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Quella che segue è la parte del commento relativa alla dirigenza. Suggeriamo, comunque, di leggerla cliccando sul link sopra riportato.

 

Articolo 11 – Dirigenza pubblica.

E’ l’articolo clou della legge, secondo il pensiero di tutti, Governo, Parlamento, osservatori. La modifica profonda del regime della dirigenza pubblica italiana viene considerata il motore essenziale per modificare nel profondo assetti e funzionamento delle circa 20.000 Amministrazioni pubbliche del nostro Paese. Le disposizioni recanti principi e criteri direttivi diretti al legislatore delegato sono classificabili in 4 grandi ambiti: 1. Inquadramento; 2.Accesso alla dirigenza; 3. Formazione; 4. Conferimento, durata e revoca degli incarichi; 5. Retribuzione. La diffusa pubblicizzazione dei vari punti della legge avvenuta nel corso della sua discussione nelle Aule parlamentare consentono qui di tracciare un profilo sintetico delle prescrizioni previste: 1. la dirigenza pubblica verrà riorganizzata attraverso il suo inquadramento (lettere a e b del comma 1) in tre “ruoli unificati e coordinati accomunati da requisiti omogenei di accesso”: dirigenti dello Stato (con “eliminazione della distinzione in due fasce”), dirigenti delle Regioni e dirigenti degli Enti locali (con abolizione della figura storica di Segretario comunale); 2. Accesso alla dirigenza attraverso due distinte modalità di “corso-concorso” e di “concorso”; 3. Riforma dei principi della formazione d’ingresso e della formazione permanente (lettere d ed e del comma 1) con revisione , in riferimento della prima categoria formativa, “della missione e dell’assetto organizzativo della Scuola nazionale dell’Amministrazione con eventuale trasformazione della natura giuridica, con coinvolgimento di istituzioni nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio”. 4. Conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali da parte delle singole Amministrazioni pubbliche (lettere g, h ed i del comma 1) “sulla base di requisiti e criteri definiti dall’amministrazione in base ai criteri generali definiti” da tre Commissioni: “Commissione per la dirigenza statale, presso il Dipartimento della funzione 20 pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri” ,”Commissione per la dirigenza regionale” e “Commissione per la dirigenza locale”. Per gli incarichi di livello dirigenziale generale è necessaria un “preselezione di un numero predeterminato di candidati in possesso dei suddetti requisiti” da parte di tali Commissioni, rimettendo poi la scelta finale all’Amministrazione fra i componenti della “rosa” prescelta. Evidentemente tale adempimento non è necessario per gli altri incarichi dirigenziali sui quali la lettera g del comma 1 prevede una “verifica successiva del rispetto dei suddetti requisiti”, cioè “ attitudini e competenze del singolo dirigente, dei precedenti incarichi e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso amministrazioni pubbliche, purchè attinenti all’incarico da conferire” con particolare riferimento all’ “assegnazione di incarichi con criteri che tengano conto della diversità delle esperienze maturate, anche in amministrazioni differenti”. La durata di ciascun incarico è fissata in “quattro anni… con facoltà di rinnovo per ulteriori due anni senza procedura selettiva”. Revoca degli incarichi possibile in relazione alla “definizione di requisiti oggettivi… anche in relazione al mancato raggiungimento degli obiettivi”. Con ciò si deduce che allo scadere dei 4 o 6 anni il dirigente si troverà senza incarico rimanendo a lui aperta la sola possibilità di concorrere all’assegnazione di un nuovo incarico nel contesto dei concorsi banditi all’interno del ruolo unico. In assenza d’incarico il dirigente pubblico sarà parcheggiato all’interno del ruolo unico con “erogazione del trattamento economico fondamentale e della parte fissa della retribuzione”. Sarà infine fissata una “disciplina di decadenza dal ruolo unico a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità successivo a valutazione negativa”. In tale ultimo senso il legislatore lega la decadenza dal ruolo unico ad una valutazione negativa, ma tace del tutto sull’altra evenienza: quella secondo la quale, allo scadere dell’incarico, non ne consegua alcun altro e il dirigente transiti all’interno del ruolo unico, privo d’incarico pur in assenza di qualsivoglia valutazione negativa! La lettera i del comma 1 prevede anche una serie di “vie di fuga” dal ruolo unico: “incarichi presso altre amministrazioni” (si presume appartenenti a gli altri due ruoli unici), “ovvero nelle società partecipate delle amministrazioni pubbliche” (che a questo punto diventeranno, oltre al resto, anche un ottimo cimitero degli elefanti per dirigenti “trombati”) o per svolgere “attività lavorativa nel settore privato” (dal tenore letterale della disposizione in questione è lecito dedurre che siano previste tutte le attività lavorative…… Anche la gestione di un camion bar per strada?), presso “Enti senza fini di lucro” e, infine, la possibilità di “formulare istanza di ricollocazione in qualità di funzionario…nei ruoli delle pubbliche Amministrazioni”. 