L’occupazione non aumenta con la flessibilità
21.08.15 – Paolo Barbieri e Giorgio Cutuli
La strategia di flessibilità adottata in Europa negli ultimi vent’anni ha originato una forte segmentazione dei mercati del lavoro. I dati mostrano che l’accesso a forme di occupazione stabile è diventato problematico. E non si vede l’aumento di posti di lavoro che avrebbe dovuto comportare.
Le conseguenze della flessibilità
Le riforme del mercato del lavoro intraprese dai paesi dell’Europa continentale dagli anni Novanta in poi sono state presentate come politiche in grado di rispondere ai problemi sollevati dalla cosiddetta “eurosclerosi”. Ma sono state efficaci? Ha funzionato l’assunto dello “scambio fra occupazione ed eguaglianza” in base al quale per creare più occupazione si devono accettare livelli più elevati di diseguaglianza – salariale o normativa – nel mercato del lavoro? A distanza di oltre due decenni dalle prime misure di deregolamentazione, il supporto empirico a quest’assunto appare carente. I dati indicano come la strategia di flessibilità adottata in Europa abbia originato una forte segmentazione dei mercati del lavoro, rendendo problematico l’accesso a forme di lavoro stabile, senza tuttavia dar luogo a sensibili miglioramenti nelle complessive prospettive occupazionali. Questo perché in Europa continentale la riduzione dei livelli di protezione del lavoro subordinato è avvenuta solo in alcuni settori del mercato del lavoro. L’Italia non ha fatto eccezione, con i reiterati provvedimenti di de-regolamentazione dei vincoli sull’utilizzo di lavoro temporaneo. Tuttavia, il grado di protezione del lavoro dipendente a tempo indeterminato è rimasto pressoché invariato (figura 1) nei vari paesi europei, a ridursi è stata invece la regolazione del lavoro a tempo determinato (figura 2). La differenza fra i due indici può essere considerata come un indicatore di deregolamentazione ai margini e di segmentazione originata dalle istituzioni (figura 3).