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Segretari comunali aboliti e il “mostro” del “dirigente apicale”

di Luigi Oliveri

 

L’articolo 11, lettera b), della legge delega di riforma della p.a. n. 124 del 7.8.2015 al numero 4) si dilunga sulla disciplina dell’abolizione dei segretari comunali, già preannunciata nella famosa lettera inviata dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della funzione pubblica ai dipendenti pubblici, nella primavera del 2014.

L’intenzione di abolire la figura dei segretari comunali è stata presentata ed evidentemente è ancora considerata come una “novità” ed una “svolta” allo scopo, ovviamente, di rendere più efficiente e dinamica l’amministrazione.

A ben vedere, tuttavia, le cose non stanno affatto così: infatti, si presenta come novità un’idea che fa tornare le lancette degli orologi al 1994, quando da pochi anni era stato modificato l’ordinamento delle autonomie locali e si era iniziato a scalfire il sistema dei controlli esterni: eliminati quelli di merito, ridotti quelli di legittimità dei Co.re.co. si era attribuita ai segretari comunali la funzione di esprimere un parere preventivo di legittimità sulle proposte dei provvedimenti, che ancora in larga misura erano adottati da consigli, giunte e sindaci.

Molti comuni, al Nord, a quell’epoca, furono conquistati dalla Lega. La quale si presentava, come partito “rivoluzionario” e tra le sue idee di rivoluzione, molte delle quali si ritrovano oggi esattamente identiche, c’era proprio quella di abolire i segretari comunali, visti come rappresentanti del “centralismo” e oppositori

Cominciò una campagna fitta, dura, continua, contro la figura dei segretari comunali e contro la dirigenza pubblica in generale, per la verità non molto dissimile da quella che si sta vivendo a distanza di 20 anni (a proposito di “novità” e “rivoluzione”).

Finché, nel 1996, la Lega non propose un referendum per ottenere appunto l’abolizione dei segretari comunali. Finì con la legge 127/1997 che “salvò” i segretari comunali, ma a duro prezzo. Nei comuni si consentì l’istituzione della figura del direttore generale, che aveva il pregio di poter essere scelto intuitu personae; i segretari vennero privati dei pareri preventivi di legittimità e della direzione degli altri dirigenti o funzionari e sottoposti ad uno spoil system estremamente spinto, ancora inspiegabilmente in piedi, nonostante la consolidata giurisprudenza costituzionale, maturata dopo la sentenza della Consulta n. 103/2007, manifestamente contraria a sistemi di decadenza automatica degli incarichi ed alla privazione di autonomia della dirigenza pubblica.

Dunque, la previsione della legge delega volta ad eliminare la figura dei segretari comunali, appare tutt’altro che idea nuova ed originale: sarebbe solo il ripescaggio di una “rivoluzione” di 20 anni fa, voluta da una forza politica centrifuga e, paradossalmente, attuata in una fase di revisione della Costituzione che modifica profondamente il Titolo V, con una marcia indietro evidente e poderosa rispetto al “federalismo” sciaguratamente introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, per altro esattamente dalla medesima forza politica che oggi vuole rivedere l’assetto costituzionale.

Ma quello che davvero spicca non è tanto la ripresa, dopo due decenni, di un’idea maturata nell’ambito di una forza politica che, oggi, viene considerata fieramente di opposizione, quanto piuttosto il fatto di considerare rivoluzionario l’ulteriore colpo agli ormai flebili sistemi di controllo della legalità nelle amministrazioni locali.

È davvero curioso che da diversi mesi si concentri molto l’attenzione sui costi della corruzione e dell’illegalità, sulle distorsioni alla concorrenza che ne derivano, sulle moltissime altre conseguenze negative che comportano per il convivere civile, mentre, nello stesso tempo, si faccia di tutto per rendere sostanzialmente inoperanti gli strumenti di prevenzione.

Il segretario comunale, proprio perché dipende solo funzionalmente dai sindaci, nonostante l’intenso e inaccettabile spoil system cui è soggetto, è stato visto non a caso dal legislatore come terminale principale dell’azione di garanzia della legalità. Prima con la riforma dei controlli interni di regolarità amministrativa, dei quali il segretario è tornato ad essere il fulcro; poi proprio con l’attribuzione, ex lege, al segretario comunale della funzione di responsabile anticorruzione, come previsto dalla legge 190/2012.

Vista la giurisprudenza costituzionale ricordata prima, ci si sarebbe aspettati una riforma normativa che eliminasse il sistema dello spoil system dei segretari. La “rivoluzione”, invece, vuole che siano eliminati i segretari comunali proprio.

Una scelta oggettivamente molto discutibile. E miope. Non tiene conto, infatti, non solo del ruolo che i segretari hanno assunto proprio in questi mesi, nei quali hanno elaborato i piani triennali anticorruzione, al via dal gennaio 2014. Ma, soprattutto, perché i segretari comunali sono da decenni e decenni il fulcro, la base operativa soprattutto dei tanti piccoli comuni, presso i quali hanno operato assicurando un livello molto elevato di una professionalità accertata storicamente mediante procedure selettive concorsuali molto rigorose.

Eliminare i segretari comunali significa andare esattamente al contrario della direzione che a parole la riforma “rivoluzionaria” indica: valorizzare, cioè, il merito, la capacità, la competenza della dirigenza.

La figura del segretario comunale è una delle, storicamente, più qualificate e con maggiore estensione di competenza tra quelle che si trovano nell’ordinamento pubblico.

Eliminare i segretari comunali non ha alcuna relazione né con la “rivoluzione” della p.a., né con la valorizzazione del merito, ma, invece, molto a che fare con l’ulteriore riduzione delle indispensabili funzioni di controllo, tanto più necessarie, negli enti locali, dopo il micidiale “federalismo”, che ha incrementato ruolo e funzioni in particolare di regioni e comuni.