5. La riforma del sistema retributivo consisterà prevedibilmente in una “omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio nell’ambito di ciascun ruolo unico” dovendosi con ciò necessariamente intendere la volontà di eliminare le differenziazioni retributive fra i dirigenti di diverse Amministrazioni pubbliche. Evento da salutare con favore, invece, il potere di “ciascun dirigente” sancito per legge di “attribuire un premio monetario annuale a non più di un decimo dei dirigenti suoi subordinati e a non più di un decimo dei suoi collaboratori, sulla base di criteri definiti”. Con la declinazione di criteri consimili agli assetti della dirigenza nel Servizio sanitario nazionale (lettera p del comma 1) e la “previsione di revoca d’incarico e 21 divieto di rinnovo di conferimento degli incarichi in settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione”, il corpo delle previsioni contenute nell’articolo 11 della legge 24 è quello sopra sintetizzato. Le critiche serrate al nuovo regime, provenienti perlopiù da ambienti vicini alla dirigenza pubblica, possono essere riepilogate come segue. 1. Il regime delle assunzioni si articola – vedi qui l’intervento di di Antonio Zucaro sul sito Eticapa.it – in una “incomprensibile distinzione tra “ corso concorso “ e “ concorso” tout court di accesso alla dirigenza: stessi requisiti e criteri, stesso titolo di studio, stesso periodo triennale di prova, riducibile in presenza di altre esperienze lavorative. Le sole distinzioni sono il “ corso “ previsto nella denominazione della prima modalità, ma solo lì, perché la relativa norma di delega non ne parla più; inoltre, la possibilità ( eventuale ?! ) di trattenere come funzionario il vincitore del “ concorso “ che non supera l’ esame di conferma. Insomma, un pasticcio. Ma ancora più preoccupante è la prevista trasformazione della Scuola Nazionale di Amministrazione, che potrebbe anche cambiare la sua natura giuridica ( consorzio, società per azioni ? ), con il coinvolgimento di istituzioni nazionali ed internazionali di riconosciuto prestigio, evidentemente nella “governance“ della Scuola medesima; inoltre, con la possibilità di avvalersi per le attività di reclutamento e di formazione delle medesime istituzioni. Il rischio evidente è quello di trasformare la Scuola in una sorta di “ stazione appaltante “ della formazione dei dirigenti pubblici ( tutti, compresi prefetti e diplomatici ) ad Università e Centri privati, per giunta partecipi degli organi di governo della Scuola stessa. Se la manina che scriverà il decreto delegato sarà la stessa ( magari proveniente da una di queste prestigiose istituzioni) che ha scritto la norma di delega, ne vedremo delle brutte”. 2. L’inserimento dell’intera dirigenza pubblica, con l’esclusione non marginale della dirigenza scolastica, in tre grandi macro-contenitori denominati “ruoli unici” – impostazione in sé non disprezzabile – innesca in concreto meccanismi micidiali di instabilità organizzata”; due soprattutto: a) l’abolizione delle due qualifiche di “dirigente di prima fascia” e di “dirigente di seconda fascia” nelle Amministrazioni statali e negli enti pubblici non economici: tale misura, propugnata e difesa a gran voce dal Governo e da think tank intellettuali facenti capo all’ Università Bocconi di Milano, viene argomentata sulla base del pregiudizio di base secondo il quale “il dirigente di 1° fascia, una volta diventato tale, può comodamente disinteressarsi dei suoi compiti e dei suoi doveri e non impegnarsi per perseguire efficientemente gli obiettivi assegnatigli, tuttavia potrà conservare sempre quella qualifica e il corrispettivo economico che gli corrisponde. Meglio pertanto “fare come il privato”, lasciando la sola funzione ma abolendo la qualifica”. Questo ragionamento distorto era ed è concepibile solo in un contesto generale gravemente compromesso caratterizzato da un pregiudizio di fondo nei confronti dell’attuale dirigenza pubblica statale; sarebbe stato facile, altrimenti, argomentare che l’accesso ai vertici di una