18.06.2015 – Disastro province: la stampa nazionale sempre più consapevole

Disastro province: la stampa nazionale sempre più consapevole

I media nazionali, sia pure con imperdonabile ritardi, stanno cominciando a rendersi conto di quanto devastante e soprattutto inutile, anzi dannosa, sia la riforma delle province avviata dal Ministro Delrio e fortemente peggiorata, tanto da non poter nemmeno essere attuata, dalla legge 190/2015.

Su Italia Oggi del 18 giugno 2015 è il turno di Tino Oldani cambiare idea sugli effetti della riforma e dare atto dei sui effetti deleteri. Riportiamo alcuni stralci dell’analisi dell’OldanIi: “I numeri parlano chiaro: l’ abolizione delle Province, sbandierata come un capolavoro politico di riduzione della spesa pubblica, si sta rivelando l’ esatto contrario. Ovvero: creazione di nuovi enti intermedi, spese in aumento, più dirigenti e nessuna riduzione di personale burocratico, mentre l’ unico punto a favore è un piccolo risparmio dovuto all’ abolizione dei tremila consiglieri provinciali (ora non più rieletti) e dei loro emolumenti. Briciole. La cartina di tornasole di questo autogoal, sbandierato da Matteo Renzi come una riforma strutturale, è quanto sta accadendo in Friuli Venezia Giulia, dove, dal primo luglio, entrerà in vigore la riforma regionale che abolisce le quattro province, facendo proprie le indicazioni della legge firmata da Graziano Delrio”.

La premessa dice già quasi tutto. Ma il dettaglio dell’analisi è ancora pià impietoso: “Circa un anno fa, quando il Friuli varò la riforma delle sue province (Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone), la Serracchiani disse che si trattava di un esempio di «efficientamento e risparmio dei costi della politica». E il Pd friulano ha ripetuto per mesi che la «riforma Serracchiani» era un modello da imitare per le altre Regioni. Ma i risultati, come documenta il sito scenarieconomici.it, dicono ben altro.

Al posto delle quattro province in via di abolizione (per la cancellazione definitiva bisogna cambiare la Costituzione, ma questa riforma è ferma al Senato), in Friuli si stanno creando ben 17 mini-province, poiché altro non sono le Unioni di Comuni che dovranno svolgere una parte delle funzioni svolte in passato dalle province. Ciascuna Unione di Comuni avrà un proprio direttore generale: dunque, 17 direttori generali nuovi di zecca, con quel che segue in termini di nuovi costi e di clientelismo politico. Ma questo è solo l’ inizio. Dal primo luglio, gli uffici del Sevizio Lavoro delle ex Province, con i loro 300 addetti, passeranno in carico alla Regione Friuli. I dipendenti provinciali diventeranno così regionali, con immediato vantaggi retributivi, primo fra tutti la quattordicesima mensilità, che gli impiegati provinciali non avevano. Costo stimato: un milione di euro di spesa in più. Ma non è tutto. Dei 1.259 dipendenti provinciali, si prevede che 681 passeranno in carico alla Regione, mentre gli altri saranno redistribuiti tra i ComuniIl vantaggio di passare in Regione è notevole: significa avere un aumento di stipendio assicurato. La Cgia di Mestre ha calcolato che il costo medio di un dipendente della Regione Friuli è di 65.164 euro l’ anno, contro i 45.892 euro di un provinciale. Ergo, dice la Cgia di Mestre, il costo del lavoro degli attuali dipendenti provinciali salirà del 15%, con tanti saluti all’ efficientamento e ai risparmi di spesa”.

E cosa succederà alle funzioni di competenza delle province? Oldani riporta stime sempre della Cgia di Mestre in relazione, ad esempio, alle attività di manutenzione delle strade provinciali: “D’ ora in poi, se ne faranno carico le Regioni. Ciò è previsto anche in Friuli, dove i costi di manutenzione, invece di diminuire, saliranno, e di parecchio. La solita Cgia di Mestre ha calcolato che il costo di gestione delle strade da parte delle province friulane è stato piuttosto oculato, in media 16.279 euro per chilometro, mentre il costo medio regionale per lo stesso servizio è di 59.488 euro, più del triplo. Alla fine, salvo ulteriori sorprese, la Cgia prevede che manutenzione delle strade friulane verrà a costare 95 milioni di euro in più all’ anno.