Una figura come il segretario comunale è fondamentale, per esempio, non solo per assicurare competenza nell’applicazione dell’anticorruzione, ma anche per contribuire a gestire il delicatissimo passaggio della riforma Delrio, con il tourbillon di funzioni e competenze che passeranno come schegge impazzite dalle province alle città metropolitane ai comuni alle unioni di comuni.

L’ordinamento degli enti locali va incontro ad un periodo di fortissimo stress organizzativo, nel quale la presenza di una figura competente ed autonoma risulta quanto mai decisiva.

La volontà ostentata di farne a meno, evidenzia l’insofferenza alla pur ineliminabile necessità di rispettare le regole e la tendenza all’improvvisazione non solo nella predisposizione, ma anche nell’attuazione delle riforme.

Eliminando la figura del segretario comunale, non si semplifica nulla, non si ottiene alcuna razionalizzazione, né risparmio. Semplicemente, si rinuncia ad uno strumento razionale di auto organizzazione e controllo, dando un segnale estremamente negativo sul tema del rispetto delle regole, finendo per minare ulteriormente la già non eccessiva fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

A cosa realmente serva l’abolizione dei segretari comunali è tutto da capire. Sburocratizzare? I segretari comunali non hanno alcun rilievo ai fini degli appesantimenti burocratici. Sono una figura di coordinamento e garanzia e, anzi, la loro presenza consente di snellire, controllare, sostituirsi per i ritardi e prevenirli, organizzare al meglio.

Risparmiare denaro pubblico? Non si prevede il licenziamento dei segretari comunali, che gradualmente transiteranno nel ruolo dei dirigenti degli enti locali: dunque, non vi sono immediati o rilevabili effetti di risparmio.

Rilanciare il Pil e l’economia? Questo effetto, che sarebbe certamente auspicabile e ben venuto, purtroppo non si evince neanche dall’intero disegno di riforma, figurarsi quanto possa essere connesso all’abolizione di una figura come i segretari comunali.

È un’abolizione, quella dei segretari comunali, che potrebbe apparire, nella sostanza, fine a se stessa. Che, tuttavia, per come impostata – almeno sulla base dei testi oggi disponibili – espone, per l’ennesima volta, al caos organizzativo ed interpretativo.

Intanto, la legge delega ha introdotto di per sé un sistema complicato di superamento della figura, istituendo un periodo transitorio di tre anni che certo non giova alla chiarezza del sistema. In ogni caso, abolita a regime la figura, non è per nulla semplice comprendere che fine facciano le funzioni svolte. L’unica cosa sicura è che esse, tuttavia, non possono estinguersi.

Le funzioni del segretario espressamente enunciate dal d.lgs. 267/2000 e dalla legge 190/2012 sono molteplici:

  1. compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti;
  2. sovrintendenza allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinamento dell’attività, salvo quando ai sensi e per gli effetti del comma 1 dell’articolo 108 il sindaco e il presidente della provincia abbiano nominato il direttore generale;
  3.  partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e cura della verbalizzazione;
  4. espressione del parere di regolarità tecnica, nel caso in cui l’ente non abbia responsabili dei servizi;
  5. possibilità di rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell’interesse dell’ente;
  6. direzione del controllo di regolarità amministrativa successiva;
  7. esercita le funzioni di direttore generale nell’ipotesi prevista dall’articolo 108, comma 4;
  8. esercizio della funzione di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza;
  9. possibilità di esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia.

Nessuna delle funzioni sopra elencate appare rinunciabile (salvo la n. 9, comunque fondamentale in particolare nei comuni di piccole dimensioni).

L’eliminazione della figura del segretario comunale, comporta una sorta di “diaspora” delle sue funzioni tipiche, le quali potranno essere, dunque, “distribuite” tra più incarichi dirigenziali.

L’effetto concreto, dunque, della cancellazione del segretario consiste proprio nell’eliminazione della figura in quanto tale, sicché non vi sarà più una linea di continuità “status-funzioni”. I comuni potranno istituire un incarico dirigenziale simile a quello del segretario, oppure ripartirne le funzioni tra incarichi vari.

Guardando al dettaglio della previsione dell’articolo 11, lettera b), n. 4) della legge delega, si evidenzia che il superamento della figura del segretario comunale avverrà mediante l’attribuzione alla dirigenza locale “dei compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa”. Si conferma, dunque, la scissione tra lo svolgimento di queste funzioni e il suo ricollegamento ad una particolare figura professionale, destinata ad essere estinta. L’attuazione dell’indirizzo politico, il coordinamento delle attività amministrative ed il controllo di legalità saranno contenuti di possibili incarichi dirigenziali, attribuibili al complesso della dirigenza pubblica e non più appannaggio solo della figura professionale dei segretari comunali.

Il numero 4) in commento esprime il criterio del “mantenimento della funzione rogante in capo ai dirigenti apicali aventi i prescritti requisiti”.

Si tratta di una previsione, introdotta da una serie di emendamenti nel corso del dibattito alla Camera dei deputati, che scatena una serie di problemi operativi di cui dovrà farsi carico il legislatore delegato. La disposizione intende mantenere lo svolgimento della funzione rogante in capo a quel dirigente amministrativo che sarà destinatario dell’incarico di svolgere le funzioni un tempo riservate al segretario comunale, oggi scisse dalla figura del segretario e, dunque, attribuibili a qualsiasi dirigente facente parte dell’albo nazionale.

Per lo svolgimento della funzione rogante, tuttavia, i dirigenti dovranno disporre di “prescritti requisiti”, che la legge delega non indica: sarà, quindi, compito del legislatore delegato indicare quali particolari requisiti dovranno caratterizzare i dirigenti dell’albo ai quali sarà possibile attribuire tale funzione. Si può presumere il possesso di specifici titoli di studio (laurea in giurisprudenza o altre, come quelle in economia e commercio o scienze politiche, sin qui sempre ammesse per la partecipazione ai concorsi per segretario comunale), nonché un’esperienza nello svolgimento della funzione rogante, o il possesso di particolari requisiti acquisiti mediante idonea formazione professionale o titoli di specializzazione in merito, come pubblicazioni scientifiche.

