualmente minoritaria, che ritiene i decreti riconducibili a tale fattispecie “automaticamente caducati” a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della legge delega. Si tratta di una posizione, ad avviso di chi scrive, che sembrerebbe però smentita dall’indicazione “più prudente” contenuta nella sentenza stessa, che in precedenza si è riportata testualmente.

Infine, per i due decreti, dei cinque approvati dal Consiglio dei ministri, nella seduta del 24 novembre, relativi alla dirigenza della Repubblica ed ai servizi pubblici locali, il Governo ha ritenuto di ritirarli, anche in considerazione che sarebbe stato del tutto impossibile per il Presidente della Repubblica procedere all’emanazione dei decreti dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge delega. Il ritiro ha poi comportato la scadenza della delega, per cui il Governo per incidere nuovamente su queste materie dovrà iniziare nuovamente l’iter da zero.

Cosa succederà alla riforma della Dirigenza pubblica?

La Corte si è pronunciata su un ricorso della Regione Veneto che riteneva contraria alla Costituzione la riforma della dirigenza pubblica, non soltanto per la violazione delle norme sul rispetto dell’autonomia regionale, ma anche in quanto riteneva l’art. 11 della legge delega lesivo degli artt. 3 e 97 della Cost. Nel ricorso è possibile leggere, tra l’altro, che “le disposizioni della lett. f), nello stabilire un principio generale di ampliamento delle ipotesi di mobilità senza considerare che la selezione dei dirigenti in servizio è avvenuta sulla base dell’accertamento di specifiche competenze tecniche da parte dell’ente che ha bandito il concorso si pongono in contrasto anche con il principio di ragionevolezza e buon andamento, la cui lesione ridonda sulle competenze costituzionalmente attribuite alle Regioni in materia prima richiamate. Nello stesso vizio incorrono le disposizioni della lett. i) con riferimento ai dirigenti privi di incarico riguardo alla disciplina della decadenza dal ruolo unico: esse determinano, infatti, una reformatio in peius del regime vigente con una violazione del principio del legittimo affidamento (cfr. sent. n. 160 del 2013) e del buon andamento della Pubblica amministrazione, che incidendo sul principio di autonomia dell’amministrazione dalla politica, ridondano in una lesione delle competenze regionali sopra ricordate. Dai motivi complessivamente sopra esposti deriva la lesione degli artt. 3 e 97 della Cost. che ridonda nella violazione, anche autonomamente considerata, degli artt. 117, III e IV comma, 118, e degli artt. 5 e 120 Cost. sul principio di leale collaborazione”. Su tali censure la Corte Costituzionale non si è pronunciata ritenendole tecnicamente “assorbite” dalla dichiarazione di incostituzionalità

Tuttavia, non può rilevarsi come il problema della compatibilità con l’articolo 97 della Costituzione del disegno di riforma della dirigenza, contenuto nello schema di decreto legislativo, sia stato sollevato da più parti. Si pensi in primo luogo al parere espresso dalla Commissione Speciale del Consiglio di Stato (parere del 14 ottobre 2016, n. 2113) dove si legge “La Corte Costituzionale ha avuto più volte modo di occuparsi del rapporto di lavoro dirigenziale, con particolare riferimento alla conformità al quadro costituzionale del cosiddetto spoils system e cioè del sistema che determina la cessazione degli incarichi dirigenziali in corso di svolgimento in concomitanza con il succedersi di una nuova compagine governativa. Limitando l’analisi all’enunciazione dei principi generali senza riferimenti alle specifiche discipline, la Corte Costituzionale ha più volte avuto modo di affermare che gli articoli 97 e 98 Cost. sono corollari dell’imparzialità ed esprimono la distinzione «tra l’azione di governo – normalmente legata agli interessi di una parte politica espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione che nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate nell’ordinamento» (Corte cost. n. 453 del 1990; si v. anche Corte cost. n. 104 del 2007)”. Gli stessi principi sono stati poi messi in evidenza nel parere delle Commissioni Parlamentari che hanno posto numerose condizioni al Governo sullo schema di decreto, invitandolo alla correzione in parti molto significative del decreto.

Sulla base dei citati principi costituzionali, il Consiglio di Stato ha evidenziato come, tra le condizioni necessarie per assicurare che il rapporto di lavoro dei dirigenti venga disciplinato nel pieno rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, vi sono precise regole che devono assicurare: 

– procedure e criteri di scelta del dirigente oggettivi, trasparenti e in grado di valorizzare le specifiche professionalità e competenze acquisite nell’ambito dei molteplici settori in cui le pubbliche amministrazioni operano; 

 – durata ragionevole dell’incarico che, evitando incertezze sul regime del rapporto di lavoro, consenta al dirigente di perseguire, con continuità, gli obiettivi posti dall’organo di indirizzo politico, consolidando l’autonomia tecnica propria del dirigente stesso, ed evitando i pericoli di una autoreferenzialità che mal si concilia con la responsabilità dell’autorità politica di fissare obiettivi;

 –  modalità di cessazione degli incarichi soltanto a seguito della scadenza del termine di durata degli stessi, ovvero per il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale.

Il disegno di riforma della dirigenza portato avanti in questi due anni dal Governo ha ricevuto molte critiche, sia dal Consiglio di Stato sia dalle Commissioni Parlamentari, ma anche dal mondo accademico, da quello delle autonomie ed infine dai dirigenti interessati alla riforma. Il Governo al momento non ha ancora dichiarato cosa intende fare con le deleghe scadute e pertanto non ha preso posizione in merito alla eventuale riproposizione della riforma della dirigenza pubblica mediante un disegno di legge di iniziativa governativa. L’auspicio è che, se questo fosse il reale intendimento, il Governo:

– faccia tesoro delle indicazioni autorevoli pervenute nel corso dell’iter di attuazione della delega decaduta ed individui soluzioni che possano coniugare l’efficienza del sistema con il rigoroso rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento;

– adotti un metodo diverso a quello utilizzato fino ad oggi, evitando fughe in avanti che nei fatti non hanno condotto ad una riforma della dirigenza. Il metodo potrebbe essere quello del confronto preventivo, innanzitutto con i soggetti interessati dalla riforma, come scritto nell’accordo stipulato ieri con le organizzazioni sindacali in tema modifica della delega sul lavoro pubblico.

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