24/09/2015 – La meritocrazia ed il marketing. Una risposta all’intervento di Angelo Capalbo

La meritocrazia ed il marketing. Una risposta all’intervento di Angelo Capalbo

 

Ho letto in ritardo l’ottimo e stimolante intervento di Angelo Capalbo. Non comprendo perché, qualche giorno fa, sia stato preso di mira in chat (devo però confessare che non seguivo pedissequamente la querelle, “distratto” da All Blacks/Pumas).

Egli pone temi della massima rilevanza ed intorno ai quali ruota la “rivoluzione” che, in questo ultimo quarto di secolo, ha interessato la macchina amministrativa italiana, il lavoro pubblico e, da non sottovalutare, l’idea stessa di società.

La meritocrazia, dunque. Fa bene Angelo a ricordare l’origine “distopica” e pessimistica che il termine aveva agli occhi di chi (Michael Young) pure lo aveva coniato.

La meritocrazia è l’espediente ideologico, la trovata propagandistica, il grimaldello pubblicitario che è servito a scardinare la centralità del principio di uguaglianza e, con questo, l’idea di una società “solidale”.

La meritocrazia è il propellente “ideologico” che dà gas ad una società “sterilmente” competitiva.

Ci hanno spiegato che la “meritocrazia” è il criterio selettivo (l’evocazione di un lessico darwiniano non è casuale) del settore privato ossia del modello assiologico ormai imperante.

A proposito della retorica del “mercato” e dei suoi valori, pensate a cosa hanno combinato quelli di Wolkswagen in questi anni per vendere le loro autovetture. Siamo di fronte ad una colossale truffa.

Il mercato, cari amici, è questo, non la retorica del più bravo che va avanti ma la sostanza di mille inganni.

Meritocrazia? La meritocrazia implica un’idea di persona in costante competizione con gli altri. Suppone che si debba stare sempre sul pezzo perché altrimenti si arretra, si perdono posizioni, si viene superati da altri. La meritocrazia (come declinata in stile Abravanel e non secondo la preoccupata ed originaria prospettazione di Young) implica e costruisce una “antropologia”; l’antropologia della competizione continua. Sei un competitor in servizio permanente effettivo. Vali sin quando sei un ingranaggio efficiente del sistema, altrimenti vieni messo “in disponibilità” e quindi espulso.

Se questa logica aveva un senso (fortunatamente temperato dalle conquiste del diritto del lavoro, almeno sino alle recenti involuzioni che hanno avuto nel jobs act l’estremo atto di regressione ) nel settore privato essa lo perde del tutto nel settore pubblico, dove non ci dovrebbe essere spazio per la “concorrenza”.

Eppure decenni di propaganda ideologicamente orientata ha prodotto in tutti la supina accettazione di questa prospettiva assiologia totalmente errata e totalmente antagonistica rispetto ai valori fondanti della Costituzione.

Quali valori sono scritti nella nostra Costituzione a proposito del lavoro pubblico lo spiegò in maniera chiara Carlo Esposito in un celebre articolo del 1952, dal titolo: Riforma dell’Amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini.

La funzione pubblica va esercitata per se stessa e non in funzione di premialità contingenti. Così come il conseguimento di avanzamenti di carriera non si fa a colpi di curriculum ma accertando seriamente la maggior o crescente capacità professionale dei candidati.

Ma poi che idea del lavoro ci siamo venuti costruendo in questi anni disgraziati?

Qualche giorno fa circolava nel web una interessantissima riflessione del solito “rivoluzionario” Pepe Mujica (L’ex Presidente dell’Uruguay che viveva con 300 € al mese, devolvendo tutto il resto del suo appannaggio presidenziale ai poveri). Leggiamola:http://www.huffingtonpost.it/2015/09/19/jose-mujica-discorso-vita_n_8162366.html?ref=fbpr .

Che idea di lavoro reca in se questa ossessione mercatista e competitiva? Quella cui noi stessi (segretari comunali) siamo inclini? L’idea che si riassume in un vecchio ma inquietante adagio: “chi si ferma è perduto”. L’idea di una corsa continua in cui conta l’efficienza, senza considerare che siamo tutti macchine imperfette, spesso bisognevoli di cure, di diversificare i nostri interessi…. Se il valore unico è l’efficienza, che ruolo si riserva a chi, per sventura e non per colpa, incorre in mali che, senza essere letali, sono talora devastanti?  

Il curriculum è, se ci pensate bene, anch’esso uno strumento funzionale a quest’epoca fondata sul marketing e sull’immagine.

Cosa “fa” curriculum? Parlavo giorni fa con un insegnante e mi confermava che anche per loro le cose stanno cambiando (in peggio). Anche per loro assumerà peso crescente il curriculum. Ma siamo certi che tutto faccia curriculum?

E si chiedeva: chi merita di più? L’insegnante che si prodiga in classe per elevare effettivamente il livello dell’offerta formativa o quello che invece preferisce far “collezione” di corsi? Ossia fa curriculum l’applicazione costante e seria al lavoro o le medaglie di latta di una preparazioni spesso posticcia alimentata dal mercato della “formazione continua”,  alimentato a sua volta dai famelici interessi del c.d. “turismo” degli “stages” e dalle torme voracissime di “esperti” e “consulenti” che servono la bulimia insaziabile di un sistema che deve essere costantemente “riformato”.

Fa curriculum l’astratta produzione dottrinaria o l’abnegazione e l’impegno profuso sul campo?

Nella società del marketing il curriculum è una trovata scenografica anch’esso. Spesso rischia di premiare – come sempre più di frequente accade ormai – i più disinvolti e quelli più capaci di curare la propria immagine e non quelli dediti al lavoro. E’ funzionale agli interessi dei gregari acritici del sistema rispetto alle intelligenze lucide ma disarmate.

E’ il rovesciamento dei valori che ci stanno imponendo, la vera via di salvezza; non la prospettiva di mettere una toppa al un vestito orrendo.

Dobbiamo ripartire da una classica distinzione appresa proprio all’inizio dei nostri studi giuridici. I segretari non sono mai usciti dall’orizzonte del quid iuris. La vera risposta sta nel quid ius.

 

Print Friendly, PDF & Email
Torna in alto