Un primo problema che si evidenzia, dunque, è la configurazione, all’interno del Ruolo dei dirigenti degli enti locali, di una sorta di “ruolo specifico” o, comunque, di una specifica figura professionale dirigenziale: quella, cioè, dotata dei “prescritti requisiti” per esercitare la funzione rogante, che appare un presupposto indispensabile per l’esercizio delle funzioni “segretariali”. Ma, ciò equivale a dire che, abolita di diritto, una figura specifica di dirigente destinatario di incarichi connessi all’attuazione dell’indirizzo politico, del coordinamento dell’attività amministrativa e del controllo della legalità dell’azione amministrativa, rimarrebbe comunque, anche se non più denominata come “segretario comunale” e non più selezionata mediante lo specifico concorso.

Un secondo problema consiste nella qualificazione di tale dirigente incaricato delle tre funzioni elencate poco sopra e del rogito dei contratti alla stregua di “dirigente apicale”, cioè, par di capire, come dirigente di vertice dell’organizzazione amministrativa.

Si tratta di una scelta estremamente discutibile e poco razionale, se connessa all’intento di creare un ruolo unico per tutti gli enti regionali e locali.

Si pensi alle regioni: nella sostanza, il numero 4) della lettera b) in commento va ad incidere in maniera fortissima nei confronti dell’organizzazione del personale delle regioni, ledendo apertamente la loro estrema autonomia in materia per altro esercitata mediante esercizio di piena potestà legislativa, forzandole ad acquisire una figura in tutto simile a quella del segretario comunale, generalmente assente nel sistema organizzativo regionale.

Più in generale, la legge delega induce regioni e, soprattutto, per quel che si vedrà meglio di seguito, enti locali, ad individuare necessariamente un dirigente “apicale” nell’ambito della propria organizzazione, facendolo coincidere con colui che esercita le attività di rogito, attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento amministrativo e controllo della legalità, come se tali funzioni costituissero un nucleo univoco. Il che priva, allora, gli organi di governo di modulare gli incarichi dirigenziali in relazione alle proprie esigenze e scelte autonome e li obbliga ad assegnare a tale figura un ruolo “apicale”, anche laddove le scelte organizzative fossero altre e intese, ad esempio, ad assegnare tale funzione a un dirigente cui attribuire funzioni connesse all’organizzazione, al controllo di gestione, alla pianificazione gestionale.

Ancora, la presenza di una figura necessariamente “apicale” contrasta in modo evidente con l’assenza di una connotazione di gerarchia tra i dirigenti e, soprattutto, con l’eliminazione di dirigenti di prima e seconda fascia. In modo assolutamente incoerente, insomma, la legge delega elimina la distinzione tra dirigenti di prima e seconda fascia nello Stato, appunto confermando l’inesistenza di una gerarchia ordinamentale nell’ambito della dirigenza, nonché confermando una distinzione non gerarchica ma solo funzionale degli incarichi dirigenziali, ma nello stesso tempo negli enti locali introduce un dirigente “apicale” ex lege, che in quanto posto all’apice non può che configurarsi, quanto meno, come appartenente ad una specifica “fascia” più elevata rispetto a quella della dirigenza ordinaria; tanto più che a tale fascia potrebbero accedere solo dirigenti dotati dei già visti specifici requisiti per svolgere la funzione rogante.

Insomma, un bel garbuglio, dovuto alla fretta che ha caratterizzato l’iter di approvazione della legge delega e consegna al legislatore delegato un compito certamente non semplice.

La legge delega prevede che siano inseriti nel ruolo unico dei dirigenti locali “coloro che alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al presente comma sono iscritti all’albo nazionale dei segretari comunali e provinciali di cui all’articolo 98 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nelle fasce professionali A e B”, con conseguente soppressione del relativo albo.

I segretari comunali che non dispongono dell’assimilazione alla dirigenza pubblica, ovvero quelli inseriti nella fascia professionale C, saranno regolati da una specifica disciplina per effetto della quale detti segretari potranno confluire nel ruolo unico dei dirigenti locali dopo due anni esercizio effettivo, anche come funzionario, di funzioni segretariali o equivalenti; lo stesso varrà per i vincitori di procedure concorsuali già avviate alla data di entrata in vigore della legge delega.

Come detto, la legge delega prevede un periodo transitorio, durante il quale lo svolgimento delle funzioni proprie dei segretari comunali resterà, tendenzialmente, appannaggio di coloro che risultavano iscritti all’albo. Si prevede, infatti, che “in sede di prima applicazione e per un periodo non superiore a tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato in attuazione della delega” di cui all’articolo in commento, via sia l’obbligo “per? gli enti locali privi di un direttore generale nominato ai sensi del citato articolo 108 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 di conferire l’incarico di direzione apicale con compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa, direzione degli uffici e controllo della legalità dell’azione amministrativa ai predetti soggetti, già iscritti nel predetto albo e confluiti nel ruolo di cui al numero 3), nonché ai soggetti già iscritti all’albo, nella fascia professionale C, e ai vincitori del corso di accesso in carriera, già bandito alla data di entrata in vigore della presente legge, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

La previsione appena ricordata vale solo per le amministrazioni locali (comuni, città metropolitane e province) e sostanzialmente distingue:

  1. enti locali che non possono disporre del direttore generale: si tratta di tutti i comuni di popolazione inferiore ai 100.000 abitanti, ai sensi dell’articolo 2, comma 186, lettera d), della legge191/2009, come modificato dall’articolo 1, comma 1-quater, della legge 42/2010, nonché delle province (a seguito dell’entrata in vigore della legge delega);
  2. enti locali che possono disporre del direttore generale e cioè:
    1. comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti;
    2. città metropolitane;
  3. enti locali che pur potendo disporre del direttore generale, non lo abbiano incaricato.

