riforma P.A. – mortificare la professionalità dei pubblici dipendenti

La piú stravagante delle misure in esame è prevista dall’art. 10 del d.l. 24.6.2014, n. 90 e riguarda l’“abrogazione dei diritti di segreteria di rogito del segretario comunale e provinciale e [l’]abrogazione della ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria”. Cosa i “diritti di segreteria di rogito” siano è cosa ben nota: essi sono il corrispettivo – di incerta natura giuridica – che viene corrisposto pro quota dall’assegnatario di un contratto pubblico all’ufficiale rogante dell’ente locale [il segretario comunale o provinciale, per l’appunto]. Come tale, esso non è suscettibile di essere abrogato, perché, semmai, oggetto di abrogazione è la disciplina che lo prevede. Ma ciòtranseamus, perché la proprietà linguistica di questi tempi è una peculiarità che sovente [sempre piú spesso] sfugge al legislatore, il quale sembra volerla circoscrivere ai puristi del linguaggio o agli accademici della Crusca e/o loro accoliti. 

Ciò detto, quel che è incomprensibile sono le asserite ragioni e la ragionevolezza di una scelta oggi reiterata del legislatore dell’urgenza, che già in passato aveva operato in analogo modo, salvo poi ritornare con una certa fretta e con qualche pudore sui proprî passi. Le ragioni dell’incomprensibilità sono presto dette. 

I segretarî comunali e provinciali sono titolari di una potestà rogatoria prevista dall’art. 97, comma 4, lett. c), del d.lgs. 18.8.2000, n. 267, non toccato in questa sede e dunque pienamente ed incontrovertibilmente operante. Essa è una vera e propria eccezione – ed in questo senso è sempre stata considerata – alla generale competenza di rogitazione attribuita ai notaî dalle legge fondamentale che regola il loro status. Pur se derogatoria, essa ha ad oggetto atti pubblici dotati di identica forza: quella prevista dall’art. 2699 c.c.. L’atto pubblico cosiddetto “in forma pubblica amministrativa” e quello rogato dal notaio sono considerati equipollenti dall’art. 11, comma 13, del d.lgs. 12.4.2006, n. 163.

Il riferimento a quest’ultima disposizione è emblematico, perché pone il contratto rogato in forma pubblica amministrativa, quando ad esso vi si ricorra, come onere a carico dell’operatore economico assegnatario di un contratto pubblico, il quale, se si rivolge ad un notaio, paga le relative competenze professionali per lo svolgimento di un’attività che è esercizio di competenze professionali. Dunque, il contratto rogato per atto pubblico ha un costo, che è corrispettivo di un’attività caratterizzata ratione materiae e ratione officii.

Di qui la domanda cruciale, che il legislatore centrometrista sembra non aver preso in considerazione. Per quale ragione un operatore economico assegnatario di un contratto da parte di una pubblica amministrazione dovrebbe mai corrispondere alla stazione appaltante un provento che va interamente a vantaggio del suo bilancio? Qual è mai la percezione dell’operatore economico di una siffatta pretesa? Di qui la conclusione: se i diritti di rogito vanno puramente e semplicemente a vantaggio dell’ente pubblico e concorrono nella loro integralità al pareggio del suo bilancio, allora essi non sono altro che un costo ingiustificato pósto a carico di chi ha un vero e proprio diritto alla stipulazione del contratto. Diritto che col concorso al pareggio di bilancio del comune o della provincia non c’entra un’acca.

Prevedere comunque l’obbligatoria corresponsione dei diritti di rogito senza preordinarne una parte alla giusta remunerazione dell’ufficiale rogante – in questo caso al segretario comunale o provinciale – è del tutto irrazionale. Dunque, in base al principio di ragione, i diritti di rogito non già devono essere sottratti al riparto con l’ufficiale rogante, ma devono essere aboliti tout court, perché la loro esazione è priva di fondamento. Puramente e semplicemente, visto che la loro permanenza è del tutto irrazionale. Ciò però frustra la vera ragione perseguita incautamente dal legislatore antecanicolare dell’urgenza, il quale, per giunta, adombra – lo vogliamo ribadire e sottolineare – ragioni di necessità e di urgenza che denomina di “straordinaria necessità ed urgenza”, che a questi fini non sono realmente accampabili per l’ovvia ed assorbente ragione che non vi sono.

Ed ora la conclusione: prevedere la permanenza dei diritti di rogito, preordinandoli alla loro integrale acquisizione al bilancio del comune e della provincia è del tutto irragionevole ed irrazionale, e come tale, contrasta con l’art. 3 Cost.; disciplinare questa materia mediante lo strumento del decreto legge contrasta con l’art. 77 Cost. per flagrante assenza dei presupposti accampati dal legislatore e da esso enunciati con sottolineata ed impropria énfasi.

La conseguenza è ovvia: l’art. 10 del d.lgs. 24.6.2014, n. 90 è gravemente carente e si pone in evidente ed incontrovertibile contrasto con due norme costituzionali. “Frutto della fretta”, ci verrebbe da dire o forse precipitato del sopraggiungere dei caldi pre-estivi, che, per la verità, pur se intensi, si sono di recente smorzati. Il tutto, beninteso, salvi i retropensieri che ognuno ben può nutrire sulla materia.

Queste sono le ragioni per le quali l’art. 10 del d.l. 24.6.2014, n. 90 deve cadere in sede di conversione in legge. Per le medesime ragioni deve essere censurato l’intervento inopinatamente e frettolosamente operato nei confronti dei proventi delle avvocature degli enti pubblici e degli speciali proventi previsti in materia di progettazione di opere pubbliche e di redazione degli strumenti di pianificazione del territorio, per entrambi i quali la Corte dei conti in una sua formazione particolarmente autorevole ha riconosciuto la peculiarità (deliberazione della Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, 4.10.2011, n. 51/CONTR/11).

 

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