carriera comporta di per sé l’idea di aver “selezionato i migliori”, dal punto di vista dell’efficienza, dell’etica di lavoro e della deontologia. Pertanto, come nei percorsi di carriera dello stesso mondo imprenditoriale privato, degli accademici, dei militari, dei 22 medici pubblici, si dovrebbe presupporre in tali casi che chi è “migliore” all’atto della designazione, tendenzialmente lo rimanga per sempre, con salvezza dei casi residuali. E, comunque, l’idea della carriera è un incentivo umanamente fondamentale che sprona i migliori a impegnarsi a fondo nel lavoro. Questa caratteristica naturale viene vanificata nelle Strutture maggiormente ramificate e importanti della Pubblica Amministrazione, quali Ministeri ed Enti pubblici non economici; b) le modalità di passaggio da un incarico dirigenziale ad un altro sono mediate da “bandi di concorso” per l’assegnazione dei posti che coinvolgeranno a questo punto tutti i dirigenti pubblici per tutti gli incarichi, compresi quelli apicali: facile prevedere che in molti dedicheranno le proprie migliori energie non tanto e non solo a collaborare con i superiori gerarchici diretti, quanto a studiare i modi migliori per cercare di sostituirli al momento della messa al bando di quell’incarico. I cantori del “privato” godono al pensiero – pare di assistere ad uno dei tanti film americani sull’argomento – ma sfugge loro il concetto che in questo modo un’Amministrazione pubblica non acquista in efficienza, ma opera in situazione di pericolosa entropia e rischia di sfasciarsi completamente; c) non c’è alcuna garanzia di acquisire un nuovo incarico al termine del periodo di 4 o 6 anni di incarico precedente, neanche in presenza di valutazioni non negative: si osservi bene il testo di legge, lì dove prescrive per il legislatore delegato il principio secondo cui la valutazione negativa è ostativa per la decadenza dal ruolo unico, ma non per il mancato incarico a un dirigente che non abbia demeritato; pertanto anche il dirigente valutato positivamente nel corso degli anni non detiene alcun diritto di rinnovo o assunzione di altro incarico e può essere liberamente accantonato nel dimenticatoio del ruolo unico. Quanto a dire che la persona che rappresenta lo Stato nei suoi provvedimenti gestionali più importanti e che chi ha servito (civil servant) assumendosi le pesanti responsabilità dirigenziali può essere tranquillamente “terminato” allo scadere dell’incarico ricoperto. Nessuna categoria di impiegati pubblici è mai stata trattata in questo modo in questo Paese. 3. Viene abolita la figura dei Segretari comunali, portando a conclusione una storia legislativa introdotta dai decreti Bassanini che abolirono il ruolo statale dei Segretari comunali e ne disposero l’immissione nei ruoli dei rispettivi Comuni. Con ciò veniva vanificata una funzione di “contrappeso” e di garanzia della legalità rispetto ai vertici politici locali. Questa categoria di dirigenti e funzionari pubblici ha vissuto “di vita grama” negli ultimi 20 anni, riuscendo tuttavia ad esercitare flebili funzioni di controllo in una dimensione amministrativa peraltro privata dall’abrogazione degli articoli 125 e 130 della Carta costituzione del 1948 di qualunque controllo esterno sugli atti di spesa delle Regioni e dei Comuni. L’articolo 11 della Legge 124 porta a conclusione questo percorso legislativo da seconda repubblica e ci consegna l’amministrazione pubblica degli enti locali – che è ormai parte fondamentale dell’intera amministrazione pubblica italiana – sprovvista di qualsivoglia meccanismo giuridico di garanzia degli atti di spesa adottati. Con un ulteriore sbrego al principio di garanzia di legittimità negli Enti locali: l’estensione al 30% dei posti dirigenziali in organico della possibilità di assumere dall’esterno e senza concorso pubblico dirigenti a tempo determinato (articolo 11 del DL 23 90/2014 in Legge 114 – Governo Renzi). Se questo è lo spirito “del nuovo”, se questo è lo spirito del “privato”, possiamo andare tutti a nasconderci. 