Nel caso dei comuni con meno di 100.000 abitanti e delle province, non potendo esse incaricare un direttore generale, per i primi tre anni dalla vigenza del decreto legislativo attuativo della legge delega e dell’articolo 11, comma 1, lettera b), n. 4), in commento, vi sarà l’obbligo di conferire l’incarico di “dirigente apicale” esclusivamente ai segretari comunali confluiti nel ruolo unico dei dirigenti locali, secondo l’indicazione normativa.

Comuni con oltre 100.000 abitanti e città metropolitane, invece, se si avvarranno della facoltà di incaricare un direttore generale non avranno l’obbligo di avvalersi del “dirigente apicale” e, quindi, non opererà per i segretari comunali la garanzia, per il primo triennio, di ottenere tale incarico. Nei comuni con oltre 100.000 abitanti e nelle città metropolitane dotate di direttore generale, le funzioni di controllo della legalità dell’azione amministrativa e di rogito saranno attribuite ad un dirigente di ruolo, dotato ovviamente delle necessarie competenze, ma, per come è scritto il criterio di delega, non sembra che tali funzioni possano essere riservate ai segretari comunali confluiti nel ruolo unico.

Uno specifico approfondimento va riservato alle province. Il citato articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 191/2009 prevede espressamente la “soppressione della figura del direttore generale, tranne che nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti”. Per questa ragione, unanimemente, sulla base della chiara interpretazione letterale, si è ritenuta la possibilità di far permanere la figura del direttore generale presso le province.

Tra i criteri di delega contenuti nell’articolo 11, comma 1, lettera b), n. 4), in commento (come ulteriormente vedremo più avanti) si prevede il seguente: “previsione della possibilità, per le città metropolitane e i comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti di nominare, in alternativa al dirigente apicale, un direttore generale ai sensi dell’articolo 108 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 e previsione, in tale ipotesi, dell’affidamento della funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa e della funzione rogante a un dirigente di ruolo”.

La legge delega, dunque, innova il vigente ordinamento ed elimina dall’elenco degli enti aventi la facoltà di incaricare un direttore generale le province. Infatti, la previsione citata sopra elenca espressamente gli enti che dispongono di tale facoltà, indicandoli nei soli comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti e nelle città metropolitane, ad esclusione delle province.

Si deve necessariamente concludere, perciò, che le province non potranno più incaricare un direttore generale, ai sensi dell’articolo 108 del d.lgs. 267/2000.

Resta il problema di capire se l’esclusione per le province della facoltà di avvalersi del direttore generale operi da subito, oppure se sia connessa all’approvazione del decreto legislativo attuativo della legge delega.

Milita in favore della seconda ipotesi, cioè del rinvio della norma alla successiva attuazione, la circostanza che occorra attenere la formazione del ruolo unico dei dirigenti locali, perché l’intera fattispecie possa dirsi completa e, dunque, si possa attivare il periodo transitorio triennale nel quale attribuire al “dirigente apicale” tratto dagli ex segretari comunali le funzioni di attuazione dell’indirizzo politico, roganti, coordinamento amministrativo e controllo della legalità.

In favore della prima tesi, quella secondo la quale per le province cessa ogni possibilità di avvalersi del direttore generale sin dalla vigenza della legge delega hanno pregio altre considerazioni di sostanza. La principale è che la figura del direttore generale, a differenza – ancora oggi – di quella del segretario comunale è solo facoltativa e non obbligatoria. Nulla, dunque, impone alle province di avvalersi del direttore generale.

Il criterio di delega come quello in argomento ha certamente l’effetto di novare, indirettamente, l’ordinamento giuridico, attraverso una modifica implicita del citato articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 191/2009, che viene sostanzialmente integrato di una nuova e diversa identificazione degli enti abilitati ad avvalersi del direttore generale, tra i quali le province sono assenti.

Dunque, l’effetto di innovazione della legge delega deve considerarsi immediato e non rimesso all’entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi. Sicché le province debbono considerarsi private della facoltà di incaricare un direttore generale dalla data di entrata in vigore della legge delega. Ciò vale a maggior ragione per le province che abbiano attribuito tali incarichi a soggetti esterni o anche interni retribuiti: nella situazione finanziaria delle province si tratta anche di spese di difficile giustificazione, tanto più se l’ordinamento incardini una disposizione tale da vietare alle province di utilizzare il direttore generale.

Quale che sia la tesi considerata più corretta, si apre l’altro problema: cosa ne è degli incarichi di direttore generale attribuiti dalle province prima dell’entrata in vigore della legge delega?

I principi generali di diritto comune portano a ritenere che i rapporti contrattuali in corso non possano essere incisi negativamente dalla legge, posto per altro che essa in termini generali opera solo per il futuro. Si potrebbe, dunque, concludere per la conservazione degli effetti degli incarichi di direzione generale già attribuiti dalle province, sino alla loro scadenza.

Tale tesi, tuttavia, pone da subito un problema di legittimità della spesa connessa, per incarichi retribuiti, una volta venuto a mancare il titolo giuridico per incaricare il direttore generale.

In ogni caso, una volta entrati in vigore i decreti legislativi attuativi della delega, non vi sarà più alcun dubbio che la funzione di “dirigente apicale” nelle province non potrà essere “scissa” tra direttore generale e dirigenti amministrativi, per la semplice ragione che le province non potranno avvalersi del direttore generale.

Dunque, è da ritenere che sicuramente dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi, gli incarichi ai direttori generali delle province si dovranno considerare decaduti automaticamente, ex lege. Ma probabilmente tale conseguenza è da far discendere direttamente dalla legge delega, che, come rilevato sopra, modifica da subito l’ordinamento, escludendo in capo alle province la possibilità di incaricare i direttori generali.

