29.04.2015 – La vera «trasparenza» è quella sulle responsabilità

La vera «trasparenza» è quella sulle responsabilità

di Francesco Verbaro

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Uno degli argomenti oggetto delle “riforme” della Pa degli ultimi 20 anni ha riguardato il rapporto tra politica e dirigenza. Un tema solo apparentemente tecnico, che riprende un argomento classico della politologia quale lo scontro tra élites, ma che oggi investe un tema di grande attualità quale la capacità decisionale dei governi. Così anche la riforma della Pa del Governo in carica dedica ampio spazio con l’articolo 9 del Ddl delega alla riforma della dirigenza pubblica. A dispetto del titolo del provvedimento, sembra una riforma soprattutto della dirigenza e non solo perché al dipartimento della Funzione pubblica stanno lavorando già solo a questo schema di decreto, ma perché l’articolo sulla dirigenza è quello che contiene i principi e i criteri di delega forse più precisi. Altri temi importanti come una migliore disciplina dei rapporti di lavoro, il recepimento di alcuni istituti del jobs act, la riorganizzazione di alcuni settori della Pa sono trascurati nel disegno di legge delega. Un errore.

Le conseguenze

Tutto ciò avrà riflessi anche sul processo di spending review, che ha bisogno di uno strumentario normativo per consentire risparmi strutturali, che possono derivare da un ridisegno del pubblico e non da tagli lineari. Si torna invece, tra l’indifferenza dell’opinione pubblica che vorrebbe “semplicemente” meno amministrazione pubblica ma che funzionasse meglio, sul tema del rapporto tra dirigenza e politica. Tante le riforme e le modifiche intervenute dal 1998 ad oggi in materia e tante le sentenze della Corte costituzionale, a testimonianza di un confronto scontro tra poteri. Il modello di governo e di governance è rimasto però negli anni quello disegnato negli anni ’90, molto ambizioso per la cultura politica e amministrativa italiana. Un modello che di fatto non si è mai realizzato, anche per il contemporaneo processo di decentramento, che avrebbe richiesto la presenza di una diffusa classe dirigente politica e amministrativa sul territorio. In generale la politica non è riuscita a svolgere la funzione di governo assegnata dalla legge attraverso la programmazione, l’assegnazione degli obiettivi e delle risorse e quindi successivamente la valutazione, ma ha preferito intervenire direttamente sulla gestione; la dirigenza ha interpretato il proprio ruolo in termini tradizionali e quindi più come fedele esecutrice delle norme che come “management”, capace di migliorare l’efficienza e di perseguire gli obiettivi, almeno quelli macro fissati dal legislatore.

Alla base dello «scontro» 

Nello scontro tra politica e dirigenza, la politica si è presentata come rappresentante della flessibilità e dell’interesse collettivo, mentre la burocrazia si è ritagliata via via il ruolo di rappresentante della legalità. Un’operazione che ha portato a contrapporre e non, come si dovrebbe, a far coesistere “buon andamento” e “imparzialità”. Eppure il processo decisionale delle politiche pubbliche funziona se vi è cooperazione e condivisione delle regole e dei valori tra politica e amministrazione. Il “fallimento” della democrazia e la debolezza degli attuali poteri esecutivi discendono in Italia anche da questa contrapposizione presente nel processo decisionale. L’incertezza sui confini e sui contenuti delle due responsabilità, politica e amministrativa, ha reso il processo decisionale debole, poco trasparente, ma soprattutto inefficace. Il tema in agenda dovrebbe essere quindi oggi quello di rendere efficace ed efficiente il processo decisionale pubblico.

Chi paga?

Il rischio, deve essere chiaro, è la morte per inutilità del settore pubblico. Le proposte contenute nel Ddl delega, il ruolo unico, l’eliminazione della distinzione in fasce, la durata breve degli incarichi, il principio di rotazione, la flessibilità e la piena mobilità, creeranno un vero mercato del lavoro della dirigenza pubblica, di cui si percepiscono però più i rischi che i benefici. Quale mercato della dirigenza prevarrà? Quello meritocratico o quello politico? Il dubbio che prevalga quest’ultimo, date le esperienze degli ultimi anni, è forte. Con questa riforma la responsabilità della politica sarà evidente e maggiore. Essa non avrà più alibi e non avrà più scuse circa le rigidità presenti nello scegliere i dirigenti e nel poterli rimuovere. Una libertà piena alla quale dovrebbe però corrispondere una piena responsabilità. Per l’attività di programmazione, di assegnazione degli obiettivi, di scelta dei dirigenti, di valutazione e remunerazione degli stessi, la politica non è mai stata valutata e sanzionata. Troppo distante e poco attento a questi aspetti è l’appuntamento elettorale. Se città e regioni vanno in default, se opere pubbliche non vengono realizzate o crollano, se i servizi per il lavoro non funzionano, se i fondi comunitari non si spendono da anni, se i territori e l’ambiente da anni non vengono difesi, ma al contempo paghiamo numerose strutture che si occupano formalmente di questo, di chi è la responsabilità? Forse questa riforma potrebbe avere l’ambizione di provare a dare una risposta a questa domanda. Rendere chiaro il governo della “cosa pubblica” non significa pubblicare una marea di atti sui siti web, ma prima ancora rendere chiare e distinte le responsabilità.

 

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