22/08/2015 – L’occupazione non aumenta con la flessibilità

L’occupazione non aumenta con la flessibilità

21.08.15 – Paolo Barbieri e Giorgio Cutuli

La strategia di flessibilità adottata in Europa negli ultimi vent’anni ha originato una forte segmentazione dei mercati del lavoro. I dati mostrano che l’accesso a forme di occupazione stabile è diventato problematico. E non si vede l’aumento di posti di lavoro che avrebbe dovuto comportare.

 

Le conseguenze della flessibilità

Le riforme del mercato del lavoro intraprese dai paesi dell’Europa continentale dagli anni Novanta in poi sono state presentate come politiche in grado di rispondere ai problemi sollevati dalla cosiddetta “eurosclerosi”. Ma sono state efficaci? Ha funzionato l’assunto dello “scambio fra occupazione ed eguaglianza” in base al quale per creare più occupazione si devono accettare livelli più elevati di diseguaglianza – salariale o normativa – nel mercato del lavoro? A distanza di oltre due decenni dalle prime misure di deregolamentazione, il supporto empirico a quest’assunto appare carente. I dati indicano come la strategia di flessibilità adottata in Europa abbia originato una forte segmentazione dei mercati del lavoro, rendendo problematico l’accesso a forme di lavoro stabile, senza tuttavia dar luogo a sensibili miglioramenti nelle complessive prospettive occupazionali. Questo perché in Europa continentale la riduzione dei livelli di protezione del lavoro subordinato è avvenuta solo in alcuni settori del mercato del lavoro. L’Italia non ha fatto eccezione, con i reiterati provvedimenti di de-regolamentazione dei vincoli sull’utilizzo di lavoro temporaneo. Tuttavia, il grado di protezione del lavoro dipendente a tempo indeterminato è rimasto pressoché invariato (figura 1) nei vari paesi europei, a ridursi è stata invece la regolazione del lavoro a tempo determinato (figura 2). La differenza fra i due indici può essere considerata come un indicatore di deregolamentazione ai margini e di segmentazione originata dalle istituzioni (figura 3).

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Effetto “luna di miele”

In un nostro lavoro ci siamo chiesti se a un aumento nel tempo della deregolamentazione ai margini, abbia fatto seguito un generale incremento delle chance occupazionali in Europa, in particolare distinguendo fra un aumento tout court delle probabilità di trovare un qualsiasi lavoro e un aumento delle chance di trovarne uno permanente. Volutamente la nostra analisi va dal 1992 al 2008, prima dello scoppio della crisi. Poiché la letteratura mostra come in Europa continentale possano essere identificati tre distinti modelli regolativi di welfare e mercato del lavoro (scandinavo, centroeuropeo e sudeuropeo) abbiamo aggregato i risultati per ciascuno di essi. Restano fuori i paesi anglosassoni in quanto mercati del lavoro già abbondantemente deregolati e poco protetti. Come già ipotizzato, l’effetto della deregolamentazione sulle chance di trovare un lavoro si risolve complessivamente in un “effetto luna di miele”, in cui i vantaggi occupazionali complessivi della flessibilizzazione hanno un carattere meramente transitorio. I trend costantemente negativi nei tassi attesi di transizione al lavoro permanente rivelano inoltre l’avviarsi di un processo “europeo” di sostituzione di lavoro permanente e garantito con lavoro temporaneo e a garanzie (legali e di welfare) ridotte.

Ma c’è di più: disaggregando l’analisi per i gruppi di paesi, si osserva una efficacia decrescente delle politiche di deregolamentazione muovendoci dal Nord verso il Sud dell’Europa. Nei paesi meridionali si realizza una marcata riduzione delle chance di accedere a impieghi stabili, con un chiaro effetto ‘honeymoon’ che tuttavia non compensa l’occupazione stabile persa.

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Dalle nostre analisi la situazione particolarmente problematica del Sud Europa emerge con chiarezza: la deregolamentazione “ai margini” si è rivelata una politica inefficace per favorire la creazione di occupazione, mentre si è verificato un graduale processo di sostituzione di lavoro stabile con lavoro temporaneo e si registra comunque uno tra i più alti tassi di disoccupazione di lunga durata, chiamando in causa le politiche attive del lavoro. Se, dunque, un incremento della flessibilizzazione dei mercati del lavoro può aver originato, in altri contesti, risultati tutto sommato positivi in termini di crescita occupazionale, ciò non si è verificato nei paesi sud-europei. Così stando le cose, l’avvio di nuove riforme dovrebbe tener conto dei rischi di aumentare ancora di più gli impieghi temporanei e la segmentazione del mercato del lavoro, mentre i guadagni occupazionali netti restano per lo meno dubbi.

 

 

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