4. Ottima prova dell’esigenza di avere “campo libero” nel rapporto fra conferimento degli incarichi e “abbandono” nel ruolo unico risiede nell’ambiguo collegamento fra gestione degli incarichi dirigenziali e la valutazione delle performance dei dirigenti (presente come “chiamata” alla lettera g del comma 1 – relativa al conferimento degli incarichi – e in una lettera a parte – lett. l) del comma 1 – dove si parla “con riferimento alla valutazione dei risultati” di “rilievo dei suoi esiti per il conferimento dei successivi incarichi dirigenziali; costruzione del percorso di carriera in funzione degli esiti della valutazione”) . L’articolo 11 omette, peraltro, di marcare una qualunque attinenza fra le prescrizioni del successivo articolo 17, comma 1, lettera r (valutazione delle performance delle amministrazioni e dei dipendenti) e il sistema di conferimento degli incarichi. Nell’ “input” al legislatore delegato manca qualunque garanzia di tutela del dirigente che, a termini dei risultati conseguiti e del proprio percorso di valutazione, non abbia mai demeritato. Andava dichiarata, invece, la rilevanza essenziale del collegamento fra incarichi (configurando un diritto all’assegnazione per il dirigente che non abbia demeritato) e valutazione delle performance, che sarebbe un parametro di grande razionalità e di garanzia dell’impianto e del funzionamento dei ruoli unici, in quanto eliminerebbe la possibilità del loro utilizzo come il classico “cimitero degli elefanti”, in cui relegare a piacimento dirigenti che non abbiano mai demeritato. Valutiamo questa “tecnica di scrittura” della norma come un terreno fortemente sdrucciolevole, nel quale al legislatore delegato viene lasciato aperto uno spazio eccedente – una prateria aperta – rispetto a quello che dovrebbe essere concesso dall’Organo legislativo della Repubblica all’Organo di governo. 5. Evidenziamo infine, per difetto, un solo riferimento – a mo’ di “clausola di stile” (lettera h del comma 1 “equilibrio di genere nel conferimento degli incarichi”) – al ruolo della donna nel regime della dirigenza pubblica. Vedi sul tema l’intervento di Daniela Carlà. Al di là delle osservazioni esposte – e delle altre che si possono fare – sul testo della disposizione di riforma della dirigenza pubblica e delle enunciazioni teoriche “tranquillizzanti” fatte dal Ministro della Pubblica Amministrazione e della semplificazione, estensore della disposizione, c’è da registrare un senso di vera costernazione all’atto di promulgazione di questa legge: c’è un punto nodale e una filosofia di fondo implicita che ispira ogni sua parola e che appare come la seguente: il modello di dirigente da configurare per le Amministrazioni pubbliche deve corrispondere in toto a quello delle imprese private, cioè non esistono argomenti o giustificazioni tali per cui al dirigente pubblico possano essere “riservate” situazioni, condizioni e funzioni di natura diversa dal dirigente privato. Da quest’assunto di fondo deriva tutto quanto presente nella legislazione degli ultimi anni sul regime dirigenziale, dal quale la 124 non si discosta in nulla. Proprio dall’omologazione dello status del dirigente pubblico a quello del privato deriva la scarsa attenzione dedicata ai processi di valutazione: alla base c’è anche la presa d’atto del fallimento dei processi di valutazione della performance così come sono stati in effetti praticati 24 nella stagione della privatizzazione del rapporto d’impiego apertasi con la legge n 29/93 e la conclusione (estremizzata ed errata) che i processi di valutazione basati su criteri e standard di misurazione siano inutili e superflui, rispetto al criterio “naturale” dell’intuitus personae che l’imprenditore privato (il mitico imprenditore privato) utilizza per valutare i propri collaboratori. C’è infine da ricordare che la tendenza al “ritorno al privato” scorre in modo assolutamente bipartisan fra le prevalenti sensibilità politiche della destra e della sinistra. Per chi ama e conosce dall’interno la pubblica amministrazione non rimane che lo strumento della testimonianza e della perseveranza nell’affermare che “No, non è assolutamente vero e corretto affermare che dirigenza privata e dirigenza pubblica hanno la stessa natura!”. Ferma restando l’utilità economica e sociale e il valore di entrambi i tipi di ruolo e di professionalità, le due dirigenze hanno titoli di legittimazione, funzioni e deontologie professionali completamente diverse (vedi qui l’intervento di Giuseppe Beato sul sito Eticapa.it). Data, infatti, per acquisita l’esigenza dei criteri dell’efficienza e della qualità nell’esercizio delle rispettive funzioni (ma ciò era già contemplato nel principio del buon andamento di cui all’art 97 della Carta costituzionale), il dirigente pubblico ha come compito fondamentale la tutela e la garanzia dei diritti della collettività (nell’arco delle competenze a lui conferite) ed opera con criteri deontologici orientati non al profitto (che nello Stato è un concetto che non ha spazio), ma alla valutazione equilibrata degli interessi in campo e alla conseguente operatività e processi di scelta secondo regole e procedure non di parte ma impersonali, così come previste dalla normativa della