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Manager pubblici, la resistenza dei dirigenti alla riforma Madia

Nella Pubblica Amministrazione i soli dirigenti a palazzo Chigi sono 315, al ministero dell’Economia 631. Inamovibili. Ora verranno fissati 50 obiettivi per la valutazione nel merito. Il nuovo sistema della retrocessione e la durata a tempo: massimo 6 anni

 di Sergio Rizzo

Magari non tutti lo aspettavano a braccia aperte. Comunque Marcello Fiori, il figliol prodigo, è tornato a palazzo Chigi. Dirigente di prima fascia della presidenza del Consiglio: il posto è suo e nessuno glielo può toccare. Da due anni e mezzo, secondo il sito del governo, risultava comandato al Senato. In virtù, si intuisce, del suo incarico politico. Quello di coordinatore degli enti locali di Forza Italia. Partito dov’era approdato forzando il proprio passato. L’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli l’aveva prelevato dall’Acea, affidandogli incarichi sempre più importanti come quello del grande Giubileo. Poi Guido Bertolaso l’aveva preso sotto la sua ala: commissario a Pompei e dirigente generale dello stato, forse caso più unico che raro, per decreto. Fino a Berlusconi, che l’aveva voluto a capo dei suoi club quando aveva già perso il proverbiale tocco magico. Lui ce l’aveva messa tutta, fin dal debutto, nel 2013. Quando esclamò: «Devo dare un dispiacere a Berlusconi, che ha parlato di mille club. Presidente, i club sono 3.386!». Acqua passata.

 

Non è tornato invece Roberto Alesse. Strettissimo collaboratore dell’ex ministro, ex presidente della Camera ed ex leader di An Gianfranco Fini, per cinque anni è stato presidente della Commissione di garanzia del diritto di sciopero, rilevato ora da Santoro Passarelli. Rientrato nell’amministrazione statale, ha preferito la direzione del personale del ministero dell’Ambiente. Ma la sua poltrona da dirigente alla presidenza del Consiglio è sempre lì. Quando vuole, dottor Alesse.

È così difficile da comprendere perché le più robuste sacche di resistenza alla riforma della presidenza si trovano a palazzo Chigi? Lì, per i dirigenti pubblici, è la vera pacchia. La pacchia delle porte girevoli, dietro il paravento dell’indipendenza dalla politica. La pacchia di stipendi super, frutto di valutazioni super per tutti con il sistema degli «obiettivi di miglioramento». Dove per «migliorare» basta fare un poco di più del previsto, fosse anche l’inventario dei mobili o della cancelleria. La pacchia di non avere responsabilità, visto che a firmare è sempre qualcuno più in alto, ma senza che questo intacchi la busta paga di un esercito sterminato di burocrati. I dirigenti di palazzo Chigi sono 315: compresi due parlamentari in aspettativa. Uno dei quali, Stefano Fassina, è stato anche al governo. L’altra è Rosa Maria Villecco.

 

Il terrore di retrocedere per chi resta senza posto perché non valutato meritevole, questo si profila con la riforma della dirigenza, si è sparso nei ministeri. Paura vera, perché nessuno ha mai provato l’onta della retrocessione per demeriti professionali: mica siamo in Giappone, qua! Figuriamoci il licenziamento, che nella riforma è previsto come estremaratio.

Guai a pronunciare le parole «rotazione degli incarichi», poi, al ministero dell’Economia. Dove i dirigenti sono 631, esattamente il doppio di quelli di palazzo Chigi, e si è formata la seconda linea di resistenza. Quello è il regno dei passisti. Lì gli incarichi si misurano a lustri: prova ne sia che per almeno due il monarca incontrastato è stato lo stesso capo di gabinetto, Vincenzo Fortunato. Bei tempi, quando i burocrati inamovibili tenevano in scacco i ministri. Dal Tesoro all’Interno, ai Beni culturali, alle Infrastrutture… Memorabili alcuni decenni. Come quello di Giorgio Bruno Civello, potentissimo e inamovibile direttore generale dell’Alta formazione artistica e musicale. O quello di Ercole Incalza alla testa delle grandi opere pubbliche: così prezioso che negli ultimi anni l’hanno tenuto legato al ministero con una consulenza mentre l’Italia scivolava all’ottantaduesimo posto nella classifica mondiale delle dotazioni infrastrutturali… La riforma prevede che non si possa occupare lo stesso posto per più di sei anni. E come la mettiamo con l’esperienza? Maneggiare soldi e percentuali mica è da tutti. Magari ti arriva a via XX settembre un segretario comunale, e non sa nemmeno dove mettere le mani… Mentre adesso funziona tutto così bene, alla perfezione. Tanto che nei ministeri, dicono le statistiche, tutti i dirigenti di prima fascia raggiungono almeno il 90% del massimo.

 

E siamo al secondo terrore. Dicono che tutto dipenderà dalla valutazione del merito: la chiamata in servizio dal ruolo unico, la promozione, la carriera. Ma chi valuterà? E come? Circola l’idea di assegnare a tutte le amministrazioni 50 «obiettivi della Repubblica». Cose tipo i tempi di pagamento ai fornitori, la rapidità delle risposte al pubblico, l’informatizzazione. Roba valutabile con i parametri Ocse: non si scappa. Altro che contare le sedie dell’ufficio.

Gli oppositori però non demordono. Paventano rischi di incostituzionalità: l’articolo 97 della Costituzione non stabilisce forse l’imparzialità dell’amministrazione? E insistono che con il ruolo unico da cui pescheranno i ministri il dirigente finirà assoggettato alla politica. C’è chi soffia sul fuoco anche fuori dei ministeri. Carlo Deodato, consigliere di Stato già capo di gabinetto di Renato Brunetta, che guidava l’ufficio legislativo di palazzo Chigi prima che Matteo Renzi lo sostituisse con l’ex capo di vigili urbani di Firenze Antonella Manzione, ha palesato per esempio in un lungo articolo l’eventualità che con la riforma «si configuri un assetto della dirigenza pubblica che la renda ossequiosa al governo». Come se non fosse mai esistito il rischio di una commistione fra politica e amministrazione in un Paese dove un prefetto del calibro di Umberto Postiglione ha potuto ricoprire un incarico politico come quello di sindaco di Angri, città di 30 mila abitanti, continuando tranquillamente a lavorare al Viminale: ministero che per inciso vigila sui Comuni. Lui ne va fiero.

13 agosto 2016 (modifica il 13 agosto 2016 | 23:35)

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