03.07.2015 – I vizi della decentrata e la loro sanabilità nella riflessione di L. Oliveri

I vizi della decentrata e la loro sanabilità nella riflessione di L. Oliveri

 

«L’impazienza pretende l’impossibile, cioè il raggiungimento della mèta senza i mezzi » (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito)

Segnalo il, come al solito, acuto articolo di oggi di L. Oliveri, sulla sanabilità dei vizi della contrattazione decentrata, comparso in:http://www.leggioggi.it/2015/07/01/sanatoria-dei-contratti-decentrati-occorre-correggere-tiro/#comment-1280044

Alle lucide riflessioni del noto articolista, mi sono permesso di formulare questo velocissimo commento:

Apprezzo la consueta acribia con cui Oliveri affronta problematiche così delicate e complesse. Ma, se mi è consentito di muovere un appunto alle sue pur lucide riflessioni, è che esse soffrono della sindrome della mosca chiusa nella bottiglia. Ossia esse si muovono nell’orizzonte del “dato”. Diceva Einstein, con aforisma per nulla geniale ma piuttosto efficace, che se si vuole risolvere realmente un problema bisogna uscire fuori dalla logica che ha creato il problema stesso. Per dirla con Feyerabend occorre un cambio di paradigma. Non bastano allora le 8 proposte (da a ad h) avanzate da Oliveri. Esse si muovono nel medesimo orizzonte culturale e tecnico che ha generato il problema e che rischia di riprodurlo all’infinito se non si rimuovono gli agenti patogeni alla radice. Non basta invocare regole più precise sui recuperi o sulla loro imputazione. Neppure pare opportuno invocare la creazione di ulteriori organismi certificatori, che – per lo più, specie se creati in maniera raffazzonata e “senza ulteriori oneri per la finanza pubblica”, come usa di recente – si limiterebbero a ratificare l’esistente e di ratificatori ne abbiamo sin troppi.

Trovo forse addirittura tautologica la proposta di cui alla lettera g), dove si parla di “previsione di premi ed incentivi per gli enti in regola con le norme sulla contrattazione”…

Il problema, a mio sommesso avviso, sono proprie le norme sulla contrattazione decentrata che non funzionano. Esse sono il vero germe patogeno, come dimostra l’esperienza ormai ultra ventennale che si è consolidata a tutte le latitudini (da Milano a Roma a Napoli, senza dimenticare Firenze e tutti gli altri enti a ruota).

 Esistono ormai repertori di sentenze che censurano le famose “erogazioni a pioggia”. Ma evidentemente la “domanda” insopprimibile del sistema è quella e non vale il radicalismo velleitario di un legislatore che continua a minacciare sanzioni e regole che servono solo ad aumentare la cacofonia dell’ordinamento. Bisognerebbe qualche volta ricordare un vecchio monito, risalente ai romani (che di diritto erano maestri), secondo cui: “ex facto oritur ius”.

In questo contesto la corte dei conti e gli ispettori ministeriali affondano come la lama nel burro ma il legalitarismo declamato non risolve i problemi, semmai li acuisce, se non altro perché gli interventi sanzionatori rischiano di essere “occasionali”, secondo il classico modello della roulette che, a sua volta, favorisce la classe dei furbi e dei dritti. E soprattutto ormai la contrattazione decentrata finisce per assorbire un tasso di attività e di impegno amministrativo esagerati rispetto ai frutti che essa dovrebbe produrre e che è effettivamente in grado di produrre.  E’ una operazione comunque in perdita per la PA, per i costi diretti e, soprattutto, indiretti: contenziosi più o meno latenti, risentimenti (ricordiamo, tra i tanti episodi, l’aggressione subita da Iudicello lo scorso anno), doglianze, tensioni profonde e paralizzanti nei luoghi di lavoro, trattative estenuanti…. Insomma, una giostra non soltanto insensata ma spesso anche dannosa.

