14/08/2016 – Il dovere del governo: restituire prestigio ai suoi funzionari

Intollerabile malagestione che mortifica lo Stato

Il dovere del governo: restituire prestigio ai suoi funzionari

di Salvatore Sfrecola

 

Pressoché all’unanimità i giornali di ieri, a proposito del decreto legislativo sulla dirigenza pubblica esaminato dal Consiglio dei ministri hanno parlato di norme sulla valutazione e la licenziabilità degli alti funzionari dello Stato. Ed hanno attribuito il rinvio dell’approvazione al dissenso che sarebbe stato manifestato in varie ambienti, ministeriali e sindacali, in sostanza “alle resistenze dell’alta burocrazia ministeriale rispetto agli incarichi a termine ed al ruolo unico”. Così riassume le “voci” che si ricorrono Nuova Etica Pubblica che, al riguardo, “ribadisce le preoccupazioni già manifestate in occasione del varo della legge delega e torna ad affermare la necessità che il decreto contenga la previsione del diritto all’incarico. Ovvero, che ogni dirigente pubblico, alla cessazione dell’incarico rivestito, in assenza di una valutazione negativa sul suo operato ha diritto ad un nuovo incarico di importanza equivalente a quella del precedente, come previsto dal Contratto collettivo nazionale di lavoro tuttora vigente”. Il presupposto è che vanno realizzate “valutazioni indipendenti, serie e perciò credibili” (Sergio Rizzo, Corriere della sera). “Senza le quali, non può accadere che, nel gioco dell’assegnazione dei nuovi incarichi, un dirigente possa restare fuori e finire nel ruolo unico anche se il suo operato precedente non ha dato luogo a censure”.

La polemica sconta mali antichi che si trascinano, tra riforme e controriforme, lungo una strada inclinata che porta l’Italia lontano dalle democrazie nelle quali l’efficienza del settore pubblico è la regola, nel rispetto della legalità e della trasparenza. Stentano, infatti, i partiti ed i governi a comprendere che il perseguimento degli obiettivi contenuti nell’indirizzo politico, parlamentare e di governo, sono inevitabilmente affidati all’efficienza degli apparati pubblici i quali, per funzionarie secondo le aspettative, hanno bisogno di norme precise e facilmente percepibili, procedure che le rendano applicabili, e funzionari che “al servizio esclusivo della Nazione”, secondo l’articolo 98 della Costituzione siano dotati della occorrente professionalità.

Se analizziamo queste affermazioni alla luce della realtà lo scoramento è assicurato. Le leggi che disciplinano le materie attinenti all’esercizio delle funzioni pubbliche sono spesso inadeguate rispetto all’effettivo perseguimento degli obiettivi, in particolare per quanto concerne i tempi che sono un valore generalmente trascurato. Un valore per il sistema amministrativo, per i cittadini e le imprese che operano nelle professioni e nella produzione di beni e servizi, con inevitabili aggravi che incidono sull’economia e sui consumi. Queste situazioni di incertezza determinano spesso un contenzioso pesante e lungo in sede civile e amministrativa che costituisce esso stesso un costo e dissuade dall’intraprendere italiani e stranieri. La giustizia lenta, infatti, non è solamente quella civile. Spesso si ha la sensazione che si provochino i ritardi per evitare il soddisfacimento dei diritti.

In questa incertezza, che è essa stessa malamministrazione, si inseriscono comportamenti criminali nella gestione degli appalti, dalla fase di deliberazione a contrattare con la individuazione dei bandi di gara “non di rado” (è notoriamente un eufemismo) costruiti a misura delle caratteristiche dell’impresa che dovrà vincere l’appalto, in assenza di adeguati controlli in corso d’opera e finali, sulle opere e sulle forniture.

