riforma P.A. – mortificazione delle competenze

La mortificazione delle competenze professionali per decreto legge: davvero un bel modo di avviare la riforma della dirigenza

R. Nobile (La Gazzetta degli Enti Locali 27/6/2014)

Alla fine, dopo preannuncî e tempi di gestazione da mammiferi di grossa taglia, si è materializzato il d.l. 24.6.2014, n. 90: con un travaglio iniziato il 13 giugno 2014, la creatura ha visto la luce con l’aiuto di un forcipe maneggiato e rimaneggiato fino al 24 del mese per ben undici giorni, e già questo è strano a dire poco. Il prodotto di tutto ciò è una fonte di regolazione adottata in via d’urgenza, dall’oggetto altisonante e pretenzioso rubricato “misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”. Un’urgenza tutta da dimostrare per talune parti del decreto, resa ancóra piú sospetta dai tempi che sono intercorsi dalla data della deliberazione del consiglio dei ministri [13.6.2014] e la data della sua sottoscrizione definitiva ed emanazione [24.6.2014].

Il titolo del d.l. 24.6.2014, n. 90 è davvero reboante ed ingenera aspettative e curiosità insieme. Contiene di tutto un po’: dalla lotta alla brontocrazia alla nuova disciplina della mobilità del personale fra le pubbliche amministrazioni; dalla disciplina del turn over alla nuova regolamentazione dei permessi sindacali; dalla disciplina della dirigenza a contratto negli enti locali alla modifica della legge 7.4.2014, n. 56.

Noi oggi vogliamo soffermarci su un gruppo di disposizioni normative che con le dichiarate ragioni che supportano il ricorso alla decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost. non hanno la benchĂ© minima attinenza e che nulla hanno a che spartire con asserite motivazioni di “straordinaria necessitĂ  ed urgenza” evocate come un mantra ossessivo nel suoincipit: la riforma degli onorarĂ® delle avvocature degli enti pubblici, l’“abrogazione” della ripartizione pro quota dei diritti di rogito ai segretarĂ® comunali e provinciali e la riforma della corresponsione dei compensi per la progettazione di opere pubbliche e per la predisposizione di strumenti di pianificazione del territorio. GiĂ , perchĂ© dopo le acquisizioni della Corte costituzionale sull’ammissibilitĂ  del ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del governo, dei decreti-legge è bene leggere il testo guardando con attenzione alla relazione che v’è fra il loro contenuto e il loro preambolo. Preambolo che per la parte che qui interessa vogliamo riportare per tabulas: “ritenuta la straordinaria necessitĂ  e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la piĂş razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione”. 

Delle tre fattispecie si occupano gli artt. 9, 10 e 13 del d.l. 24.6.2014, n. 90: il loro fine non è affatto la semplificazione dell’azione amministrativa o la razionalizzazione dell’attività della pubblica amministrazione come enunciato in modo reboante nell’incipit del decreto-legge, ma altro. Già da questo primo angolo prospettico, l’intervento del legislatore dell’urgenza è campato in aria. Di piú: esso, per la parte che ci interessa, non è neppure sorretto da ragioni che giustificano la surrogazione nelle competenze del parlamento, perché per addivenire allo scopo reale cui tali norme sono preordinate è del tutto improprio [meglio, è falso] asserire che sussistono motivi previsti dall’art. 77 Cost.. Ciò cui le norme de quibus sono propedeutiche, infatti, non sono le finalità enunciate nell’incipit della fonte di regolazione, ma il semplice fare cassa, assicurando alle finanze degli enti di appartenenza il corrispettivo per l’attività professionale frapposta da alcune categorie ben precise di pubblici dipendenti: gli avvocati delle pubbliche amministrazioni [in parte], i segretarî comunali e provinciali, i tecnici adibiti alla progettazione e/o alla predisposizione di strumenti urbanistici [in parte]. Tutti divenuti, chissà perché, oggetto di particolare attenzione del legislatore dell’urgenza.

La distorsione in cui è incappato il legislatore nomotheta è dunque evidente e pone piú di un interrogativo [uso eufemistico di “interrogativo”]. Essa, poi ed a tacer d’altro, poggia su un equivoco di fondo, esplicitamente enunciato per la terza delle fattispecie colpita dal legislatore dell’urgenza: l’onnicomprensività della retribuzione, che riguarda non solo il personale dirigente, come esso asserisce expressis verbis, ma tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, come si è ripetutamente espressa la giurisdizione contabile nella sua duplice veste di giudice giudicante e soggetto del controllo collaborativo.

Delle tre fattispecie, ognuna presenta peculiarità sue proprie. Tutte e tre pergiungono però al medesimo risultato: mortificare la professionalità dei pubblici dipendenti di volta in volta interessati nel loro svolgimento da attività a contenuto professionale, perché del tutto equivalenti professionisti iscritti ad Ordini o ad Albi. 

La piú stravagante delle misure in esame è prevista dall’art. 10 del d.l. 24.6.2014, n. 90 e riguarda l’“abrogazione dei diritti di segreteria di rogito del segretario comunale e provinciale e [l’]abrogazione della ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria”. Cosa i “diritti di segreteria di rogito” siano è cosa ben nota: essi sono il corrispettivo – di incerta natura giuridica – che viene corrisposto pro quota dall’assegnatario di un contratto pubblico all’ufficiale rogante dell’ente locale [il segretario comunale o provinciale, per l’appunto]. Come tale, esso non è suscettibile di essere abrogato, perché, semmai, oggetto di abrogazione è la disciplina che lo prevede. Ma ciòtranseamus, perché la proprietà linguistica di questi tempi è una peculiarità che sovente [sempre piú spesso] sfugge al legislatore, il quale sembra volerla circoscrivere ai puristi del linguaggio o agli accademici della Crusca e/o loro accoliti. 