Altri rincari, non ancora quantificati, sono previsti anche per l’ istruzione (la manutenzione degli edifici scolastici dei licei e degli istituti superiori spettava alle province) e per la motorizzazione civile. Se questo accade in Friuli, che nonostante tutto è considerata una Regione virtuosa sul piano della spesa, è facile immaginare cosa accadrà nelle Regioni che già ora hanno fama di manica larga e di predisposizione allo sperpero, soprattutto nel Sud”.

Infine, la chiosa, che rileva ciò che chi scrive evidenzia ormai da anni: “Il costo totale delle Province, fino a un anno fa, era di 10 miliardi l’ anno (1,27% della spesa pubblica). Il premier Renzi assicurò che la loro abolizione avrebbe consentito di risparmiare un miliardo, grazie al taglio di tremila consiglieri provinciali e delle loro indennità. Ma l’ Upi (Unione delle province) lo corresse, precisando che al massimo si sarebbero risparmiati 500 milioni. Risparmi destinati a trasformarsi ora in maggiori spese, come è accaduto in passato ad altre riforme della sinistra, sbandierate come modello di efficienza, mentre erano solo un trucco per fare nuove nomine, nuove spese, e avere così più potere”.

Non c’è molto da commentare, se non per due riflessioni. L’istituto della quattordicesima non esiste nella contrattazione collettiva nazionale vigente nelle regioni a statuto ordinario. E’ una peculiarità, di discutibile legittimità costituzionale, della regione Friuli Venezia Giulia, ove vige non per effetto della contrattazione, bensì di una norma di legge, l’articolo 10 della legge regionale 33/1987, continuamente “confermata” dai contratti regionali collettivi, in chiarissimo contrasto con l’impostazione del d.lgs 165/2001. Di fatto, dunque, il rischio che il passaggio di dipendenti provinciali alle regioni comporti un aumento della spesa è questione che concerne il Friuli Venezia Giulia.

In quanto al risparmio di 500 milioni che si afferma essere stato stimato dall’Upi come beneficio della legge Delrio, è un dato non corretto. La spesa per indennità e gettoni di presenza presso le province prima della vigenza della legge 56/2014 ammontava a 87 milioni di euro, come ha certificato la Corte dei conti nell’audizione del novembre 2013 in Parlamento, in merito alla riforma. Tale spesa, se non fosse stata approvata la sciagurata riforma Delrio, sarebbe scesa a 35 milioni, per effetto del taglio al numero dei consiglieri provinciali disposto dalla riforma Tremonti del 2011. Dunque, si tratta di cifre lontanissime dai 500 milioni.

La verità è che la riforma delle province non ha prodotto alcun risparmio, né è stata utile per ridurre le tasse. Al contrario, è molto probabile che le città metropolitane otterranno nuovi balzelli, come la tassa di imbarco su aerei o navi, e che gli enti ai quali saranno attribuite le funzioni provinciali, regioni e comuni, alzeranno di molto le aliquote dei propri tributi.

Infatti, lo Stato con la legge 190/2014 impone alle province il prelievo forzoso di 3 miliardi a regime: il che impedisce di sostenere finanziariamente con i soldi delle province (e come suggerirebbero logica e articolo 119 della Costituzione) il costo delle funzioni che dovessero passare a regioni e comuni, con un “buco” da finanziare di circa 1,5 miliardi, 700 dei quali solo da destinare ai servizi per il lavoro.

Infine, che la riforma delle province come malamente impostata dalla combinazione letale di legge Delrio e legge 190/2014 fosse un disastro lo aveva evidenziato mesi prima la dissennata riforma avviata dalla regione Sicilia, in alcuni punti, quello della proliferazione di enti ed entucoli a mo’ di “mini province”. Bastava, dunque, guardare a quanto di disastroso aveva deciso la Sicilia, leggere con attenzione le indicazioni della Corte dei conti, fare meglio i calcoli, per andare in una direzione di riforma diametralmente opposta.

Non si è inteso farlo. Ma, quel che è più rimarchevole, non pare vi sia alcuna intenzione di tornare indietro e porre rimedio al disastro, rivedendo le tante, troppe, quasi tutte, norme sbagliate della riforma. In fondo, sbagliare è umano, anche per il legislatore. Che avrebbe, tuttavia, il dovere di correggere il tiro delle proprie scelte sbagliate. In gioco ci sono gli interessi collettivi, non l’orgoglio personale o della maggioranza.

 

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