Tutto questo avviene molto spesso alla luce del sole perché funzionari ed amministratori sono in combutta tra loro, come dimostrano le cronache giudiziarie, che hanno messo in risalto decisioni amministrative anomale rese possibili dalla assenza di un potere politico capace di dare direttive e di controllarne la attuazione. A volte i funzionari operano di loro iniziativa, a volte sono sollecitati e costretti ad agire dai politici ai quali (l’aspetto negativo dello spoil system) devono la nomina, la conferma e la determinazione dell’ammontare del trattamento economico accessorio. In più gli incarichi di rappresentanza dell’amministrazione presso enti e aziende, posizioni di potere non indifferenti che, al di là di spesso lauti appannaggi, consentono di sistemare parenti e affini propri o del politico che, poi, mostrerà riconoscenza.

A questo punto è evidente che il punto nodale è l’indipendenza della dirigenza pubblica, perché sia effettivamente “al servizio esclusivo della Nazione” e non del politico di turno. Perché si realizzi questa elementare regola è necessario che i dirigenti, come tutti i pubblici dipendenti del resto, siano reclutati mediante concorso pubblico (e serio), come prescrive l’articolo 97, comma 3, della Costituzione, non con “riconoscimento” di mansioni svolte o selezioni addomesticate, per inserire nelle amministrazioni amici degli amici e clientes vari il cui unico merito è quello di aver operato da portaborse o da consulenti, nella migliore delle ipotesi, nelle segreterie di partito e di ministri e sottosegretari, sindaci e assessori, presidenti di regioni e via discorrendo. Questa gente non va inserita nelle pubbliche amministrazioni. Se utile alle esigenze dell’attività politica rimane a lato, per il tempo della durata dell’incarico politico cui accedono, con un trattamento economico predeterminato dalla legge in relazione alle professionalità ed ai titoli di studio. L’inserimento di queste persone nella pubblica amministrazione, molto spesso incompetenti, privi di esperienza quanto arroganti, è stata causa di gravi disfunzioni, a cominciare dalla mortificazione del personale di carriera che, ovviamente, si defila quando non rema contro. Questa prassi deve assolutamente finire per restituire al pubblico dipendente quel prestigio del quale deve essere circondato in uno stato di diritto.

Da ultimo deve essere chiaro che il pubblico dipendente il quale è un professionista che spesso ha scelto di operare in una pubblica amministrazione, civile o militare, per il desiderio di prestare servizio allo Stato per tradizioni familiari od altro deve essere remunerato secondo quanto richiede la sua professionalità ed il suo impegno. Vale per tutti, dal più piccolo al più grande. A cominciare dai docenti di ogni ordine e grado, perché nella scuola si formano i cittadini ed i professionisti di domani. La scuola è un investimento per uno stato serio, un investimento che deve consentire la selezione dei migliori ed il loro continuo aggiornamento. Un docente che, di fronte ad un libro del costo di trenta o quaranta euro che consentirebbe un importante aggiornamento della sua cultura, da riversare ai suoi studenti, rinuncia perché non può permetterselo è un delitto contro la società.

I lettori troveranno in queste mie riflessioni un impegno ed una passione che è tratta dall’esperienza, da quel che ho visto nelle amministrazioni dove ho svolto funzioni di consulente ministeriale, in quelle che ho controllato o sulle quali ho indagato per accertare la responsabilità di danni erariali spesso assai rilevanti. È anche la ribellione di un cittadino di fronte all’inconsistenza di una classe politica che da troppo tempo trascura i veri problemi di un Paese che, infatti, non cresce, anche per la pesantezza assurda e inutile dei suoi apparati, per la mancanza di prospettive offerte ai suoi giovani che devono andare all’estero per ottenere il giusto apprezzamento di una professionalità raggiunta sui banchi di una scuola che mantiene, grazie al sacrificio di molti docenti, una sua dignità, nonostante le ripetute “riforme” ne abbiano alterato i caratteri e la capacità di approfondimento in una rincorsa assurda a togliere o ridurre insegnamenti, a volte per sembrare più “moderni” per inseguire esperienze, o presunte tali, di paesi che, invece, apprezzano la nostra cultura di base e specialistica, come dimostra il successo dei nostri “cervelli in fuga” ovunque nel mondo.

13 agosto 2016

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