Che le disposizioni sin qui viste dell’articolo 11, comma 1, lettera b), numero 4), della legge delega costituiscano fonte di caos oggettivo sembra difficile possa sfuggire. Se la legge conferma la necessità delle funzioni del segretario, allora a cosa serve l’abolizione della figura del segretario comunale? L’abolizione appare totalmente finalizzata al rafforzamento della dirigenza “funzionale” alla politica, visto che il sistema del ruolo unico consente maggior libertà di azione ai sindaci nella scelta dei destinatari degli incarichi apicali, che, per altro, potrebbero anche essere reclutati dall’esterno, in applicazione del combinato disposto degli articoli 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 e 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000, una volta esauritosi il triennio di parziale “riserva” per i segretari che confluiranno nel ruolo unico.

Non si dimentichi che il d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, ha già esteso alla percentuale spropositata del 30% della dotazione organica la possibilità di assumere dirigenti ed apicali fuori dotazione organica. Sarebbe la sublimazione del tentativo prodotto nel 1997: consentire ai sindaci totale arbitrio nella scelta del segretario comunale. Basterà, dopo l’attuazione della riforma, prendere un dirigente dall’esterno, meglio se, ovviamente, funzionale al partito, e attribuirgli l’incarico ed il gioco è fatto. Niente più specifici concorsi, agenzie o ministeri a garanzia della professionalità della figura, procedure per incaricare e nominare.

Ancora una volta, l’analisi dei contenuti della riforma stenta a reperire sugli specifici istituti l’utilità generale, che dovrebbe essere il fine di ogni legge.

D’altra parte, proprio la legge delega ammette indirettamente, ma in modo molto chiaro, la possibilità per i sindaci di reperire i segretari non solo entro un ambito molto più vasto dell’attuale albo dei segretari comunali, cioè il ruolo dei dirigenti locali, ma anche all’esterno. Infatti, la conferma della possibilità per comuni con oltre 100.000 abitanti e città metropolitane della possibilità di avvalersi del direttore generale, apre all’ingresso di “dirigenti apicali” extra ruolo, in quanto il meccanismo di selezione previsto dall’articolo 108 del d.lgs. 267/2000 (espressamente richiamato dalla legge delega), permette di effettuare incarichi diretti a persone di “fiducia”, come del resto fin qui è avvenuto. La conferma della possibilità di incaricare il direttore generale appare dunque, una norma costruita ad hoc per incarichi intuitu personae troppo evidentemente posta per permettere alla politica di avvalersi dell’opera di dirigenti ad essa strettamente vicina.

Tra l’altro, appare oggettivamente curioso che si abolisca una figura che svolge funzioni però obbligatorie, mentre nello stesso tempo fa salva una figura solo eventuale (il direttore generale), che svolge funzioni a loro volta non obbligatorie.

È opportuno sottolineare che la legge delega prevede all’articolo 11, comma 1, lettera b), numero 3), il “mantenimento della figura del direttore generale di cui all’articolo 108 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 2, comma 186, lettera d), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 e definizione dei relativi requisiti, fermo restando quanto previsto dal numero 4) della presente lettera”.

La figura del direttore generale, dunque, resterà ammessa solo nei comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti e nelle città metropolitane (1). E il direttore generale coinciderà, di fatto, con “il dirigente apicale”, ma con lo scorporo delle funzioni roganti e di controllo della legalità. Il che significa ammettere la possibilità di un “dirigente apicale” dimezzato, che, però, potrà comportare l’aumento della spesa stipendiale, trattandosi di un incarico dirigenziale ulteriore e non di ruolo. Un’irrazionalità evidente.

Molto difficile da comprendere, ancora, è la conservazione del direttore generale, dal momento che pare in questo modo configurarsi un dirigente locale non appartenente al ruolo “unico”, che non sarebbe più così unico.

Di fatto, la legge delega fa salvo, col mantenimento della figura del direttore generale, uno dei flop più clamorosi delle riforme Bassanini. I direttori generali nei comuni e negli enti locali sono costati tantissimo e serviti a pochissimo. Difficile vedere una sia pur minima traccia dell’incremento di efficienza ed efficacia che avrebbero dovuto assicurare; non uno solo dei grandi enti andati in default, Roma per prima, ha potuto contare sull’operato taumaturgico dei direttori generali per evitare disservizi e mala gestione.

I direttori generali, nonostante la loro scarsissima utilità, sono costati carissimo: basti ricordare gli esempi di piccolissimi comuni che conferivano incarichi a direttori generali da decine di migliaia di euro l’anno, per soli pochi giorni la settimana, pesantemente censurati in particolare dalla Corte dei conti della Lombardia. Tanto da indurre nel 2009 all’abolizione dei direttori generali nei comuni fino a 100.000 abitanti; una vera e propria certificazione del fallimento di tale istituto.

Nonostante ciò, il la legge delega punta ancora sui direttori generali. Non è forse un caso. Non si deve dimenticare che l’attuale segretario generale della Presidenza del consiglio e il vertice del Dipartimento degli affari legislativi sempre di Palazzo Chigi sono gli ex direttori generali del Comune di Reggio Emilia e di Firenze, rispettivamente. È evidente che un Governo diretta emanazione dell’esperienza di sindaci ed amministrazione locale punti su figure come i direttori generali, spessissimo scelti senza concorso e mediante cooptazione solo fiduciaria, come tassello per una forte ingerenza nella gestione, nonostante il principio di separazione tra funzione politica e gestionale, per altro esaltata proprio dal ddl, a tal punto da proporre una sorta di non imputabilità dei politici per danno erariale.

