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La costante dei conti pubblici italiani: stabilità nel rinvio

13.10.15

Massimo Bordignon e Francesco Daveri

La legge di stabilità 2016 è espansiva, almeno rispetto a quanto previsto nel Def. Cercare di sostenere la fiducia quando la crescita è ancora debole va bene. Ma l’Italia può permetterselo visto lo stato delle finanze pubbliche? Lo spazio fiscale a cui rinunciamo ora, potremmo rimpiangerlo domani.

Riequilibrio rimandato al futuro

Il governo sta per completare il lavoro per la presentazione della legge di stabilità. I dettagli non sono ancora tutti definiti, anche perché manca un’opinione conclusiva della Commissione sull’utilizzo delle varie clausole di flessibilità che l’Italia vuole invocare per far quadrare i conti. Ma le linee generali sono chiare e coerenti con quanto anticipato dalla Nota di aggiornamento al Def di settembre 2015.

Con la legge di stabilità 2016, il governo intende posticipare il raggiungimento dell’equilibrio strutturale di bilancio dal 2017 al 2018 e aumentare il deficit corrente rispetto al suo andamento tendenziale (quello che incorpora le conseguenze della legislazione vigente tradotte in numeri dai tecnici della Ragioneria dello Stato)portandolo dall’1,4 al 2,2 per cento nel 2016 e dallo zero all’1,1 per cento nel 2017.

Il riequilibrio dei conti e il rispetto dei vari requisiti europei viene cioè rimandato al futuro, tra l’altro con ipotesi ottimistiche sull’andamento del Pil e dell’inflazione 2017-18. Nel complesso, dunque, una finanziaria espansiva, almeno rispetto al percorso preventivato anche solo nel Def 2015 di aprile.

Nei dettagli, si annunciano i primi tagli di tasse di un piano triennale: sulla casa di abitazione e forse sull’Ires. Nella cucina del provvedimento è anche in preparazione un ulteriore intervento sulle tasse sul lavoro che però avrà solo effetti contabili. Il bonus di 80 euro sarà cioè trasformato in una detrazione di imposta. Dal punto di vista pratico per i contribuenti cambia poco o nulla. Ma ciò che l’anno scorso a Bruxelles è stato classificato come un aumento di spesa pubblica sarà così trasformato in una vera riduzione di imposta, anche per i criteri contabili europei.

Sul fonte della spesa pubblica, i tagli conseguenti all’auspicata risurrezione della spending review di Carlo Cottarelli sarebbero ridotti di entità rispetto ai dieci miliardi preventivati in precedenza, o almeno rinviati. Rimandata al futuro sarebbe, in particolare, la riduzione delle detrazioni e deduzioni, la miriade di esenzioni che creano voragini nella raccolta delle imposte ma – come oggi il bonus da 80 euro – sono classificate come sussidi, cioè come spese. Siccome ridurle sarebbe percepito come un aumento di tassazione da chi non potrebbe più dedurre dalla sua dichiarazione gli interessi sui mutui o le spese sanitarie, queste voci rimangono intoccabili, nonostante siano spesso ingiustificabili, soprattutto nel caso degli aiuti alle imprese. E anche i tagli rimanenti sono “aperti a discussione” per stessa ammissione del presidente del Consiglio. Ad esempio, quando si parla di ridurre le risorse disponibili per la spesa sanitaria da 113 a 112 miliardi per il 2016, va inteso che il miliardo in meno rispetto a quanto preventivato dalla Conferenza Stato-regioni implica comunque un aumento di spesa rispetto al livello di 110 miliardi del 2015. In più, si annunciano spese maggiori su alcuni comparti come quello del rinnovo dei contratti di lavoro (300 milioni di euro) e investimenti pubblici soprattutto al Sud. Solo l’anticipo della pensioni pare per ora rimandato al prossimo anno.

Manovra di sapore elettorale

Che dire? Dalla sua il governo ha che il paese sta appena uscendo da una recessione durata molti anni e che ha distrutto lavori e competenze. Cercare di sostenere la fiducia in un momento ancora delicato, evitando di infierire ulteriormente sul lato della finanza pubblica, ha i suoi meriti. La ripresa è tutt’altro che robusta, non riusciremo ad arrivare all’1 per cento neanche quest’anno e lo supereremo di poco il prossimo. Mancano soprattutto gli investimenti, e tutto quello che si può fare per incentivarli è utile. Ma non si sfugge all’impressione di una manovra di segno elettorale.

Sapore elettorale ha la scelta di concentrare tutti gli sforzi nel 2016, rimandando potenziali interventi al 2017 e agli anni seguenti. E il fatto che nel 2016 dovrebbero arrivare a compimento tutti i passaggi necessari (riforma costituzionale, referendum confermativo, nuovo sistema elettorale) per andare a nuove elezioni rafforza i sospetti. Del resto, è significativo che il premier, contro i consigli di tutti i suoi consulenti economici, abbia deciso di cavalcare l’abolizione dell’imposta sulla prima casa, tradizionale argomento del centro-destra. E solo la tirannia dei numeri lo ha costretto (per ora) a rinunciare all’ipotesi dell’anticipo delle pensioni rispetto a quanto previsto dalla legge Fornero, altro formidabile argomento delle opposizioni.

La fortuna aiuta gli audaci e quindi è possibile che il gioco del presidente del Consiglio abbia successo e che, una volta rieletto, con un parlamento meno ostile di quello attuale, riesca a far avanzare ulteriormente il paese sul piano della riforme. Il gioco è però rischioso. Non c’è dubbio che l’Europa abbia bisogno di una maggior spinta, anche di politica fiscale, per crescere, ma – ahimé – non è il nostro paese, con le finanze pubbliche che si ritrova, che può spingere la carretta. E mentre è importante che la domanda interna abbia ripreso a crescere nel 2015, è preoccupante che con essa a impennarsi siano state le importazioni più che il Pil, un segnale della ancora non insufficiente competitività del paese. Sul futuro si addensano poi nubi fosche (dal rallentamento degli emergenti alle politiche dei tassi americani) che potrebbero rendere davvero troppo ottimistiche le previsioni del governo.

Lo spazio fiscale a cui rinunciamo ora, potremmo rimpiangerlo in futuro.

 

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