11/08/2016 – L’ultima resistenza dei «mandarini» e il rebus dei voti legati ai risultati

L’ultima resistenza dei «mandarini» e il rebus dei voti legati ai risultati

Nei confronti della riforma della pubblica amministrazione si susseguono critiche. Osservazioni che potrebbero essere anche prese in considerazione, se non si esaminasse però il punto di partenza: l’inefficienza del nostro apparato burocratico

 di Sergio Rizzo

Immaginiamo quali critiche arriveranno a Marianna Madia. C’è chi sosterrà che il governo Renzi vuole assoggettare i dirigenti pubblici alle direttive politiche. E chi invece argomenterà che in questo modo si può vanificare l’esperienza, avvilendo con il ruolo unico le meravigliose specificità dei nostri burocrati. Né mancheranno le profezie di una paralisi totale a causa dell’inevitabile diluvio di ricorsi che molti staranno già preparando. Un sintomo di ultima resistenza, lo slittamento a fine mese.

Tutte osservazioni che si potrebbero anche prendere in considerazione, se però non si esaminasse con attenzione il punto di partenza. L’inefficienza del nostro apparato burocratico è proverbiale e il funzionamento della dirigenza ne è il principale responsabile: senza che le riforme di volta in volta realizzate, a cominciare da quella che porta il nome dell’ex ministro Franco Bassanini, abbiano fatto cambiare davvero passo alla pubblica amministrazione. Si è assistito a casi di dirigenti rimasti per oltre un decennio a capo del medesimo ufficio, valutati sempre al massimo. Sebbene lo stesso giudizio non potesse certamente valere per l’efficienza dei loro piccoli reami, spesso e volentieri rivelatisi incapaci di offrire ai cittadini risposte concrete e in tempi umani. E con stipendi letteralmente astronomici, prima che venisse introdotto il tetto del 240 mila euro. Inamovibili e intoccabili, i nostri burocrati sono stati per generazioni i padroni della macchina pubblica a ogni livello: statale e regionale, e poi giù giù fino ai Comuni. Non avendo di fatto responsabilità corrispondenti all’importanza del proprio ruolo, grazie a sanzioni inesistenti. Quanto all’indipendenza dalla politica, siamo proprio sicuri che le regole attuali l’abbiano garantita fino in fondo? Basta vedere come si costruiscono certe carriere prefettizie, diplomatiche, sanitarie… Proprio sicuri che la politica non c’entri nulla? Diciamo la verità: era ora che si ponesse fine a questa stagione. Era ora che si mettessero in discussione i tabù dell’inamovibilità e dell’irresponsabilità. Come era ora che si affermasse il principio per cui un dirigente non può restare nel medesimo posto tutta la vita, rischiando serie contaminazioni ambientali. Meno mandarini, più funzionari scelti perché capaci. Evviva. Non deve spaventare nemmeno la possibilità di licenziare: i somari non ci servono. Anche se di somari, a quanto pare, non ce n’è neppure uno. Ed è qui che viene un dubbio. Una rivoluzione della dirigenza pubblica così impostata può funzionare unicamente se funziona la giusta premessa sulla quale si basa tutto: la valutazione del merito. E’ grazie ai buoni risultati del suo operato che il dirigente può fare carriera, avere uno stipendio migliore, aspirare a passare a incarichi di responsabilità sempre maggiore. Restando indipendente. In un mondo perfetto il giudizio sulle capacità sarebbe pure l’unica reale garanzia dell’indipendenza del funzionario pubblico dalla politica. Perché in un mondo perfetto sarebbe oggettiva e indipendente anche la valutazione.

Ebbene, non c’è stato un governo, almeno nell’ultimo quarto di secolo, che non abbia giurato di voler privilegiare il merito. Così abbiamo visto di tutto: dalle ridicole «autovalutazioni», fino all’introduzione dei cosiddetti «organismi indipendenti di valutazione». Ma è cambiato poco o nulla. Se nel 2006 tutti i quasi 4 mila dipendenti apicali della pubblica amministrazione erano valutati al massimo, una indagine dell’Anac ha dimostrato che nel 2012 il 100 per cento dei dirigenti di prima fascia dei ministeri aveva una valutazione non inferiore al 90 per cento. Asini, zero virgola zero. Mentre fra i dirigenti di seconda fascia quelli che non arrivano al sei sarebbero appena il 2%.

Giudizi credibili, per una burocrazia in fondo a tutte le classifiche europee dell’efficienza, dalla giustizia al fisco? Perché questa riforma della dirigenza faccia fare alla nostra pubblica amministrazione quel salto di qualità che il governo ci assicura, servono dunque valutazioni indipendenti, serie e perciò credibili. Diversamente, avremmo scherzato ancora una volta.

10 agosto 2016 (modifica il 10 agosto 2016 | 23:21)

 

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