21/11/2015 – Legge Severino: la sentenza della Consulta che rigetta il ricorso di de Magistris

Legge Severino: la sentenza della Consulta che rigetta il ricorso di de Magistris

Corte Costituzionale, sentenza 19/11/2015 n° 236

Pubblicato il 20/11/2015

 

Sono state depositate il 19 novembre 2015 le motivazioni della sentenza n. 236 con la quale la Corte Costituzionale ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lett. a) del decreto legislativo n. 235 del  2012 (cd. “Legge Severino”); la disposizione censurata prevede la sospensione di diritto dalle cariche per gli amministratori di enti locali che hanno riportato una condanna non definitiva per reati contro la P.A.

Com’è noto, la questione era stata sollevata dal TAR della Campania nel corso del giudizio promosso dal Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, contro il decreto di sospensione dalla carica emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Napoli a seguito della condanna pronunciata in primo grado dal Tribunale di Roma per il reato di abuso d’ufficio; la condanna era successiva alla data di entrata in vigore della “Legge Severino”, ma si riferiva a fatti commessi in epoca anteriore.

Secondo il TAR l’incostituzionalità della disposizione si basava su due presupposti: la natura sanzionatoria della sospensione e l’efficacia retroattiva dell’istituto.

La norma denunciata, nella parte in cui si applica retroattivamente anche nei casi di condanne non definitive, contrasterebbero con il diritto di elettorato passivo e con il principio generale di irretroattività delle norme aventi natura sanzionatoria; vi sarebbe «un eccessivo sbilanciamento a favore della salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto ad altri interessi costituzionali quali il diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma».

La Corte Costituzionale respinge tuttavia le censure di incostituzionalità; queste, in estrema sintesi, le argomentazioni dei giudici costituzionali:

1) sulla natura sanzionatoria della sospensione dalla carica, la Corte ricorda che più volte in passato, a proposito di analoghe previsioni contenute in leggi anteriori alla “Severino”, la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno escluso la natura sanzionatoria delle misure che precludono il mantenimento di determinate cariche pubbliche in conseguenza di condanne penali:

tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento: non si tratta, osserva la Corte, «di “irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo” (sentenza n. 295 del 1994), nell’ambito di quel potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore» (sentenza n. 25 del 2002). In sostanza il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva»;

la sospensione dalla carica risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio e costituisce misura sicuramente cautelare.

2) La Corte respinge anche le censure relative all’applicazione retroattiva della norma ai mandati in corso:

di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti contro la pubblica amministrazione susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica;

la misura tende ad evitare un «inquinamento dell’amministrazione e a garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera»;

queste esigenze sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore;

nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ha ritenuto che una condanna per abuso d’ufficio faccia sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto dalla carica, a tutela degli interessi sopra indicati;

il fatto che la norma renda applicabile la causa ostativa (condanna non definitiva per abuso d’ufficio) ai mandati in corso non è irragionevole; al contrario, osserva la Corte, anche l’applicazione immediata delle nuove cause ostative a chi sia stato eletto prima della sua entrata in vigore costituisce «ragionevole risposta all’esigenza alla quale la normativa stessa tende a corrispondere».

Per questi motivi la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata.

 

(Altalex, 20 novembre 2015)

 

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