Come visto sopra, il criterio di delega contenuto nell’articolo 11, comma 1, lettera b), numero 3), oltre a consentire a comuni con oltre 100.000 abitanti e città metropolitane di continuare ad avvalersi dei direttori generali, demanda al legislatore delegato il compito di definirne i relativi requisiti.

Per un verso, si tratta di una disposizione opportuna. Per quanto la giurisprudenza (2) abbia a più riprese chiarito che il direttore generale non possa non avere i medesimi requisiti di professionalità richiesti alla dirigenza, trattandosi di una funzione dirigenziale, non sono mancati i casi di letture disinvolte della normativa: infatti, non pochi comuni hanno assegnato l’incarico di direttore generale a soggetti privi di laurea, come risulta dai casi analizzati dalla giurisprudenza. Non sono, per altro, mancate isolate e criticabilissime pronunce giurisprudenziali che hanno, in modo del tutto infondato, ritenuto ammissibili incarichi di direttore generale a soggetti privi di laurea (3). Demandare, allora, ad un definitivo chiarimento normativo la definizione dei requisiti che deve possedere il direttore generale appare cosa opportuna, con la speranza che, ovviamente, tali requisiti non risulteranno inferiori a quelli richiesti per l’accesso alle qualifiche dirigenziali.

Per altro verso, appare davvero singolare che una funzione dirigenziale sostanzialmente “concorrenziale” con quella del “dirigente apicale” e in parte ad essa equivalente, debba ricevere una specifica definizione dei requisiti. Ciò, ancora una volta, contraddice totalmente la logica del “ruolo unico”: se è “unico”, perché si ammette una disciplina parallela, volta a reclutare extra ruolo dirigenti, con requisiti particolari, che potrebbero divergere anche sensibilmente da quelli della dirigenza di ruolo?

Altrettanto rilevante è, poi, un altro criterio di delega contenuta nell’articolo 11, comma 1, numero 4, della legge: la “previsione che gli incarichi di funzione dirigenziale apicale cessano se non rinnovati entro novanta giorni dalla data di insediamento degli organi esecutivi”.

Si tratta di una disposizione che tende ad assimilare gli incarichi “apicali” presso regioni ed enti locali a quanto prevede attualmente l’articolo 19, comma 8, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “gli incarichi di funzione dirigenziale di cui al comma 3 (4), cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo”.

A conferma, insomma, che l’intero impianto della riforma della dirigenza è ispirato al rafforzamento estremo dello spoil system, si introduce una norma “ghigliottina”, che può interrompere la durata dell’incarico di dirigente apicale per effetto dell’insediamento di nuovi organi di governo, presso regioni ed enti locali.

Anche in questo caso, si tratta di una disciplina che rende il ruolo “unico” dei dirigenti di regioni ed enti locali non proprio così “unico”. Infatti, in termini generali, gli incarichi dirigenziali durano fino a 4 anni e sono rinnovabili, se il dirigente non riceve valutazione negativa, per altri 2 anni. La revoca anticipata, in via ordinaria, discende da una valutazione negativa; altrimenti, l’incarico scade per decorso del termine previsto.

Nel caso, invece, del dirigente “apicale” la durata dell’incarico resta condizionata ad un evento non collegato al suo “merito” o alla valutazione, cioè il rinnovo elettorale degli organi di governo, cui la legge intende ricondurre un potere pienamente discrezionale del presidente della regione o del sindaco di attribuire ad altri la funzione apicale.

Infatti, la previsione contenuta nel criterio di delega in esame dispone la decadenza automatica dall’incarico, anche se l’insediamento dei nuovi organi di governo avvenga prima della scadenza naturale. Scadenza “automatica” o “ex lege”, che esenta del tutto l’organo di governo dal dover né adottare un provvedimento amministrativo, né tanto meno di motivare la scelta di non continuare ad avvalersi del dirigente “apicale” già in servizio, al momento dell’insediamento.

Di conseguenza, l’incarico di dirigente apicale si caratterizza per avere un termine massimo potenziale di 4 anni più 2, secondo lo schema della durata degli incarichi dirigenziali, ma con l’ulteriore particolarità di cessare automaticamente a seguito delle elezioni e dell’insediamento dei nuovi organi di governo, i quali dispongono del potere totalmente discrezionale, che giunge sostanzialmente fino all’arbitrio, di decidere se rinnovare o meno l’incarico: nel caso positivo, allora occorre un provvedimento espresso.

La fattispecie dell’incarico di dirigente “apicale” oltre a caratterizzarsi (e complicarsi) per la presenza di questa clausola di decadenza potenziale ex lege prima del termine, si avvita ulteriormente su se stessa in relazione al computo della durata.

Abbiamo visto che gli incarichi dirigenziali possono durare 4 anni, ed essere “rinnovati” (ma in realtà si tratta di una proroga) per soli 2 anni. Ma, che succede nei confronti di un dirigente “apicale”, inizialmente incaricato per 4 anni, laddove per una qualsiasi causa la regione o l’ente locale vada ad elezioni nel corso del terzo anno del mandato e il nuovo presidente di regione o sindaco ritenga di rinnovare l’incarico? In questo caso, il rinnovo di quanto dovrebbe essere? Tre anni, per assicurare l’obiettivo della norma, tesa in via generale a far sì che gli incarichi iniziali più rinnovi non superino i 6 anni complessivi? Oppure, trattandosi proprio di un rinnovo della funzione apicale da parte di un nuovo sindaco, il rinnovo può essere computato da zero, sicchè sindaco o presidente della regione possano attribuire al dirigente apicale un nuovo incarico da 4 anni? In questo caso, tra incarico iniziale di 4 anni ma decaduto al terzo anno, e rinnovo, il dirigente apicale si ritroverebbe a rivestire l’incarico per 7 anni, contraddicendo le previsioni generali della norma. Per altro, gli anni “stanziali” nello stesso incarico potrebbero giungere a 8, se il sindaco o il presidente della regione, scaduto il quadriennio di rinnovo, decidessero di avvalersi della possibilità di ulteriore rinnovo.