Repubblica. La legittimità dei comportamenti e degli atti del dirigente pubblico quindi non è solo orientata al rispetto delle regole comuni previste dal codice civile , ma soggiace al rispetto di tutte le altre regole pubbliche finalizzate all’amministrazione ordinata degli interessi generali della collettività. Non è secondaria o di poca rilevanza la differenza di orientamento alle regole che sussiste fra manager pubblici e manager privati, ma il nucleo principale della funzione pubblica svolta. Da questi assunti di fondo, ispirati non solo e non tanto dalla Costituzione, quanto, prima ancora, dal buon senso e dall’esperienza storica degli Stati occidentali, discendono conseguenze precise in ordine allo status del dirigente pubblico: l’ elemento principale è proprio l’opposto di ciò che la legislazione degli ultimi anni sta perseguendo: il diritto alla stabilità del posto e della funzione (salvo mancanze gravi o ripetute nel tempo che vanno evidentemente sanzionate) va garantito nella gestione ordinaria del regime della dirigenza, perché preserva l’esistenza e la base stessa dell’operatività di una amministrazione pubblica: l’orientamento alla tutela e alla salvaguardia dei principi stabiliti dalla legge per la gestione ordinata ed uguale della comunità dei cittadini e delle imprese. Al contrario, la precarizzazione dello status del dirigente pubblico – ( in tal senso anche fra le Osservazioni della Corte dei Conti in occasione dell’audizione al Senato sul ddl 1577/2014 il richiamo specifico: “L’abolizione della distinzione in fasce, l’ampliamento della platea degli interessati, la breve durata degli incarichi attribuiti, il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza dal rapporto di lavoro, costituiscono un insieme di elementi che potrebbero sacrificare l’autonomia dei dirigenti”) indebolisce la possibilità di tutelare l’interesse generale della collettività. 25 Va riconosciuto, tuttavia, dalla dirigenza pubblica di questo Paese il fatto che molte cose non funzionano nella pubblica Amministrazione e che, pertanto, risulta molto difficile in tale situazione difendere le ragioni di chi queste Amministrazioni gestisce. La dirigenza pubblica deve riconoscere come proprio il compito di rifiutare in blocco il sistema attuale delle “valutazioni burla” (vedi articolo su eticapa.it) e deve pretendere dalle forze politiche l’introduzione di criteri seri di valutazione del proprio operato, criteri fissati non dalle proprie amministrazioni (magari in cogestione con le rappresentanze sindacali oppure predisposte d’accordo con i politici di riferimento) ma da un’Autorità nazionale indipendente della valutazione alla quale facciano capo e riferimento organismi esterni di valutazione disseminati fra le varie Amministrazioni pubbliche, ma in niente dipendenti dalle stesse (ci riferiamo, per essere chiari, alle attuali modalità d’incarico e di pagamento delle spettanze economiche dei membri degli O.I.V. che sono a carico delle amministrazioni che da questi devono essere valutati: ciò è ridicolo e inaccettabile, perché è inevitabile in tal modo il manifestarsi di un effetto di “benevolenza” nei confronti di chi deve essere valutato). Solo l’introduzione in tutte le realtà costituenti l’Amministrazione pubblica italiana di severi criteri di valutazione della dirigenza potrà realmente incidere sull’efficienza e sulla qualità dei servizi pubblici. Esistono studi sterminati e molteplici esperienze in tal senso in tutti gli Stati avanzati. Ciò che manca è la volontà della politica e, riconosciamolo, anche la volontà convinta dei “valutandi”. E questo è un terribile autogoal per la dirigenza italiana tutta. In conclusione, la riforma immaginata dall’articolo 11 della 124 non modificherà in meglio un bel niente. Questo Governo – ma altri governi prima hanno fatto cose simili – si assume la responsabilità storica di precarizzare il rapporto di lavoro della dirigenza pubblica. Il risultato che inevitabilmente si produrrà sarà quello di indebolire il corpo amministrativo nel suo complesso e di renderlo ancora più permeabile di quanto non sia già oggi alle irregolarità, alle indebite interferenze, ai particolarismi che uccidono la convivenza ordinata di una comunità. La classe politica rende un pessimo servizio a sé stessa, peraltro: si veda in tal senso il pensiero di Giuseppe De Rita a proposito della “classe politica inerme senza una burocrazia forte” – vedi qui. In ultimo, ma nella realtà per primo, è il Paese a pagare il prezzo di queste scelte, la comunità intera dei cittadini e delle imprese.

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