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10.11.15
 
 

Le amministrazioni pubbliche possono attribuire incarichi a tempo determinato a esterni di comprovata esperienza. Non di rado però li affidano a loro stessi funzionari, senza concorso o verifica delle competenze. Nasce così il caso dei dirigenti delle agenzie fiscali. Pessime prassi e norme ad hoc.

I paradossi figli di un’aberrazione giuridica

Il caso dei dirigenti delle agenzie fiscali è l’emblema delle conseguenze che derivano da modi non lineari di intendere e applicare le regole.

Alla base della questione c’è un’aberrazione giuridica, che deriva da una prassi e da una legge sotto molti aspetti poco giustificabili e che ha portato alla sentenza della Corte costituzionale. La Consulta ha infatti sancito l’illegittimità della norma posta a reiterare ad libitum il conferimento di incarichi dirigenziali senza concorso a funzionari delle agenzie.

La prassi è quella di attribuire incarichi dirigenziali a funzionari del medesimo ente che li conferisce, senza sottoporli a concorsi selettivi e ponendoli in aspettativa. La norma, intervenuta successivamente all’instaurazione della prassi allo scopo di “sanarla” e anzi svilupparla, è l’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 165/2001 – il testo unico di disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Le aberrazioni sono almeno due. La prima: la norma consente alle amministrazioni pubbliche di affidare incarichi dirigenziali a soggetti esterni alla propria dotazione, previa verifica dell’assenza delle professionalità al proprio interno e a condizione che gli incaricati dispongano di comprovata e qualificatissima esperienza: infatti, destinatari degli incarichi “esterni” dovrebbero essere professori o ricercatori universitari, dirigenti di altre amministrazioni, magistrati, avvocati dello Stato, persone provenienti da esperienze dirigenziali del privato e comunque soggetti dotati di una speciale qualificazione, attestata anche da pubblicazioni scientifiche e titoli postuniversitari. Tuttavia, la medesima norma consente contestualmente di incaricare come “esterni” funzionari “interni”, spesso selezionati prescindendo del tutto dal possesso di quei titoli o di quello status che dovrebbero giustificare l’incarico. È evidente la contraddizione nel considerare “esterno” chi fa già parte dell’organico.

La seconda incongruenza è conseguenza della prima. Si ammette, infatti, che un medesimo dipendente conduca contemporaneamente due rapporti di lavoro con lo stesso datore: quello di funzionario, quiescente per effetto dell’aspettativa, e quello dirigenziale a tempo determinato. Si tratta di una situazione lavorativa paradossale, impensabile in qualsiasi organizzazione privata.

Il tutto produce un ulteriore paradosso: i circa quattrocento funzionari ai quali è stato revocato l’incarico dirigenziale che promuovono ricorsi davanti al giudice del lavoro, chiedendo il riconoscimento della conversione dei loro incarichi a tempo determinato in assunzione a tempo indeterminato con la qualifica dirigenziale, lamentando la precarizzazione derivante dall’inanellamento durato anni e anni (la prassi si prolunga dal 2001) degli incarichi a contratto ricevuti.

È comprensibile il tentativo di tutela giudiziale degli interessati, ma è forse il risvolto più incongruo dell’intera vicenda. Sui media molte volte si qualificano gli interessati come “dirigenti degradati a funzionari”. Le cose non stanno affatto così. La normativa dimostra il contrario: si tratta di funzionari illegittimamente (secondo Tar Lazio, Consiglio di Stato e Corte costituzionale) “promossi” a dirigenti, richiamati a svolgere le loro mansioni da funzionari, che è la loro qualifica di appartenenza.

Sui ricorsi deciderà ovviamente il giudice. C’è, tuttavia, da rilevare che proprio il sistema normativo descritto prima impedisce di per sé la conversione dei contratti a termine in tempo indeterminato. Da un lato, perché si tratta di contratti in totale deroga alla disciplina privatistica del tempo determinato, anche come durata, che può arrivare fino ai cinque anni. Dall’altro lato, perché nella pubblica amministrazione la conversione dei contratti a termine è esplicitamente vietata proprio dal Dlgs 165/2001. E anche se fosse applicabile integralmente (cosa che non è) la disciplina privatistica del tempo determinato (oggi attestata nel decreto legislativo 81/2015), ai dirigenti non si estende la tutela “reale” della conversione dei contratti a termine inanellati.

L’insostenibile soluzione ad hoc

I ricorsi presentati (o paventati) hanno l’evidente scopo di mettere sotto pressione il governo e i vertici delle agenzie, per una soluzione ad hoc, che in un modo o nell’altro, se adottata, non potrà che essere una sanatoria.

A tutti è chiaro, però, la difficoltà di percorrere questa strada, una volta che la Consulta si sia pronunciata. Quel che a questo punto è ingiustificabile è che presso ministeri, regioni ed enti locali vi siano migliaia e migliaia di funzionari incaricati come dirigenti esattamente nello stesso modo con cui sono stati cooptati i funzionari delle agenzie, senza che nessuno abbia nulla da eccepire. Il che non aiuta a fornire una base giuridica alle pretese dei funzionari delle agenzie, ma certamente contribuisce a esasperarne la posizione. E l’aberrazione giuridica si moltiplica ed espande.

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