A proposito di questo ultimo tema: ma, in termini generali, quanto può durare complessivamente l’incarico di “dirigente apicale”? Lo schema 4 anni + 2 non pare poter operare non solo per i problemi enunciati sopra (il caso della conclusione anzitempo di una consiliatura), ma in termini generali, visto che la durata del mandato elettorale presso regioni e comuni è di 5 anni. Si potrebbe essere portati a ritenere che, allora, sindaci e presidenti di regione possano conferire un incarico iniziale di 4 anni ed attribuire un rinnovo di non oltre 1 anno, per mantenere la simmetria tra durata complessiva dell’incarico di direzione apicale e durata del mandato elettorale.

Tuttavia, visto che la legge delega prevede la decadenza automatica dell’incarico di dirigente apicale in argomento per effetto dell’insediamento dei nuovi organi di governo, in linea teorica nulla vieta al sindaco o al presidente della regione di rinnovare al dirigente apicale, già incaricato per 4 anni, utilizzando l’intero biennio consentito dalla lettera h) dell’articolo 11 della legge delega; sarà cura, poi, del successore lasciar operare la decadenza ex lege, oppure rinnovare a sua volta. E si torna al problema già affrontato prima: un sindaco o un presidente di regione che si insedino e trovino un dirigente “apicale” incaricato da 5 anni (i 4 iniziali più il primo del biennio di rinnovo), per quanto tempo lo possono rinnovare: un solo anno, per non superare la durata massima di 6? Oppure per altri 4 anni più potenziali 2 e, così, giungere potenzialmente a 10 anni di insediamento nello stesso incarico?

Ma, perché per i dirigenti “apicali” di regioni ed enti locali dovrebbe essere consentito di giungere alla permanenza nel medesimo incarico, senza nuova partecipazione a procedure selettive, per 10 anni, mentre per tutti gli altri dirigenti questo potrebbe avvenire per soli 6 anni?

Ancora: nel caso di incarico al direttore generale esterno, ai sensi dell’articolo 108 del d.lgs 267/2000, espressamente richiamato dai numeri 3) e 4) dell’articolo 11, comma 1, lettera b) in commento, in applicazione del comma 2 di detto articolo 108 “La durata dell’incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia”. Pertanto, un direttore generale esterno, non appartenente al ruolo unico della dirigenza locale, può ottenere un incarico sostanzialmente “apicale” iniziale di 5 anni e non 4. Anche in questo caso, c’è da chiedersi perché queste durate differenziate, che finiscono, per altro, per rendere più favorevole la condizione di soggetti, i direttori generali “esterni”, selezionati non per concorso e procedure comparative, ma sostanzialmente intuitu personae.

Come si nota, parlare di irrazionalità della norma e di caos operativo non appare affatto esagerato.

Infine, il numero 4) in commento dell’articolo 11, comma 1, lettera b) contiene l’ulteriore “previsione, per i comuni di minori dimensioni demografiche, dell’obbligo di gestire la funzione di direzione apicale in via associata, coerentemente con le previsioni di cui all’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010? 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni” (5).

La funzione di direzione “apicale” degli enti locali va fatta rientrare nell’ambito dell’articolo 14, comma 27, lettera a), del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010: “organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo”.

Dunque, l’ente capofila della convenzione o l’unione di comuni dovrà incaricare un dirigente del ruolo unico, nel rispetto delle indicazioni viste sopra, cui affidare la direzione apicale per conto di tutti gli enti appartenenti alla forma associativa vigente.

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(1) Il richiamo all’articolo 2, comma 186, lettera d), ovviamente deve essere letto in combinazione con le previsioni di cui al n. 4 dell’articolo 11, comma 1, lettera b), in commento, che come visto in precedenza esclude la presenza del direttore generale nelle province.

(2) Corte dei conti, sez. controllo Lombardia, delibera 5.11.2009, n. 1001; Corte dei conti, sez. controllo Veneto, parere 23.11.2010, n. 275; Corte dei conti, sez. giurisd. Toscana, 3.10.2011, n. 363, ove si legge: “In primo luogo, concordemente all’assunto del requirente, è necessario chiarire che il diploma di laurea costituisce un requisito culturale necessario per accedere alla qualifica dirigenziale (di prima o di seconda fascia), anche nel caso dell’incarico di direttore generale – come quello di specie – conferito dal sindaco a tempo determinato a norma dell’art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000.