Occorre prendere atto, senza ipocrisie, che la contrattazione decentrata vive di tante contraddizioni, alcune insanabili, di cui provo a richiamare qui solo le più generali e clamorose.

La definizione degli obiettivi resta un oggetto vago ed indeterminato, nonostante la mole sempre più sterminata di piani performance spesso inverosimili, grotteschi e non di rado anche in rapporto di contraddizione con gli strumenti di programmazione (contabili in primo luogo). La definizione degli obiettivi in sede locale può avere effetti distorsivi o meramente adattivi rispetto alla situazione esistente. In gran parte degli enti (e sicuramente in quelli grandissimi ed in quelli piccoli) non è facile (per motivi opposti) sintetizzare in poche variabili l’infinita gamma di opzioni possibili. Va poi soggiunto che la definizione degli obiettivi, per essere seria ed attendibile, dovrebbe avvenire in un quadro generale anche esso serio ed attendibile laddove sappiamo che, dal livello nazionale sino al comune di vattelappesca, ormai si naviga a vista per l’assoluta incertezza di risorse e di norme. Oliveri documenta ogni giorno di quale folle situazione di incertezza regni sulle province, non troppo diversa, (ahinoi) è la situazione nei e dei comuni. Ed in assenza di una cornice di programmazione generale mi pare assurdo finanche immaginare che si possa programmare a cascata dei seri obiettivi per la contrattazione decentrata. Insomma, per lo più si partecipa ad un grande gioco dell’ipocrisia.

La definizione degli strumenti di misurazione delle performance resta, se possibile, ancora più vaga e non solo perché essa discende direttamente dalla definizione degli obiettivi (che come visto latita) ma anche perché la riduzione degli output amministrativi a ciò che si può misurare oggettivamente (il numero dei certificati rilasciati piuttosto che delle scia controllate) ha, a sua volta, effetti distorsivi su quanto accade o, ben che vada, meramente rilevativi. Immaginare criteri di valutazione “qualitativi” implica margini di opinabilità che la cultura media della società italiana (non solo della PA quindi) non tollera e che finisce (finirebbe) solo per alimentare la cultura del sospetto ed il contenzioso a tutti i livelli.

Per altro verso, la contrattazione decentrata dovrebbe esaltare l’autonomia “aziendale” e supporre misure che valorizzino anche le mille situazione teratologiche in forza delle quali localmente tirano avanti le amministrazioni. Ma l’ipocrisia del politically correct ed la cultura del sospetto impone vincoli che, di fatto,  snaturano e finanche rinnegano la vera essenza della decentrata, per cui si è creato un mostro che genera situazioni patologiche.

Quando, come rilevava – in maniera del tutto scontata – G. Trovati sul Sole del 30 giugno scorso, le situazioni anomale rinviano ad una “prassi diffusa a macchia d’olio” è inutile insistere nella proposta di correttivi che semplicemente non possono correggere. Va preso atto che è  il modello  ad aver fallito e bisogna azzerarlo per ripartire daccapo.

 La contrattazione nazionale nel pubblico impiego dovrebbe prevedere quasi tutto per le oggettive caratteristiche delle funzioni pubbliche che  – al di là di tante mistificazioni, non solo linguistiche – non rispondono al “mercato”, almeno sino a che restano in vigore gli artt. 97 e 98 della vigente Carta . Il resto, pochissime cose, dovrebbe essere lasciato veramente all’autonomia locale ma senza paletti che negano le premesse stessa della decentrata. Semmai bisognerebbe imporre su questi “pochissimi” e ben determinati (determinabili) e mirati fondi, dei seri e motivati obblighi di rendicontazione. Gli occhiuti rigori di ARAN e Corte dei Conti e la minaccia di sanzioni non sono serviti a risolvere alcun problema se non ad appesantire la già insopportabile elefantiasi del sistema e ad esaltare la cultura paralizzante del sospetto. Dai piani delle performance ci guardi di Dio.

 

 

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