Ciò detto, quel che è incomprensibile sono le asserite ragioni e la ragionevolezza di una scelta oggi reiterata del legislatore dell’urgenza, che già in passato aveva operato in analogo modo, salvo poi ritornare con una certa fretta e con qualche pudore sui proprî passi. Le ragioni dell’incomprensibilità sono presto dette. 

I segretarî comunali e provinciali sono titolari di una potestà rogatoria prevista dall’art. 97, comma 4, lett. c), del d.lgs. 18.8.2000, n. 267, non toccato in questa sede e dunque pienamente ed incontrovertibilmente operante. Essa è una vera e propria eccezione – ed in questo senso è sempre stata considerata – alla generale competenza di rogitazione attribuita ai notaî dalle legge fondamentale che regola il loro status. Pur se derogatoria, essa ha ad oggetto atti pubblici dotati di identica forza: quella prevista dall’art. 2699 c.c.. L’atto pubblico cosiddetto “in forma pubblica amministrativa” e quello rogato dal notaio sono considerati equipollenti dall’art. 11, comma 13, del d.lgs. 12.4.2006, n. 163.

Il riferimento a quest’ultima disposizione è emblematico, perché pone il contratto rogato in forma pubblica amministrativa, quando ad esso vi si ricorra, come onere a carico dell’operatore economico assegnatario di un contratto pubblico, il quale, se si rivolge ad un notaio, paga le relative competenze professionali per lo svolgimento di un’attività che è esercizio di competenze professionali. Dunque, il contratto rogato per atto pubblico ha un costo, che è corrispettivo di un’attività caratterizzata ratione materiae e ratione officii.

Di qui la domanda cruciale, che il legislatore centrometrista sembra non aver preso in considerazione. Per quale ragione un operatore economico assegnatario di un contratto da parte di una pubblica amministrazione dovrebbe mai corrispondere alla stazione appaltante un provento che va interamente a vantaggio del suo bilancio? Qual è mai la percezione dell’operatore economico di una siffatta pretesa? Di qui la conclusione: se i diritti di rogito vanno puramente e semplicemente a vantaggio dell’ente pubblico e concorrono nella loro integralità al pareggio del suo bilancio, allora essi non sono altro che un costo ingiustificato pósto a carico di chi ha un vero e proprio diritto alla stipulazione del contratto. Diritto che col concorso al pareggio di bilancio del comune o della provincia non c’entra un’acca.

Prevedere comunque l’obbligatoria corresponsione dei diritti di rogito senza preordinarne una parte alla giusta remunerazione dell’ufficiale rogante – in questo caso al segretario comunale o provinciale – è del tutto irrazionale. Dunque, in base al principio di ragione, i diritti di rogito non già devono essere sottratti al riparto con l’ufficiale rogante, ma devono essere aboliti tout court, perché la loro esazione è priva di fondamento. Puramente e semplicemente, visto che la loro permanenza è del tutto irrazionale. Ciò però frustra la vera ragione perseguita incautamente dal legislatore antecanicolare dell’urgenza, il quale, per giunta, adombra – lo vogliamo ribadire e sottolineare – ragioni di necessità e di urgenza che denomina di “straordinaria necessità ed urgenza”, che a questi fini non sono realmente accampabili per l’ovvia ed assorbente ragione che non vi sono.

Ed ora la conclusione: prevedere la permanenza dei diritti di rogito, preordinandoli alla loro integrale acquisizione al bilancio del comune e della provincia è del tutto irragionevole ed irrazionale, e come tale, contrasta con l’art. 3 Cost.; disciplinare questa materia mediante lo strumento del decreto legge contrasta con l’art. 77 Cost. per flagrante assenza dei presupposti accampati dal legislatore e da esso enunciati con sottolineata ed impropria énfasi.

La conseguenza è ovvia: l’art. 10 del d.lgs. 24.6.2014, n. 90 è gravemente carente e si pone in evidente ed incontrovertibile contrasto con due norme costituzionali. “Frutto della fretta”, ci verrebbe da dire o forse precipitato del sopraggiungere dei caldi pre-estivi, che, per la verità, pur se intensi, si sono di recente smorzati. Il tutto, beninteso, salvi i retropensieri che ognuno ben può nutrire sulla materia.

Queste sono le ragioni per le quali l’art. 10 del d.l. 24.6.2014, n. 90 deve cadere in sede di conversione in legge. Per le medesime ragioni deve essere censurato l’intervento inopinatamente e frettolosamente operato nei confronti dei proventi delle avvocature degli enti pubblici e degli speciali proventi previsti in materia di progettazione di opere pubbliche e di redazione degli strumenti di pianificazione del territorio, per entrambi i quali la Corte dei conti in una sua formazione particolarmente autorevole ha riconosciuto la peculiarità (deliberazione della Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, 4.10.2011, n. 51/CONTR/11).

L’auspicio è dunque evidente: la maggior ponderazione della materia deve sorreggere il dibattito parlamentare che si svilupperĂ  in sede di conversione del d.l. 24.6.2014, n. 90 e deve condurre il legislatore nella pienezza dei proprĂ® poteri a fare piazza pulita di tre disposizioni normative monstre che ci siamo sforzati di commentare per dovere d’informazione, pur se, in ragione del loro contenuto, davvero incommentabili e mortificanti. Anche perchĂ© “fare cassa”, non corrisponde affatto alle ragioni dell’urgenza strombazzate con enfasi dal legislatore nomotheta: “fare cassa”, infatti, non ha alcuna attinenza con “la straordinaria necessitĂ  e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la piĂş razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione”.

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