Tale assunto trova conferma nel quadro normativo di riferimento, da cui risulta – contrariamente all’assunto della difesa – che anche in ambito locale deve trovare applicazione la disciplina dei requisiti per l’accesso alla dirigenza pubblica prevista dal codice del pubblico impiego (art. 28, d.lgs. 165/2001). Vi è uno stretto legame tra le previsioni del t.u. 267/2000 e del t.u. 165/2001 in tema di personale. L’art. 111 del d.lgs. n. 267 del 2000 dispone che in materia di personale (ergo, anche di quello di qualifica dirigenziale) gli enti locali sono tenuti ad adeguare la propria normativa statutaria e regolamentare ai principi del Capo III del t.u.e.l. e al Capo II del decreto legislativo n. 29 del 1993 (attualmente contenuti nel Titolo II, Capo II, del d.lgs. n. 165 del 2001) tenendo conto delle proprie peculiarità. Tale disposizione deve necessariamente coordinarsi ratione materiae con la norma contenuta nell’art. 27 del d.lgs. n. 165 del 2001, che pone alle pubbliche amministrazioni non statali, tra le quali appunto gli enti locali, l’obbligo di adeguare i propri ordinamenti ai principi sulla dirigenza contenuti nel Capo II del titolo II del  d.lgs. n. 165 del 2001, pur riconoscendone le relative peculiarità, e nel rispetto della potestà statutaria e regolamentare. Già sulla base di tali disposizioni si può affermare che, se l’amministrazione locale intende provvedere al conferimento di un incarico esterno di livello dirigenziale di qualunque tipo (ai sensi dell’art. 110, comma 1, ovvero – come nello specifico – di dirigenza generale ai sensi dell’art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000), deve in ogni caso tenere presente i requisiti richiesti dalla legge (nella specie, dal t.u. 165/2001) per l’accesso a tale qualifica. I requisiti non sono direttamente fissati dal t.u.e.l., ma dal d.lgs. n. 165 del 2001, il quale, come detto, per espressa voluta legis si applica (recte, deve applicarsi) anche al personale degli enti locali. Norme di assorbente rilievo sono appunto, l’art. 19 e l’art. 28 del d.lgs. 165/2001, dalla cui lettura si evince che il possesso della laurea deve considerarsi requisito culturale richiesto obbligatoriamente per l’accesso – a qualunque titolo – alla dirigenza sia per le amministrazioni centrali sia per quelle locali. […] la Corte dei conti ha sempre preteso che fossero muniti della laurea. La Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo, nell’adunanza congiunta del I e II Collegio del 9 gennaio 2003, con la delibera n. 3/2003 del 9 gennaio 2003, ricusando il visto per un provvedimento di nomina a dirigente di seconda fascia di un soggetto esterno al ruolo per mancanza del titolo adeguato di studio, aveva osservato che «il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai  ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, comma 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi». 2.2. Sul medesimo solco si collocano anche i più recenti interventi della Corte Costituzionale e dei giudici contabili in sede di controllo, che, sebbene successivi ai fatti de quibus, appare opportuno richiamare perché costituiscono – pur riferendosi alla normativa sopravvenuta – un continuum rispetto agli orientamenti precedenti richiamati. Si è già fatto cenno alla sentenza n. 324 del 12 novembre 2010: con essa la Corte Costituzionale ha confermato, appunto, la legittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 6-ter (inserito dall’art. 40, lett. f), d.lgs. 150/2009). Pur riferendosi alla realtà regionale, i giudici della Consulta hanno anche precisato che i regolamenti di organizzazione degli uffici non possono riferirsi alla materia dell’accesso agli impieghi, stigmatizzando la sussistenza di una riserva di legge statale in tale materia, circostanza che ancora di più depone per l’assoluta applicazione del TU 165/2001. Ciò in quanto nella fattispecie, non si verte in materia di organizzazione degli uffici, bensì in materia di disciplina di contratti di diritto privato, rispetto alla quale sussiste esclusivamente competenza dello Stato. In particolare, la Corte Costituzionale ha precisato che il tema di incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni all’amministrazione è oggetto di una normativa riconducibile alla materia dell’ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell’ordinamento civile. In buona sostanza, l’art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001, contenente tra l’altro una pluralità di precetti relativi alla qualificazione professionale ed alle precedenti esperienze lavorative del soggetto esterno, non riguarda – ha affermato la Consulta – né procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego, né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto giuridico. Contiene una disciplina che, valutata nel suo complesso, attiene ai requisiti soggettivi che debbono essere posseduti dal contraente privato ed è pertanto riconducibile alla regolamentazione del particolare contratto che l’amministrazione stipula con il soggetto ad essa esterno cui conferisce l’incarico dirigenziale. […] In conclusione, ad avviso del Collegio, la figura prevista dall’art. 108 cit., pur essendo investita di compiti e funzioni che valgono a conferirgli una posizione differenziata e atipica rispetto a quella degli altri dirigenti, deve essere collocata tra la dirigenza dell’ente (Cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 3.10.2002, n. 5216; Cass. civile, ord. 12.6.2006, n. 13538). Ne’ l’attribuzione ad un soggetto “esterno” della funzione di direttore generale “…al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato…” può spingere ad una differente caratterizzazione di tale funzione […]Ne deriva che, ad avviso del Collegio, l’incarico di city manager conferito ad un soggetto privo della laurea costituisce una scelta dannosa per l’ente locale, perché il trattamento erogato deve intendersi come spesa inutile per un incaricato privo dei titoli richiesti. Il titolo accademico – lungi dal costituire una mera formalità – deve ritenersi anche metro di valutazione della legittimità e della congruità della spesa pubblica a fronte della scelta del sindaco, verosimilmente rispondente a logiche anche fiduciarie, se non si vuole che tali scelte ricadano nell’arbitrio, poiché la natura fiduciaria dell’incarico deve comunque cedere all’accertamento dei requisiti accademici e professionali in capo al candidato prescelto”.

(3) Corte dei conti, sez. giurisd. Friuli Venezia Giulia, 18.3.2009, n. 97.

(4) Cioè “Gli incarichi di Segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente …”.

(5) Si riportano i commi da 26 a 29, dell’articolo 14 del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010:

26. L’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è obbligatorio per l’ente titolare.

27. Ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione:

a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo;

b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale;

c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente;

d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale;

e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;

f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi;

g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione;

h) edilizia scolastica, per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici;

i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;

l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.

28. I comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di Campione d’Italia, esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l). Se l’esercizio di tali funzioni è legato alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i comuni le esercitano obbligatoriamente in forma associata secondo le modalità stabilite dal presente articolo, fermo restando che tali funzioni comprendono la realizzazione e la gestione di infrastrutture tecnologiche, rete dati, fonia, apparati, di banche dati, di applicativi software, l’approvvigionamento di licenze per il software, la formazione informatica e la consulenza nel settore dell’informatica.

28-bis. Per le unioni di cui al comma 28 si applica l’articolo 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni.

29. I comuni non possono svolgere singolarmente le funzioni fondamentali svolte in forma associata. La medesima funzione non può essere svolta da più di una forma associativa”.

 

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