L’unica via d’uscita per la Capitale: i partiti azzerino le proprie classi dirigenti

Lucia Annunziata

L’unica via d’uscita per la Capitale: i partiti azzerino le proprie classi dirigenti

Pubblicato: 09/12/2014 21:05 CET Aggiornato: 09/12/2014 21:07 CET

È un Matteo Renzi senza alcun tono soffice e senza alcun compiacimento mediatico, quello che abbiamo sentito. Il Premier ha, infine, indurito i suoi toni e dettato nuove regole: i corrotti non potranno patteggiare, ma “pagheranno” fino all’ultimo giorno di pena e fino all’ultimo centesimo. Non è un caso, in questo messaggio, né la scelta delle parole (pagheranno) né quella del mezzo – un video è sempre lo strumento più diretto per rivolgersi alla nazione.

Per transizione, la durezza ci racconta quanto il Presidente del Consiglio sia rimasto scosso e molto preoccupato della vicenda romana. E tuttavia, proprio questa vicenda che sta ispirando una nuova (e benvenuta ) linea sulla giustizia, non serve a costruire un argine contro la destabilizzazione della Capitale iniziata con gli arresti.

L’inchiesta va intanto avanti, a riprova che da parte degli investigatori c’è ancora molto da svelare. Stessa riprova ci fornisce l’accesso dato al Prefetto ai documenti del Comune – una sorta di commissariamento soffice, che però ci dice della convinzione delle autorità che molte cose sbagliate sono ancora da scoprire o sono ancora in atto.

E se l’inchiesta non è finita e i dubbi neanche, la verità semplice è che il terremoto non si è fermato, che si è ben lontani da un punto fermo da cui ricostruire la politica del Campidoglio. Al momento tutta la classe politica romana rimane dunque sospesa – fra paure, sospetti, dicerie, in una girandola di colpi bassi, bufere mediatiche e non, tentativi di distinguo e di scaricabarile. Si può davvero pensare che in questo clima si possa rimettere in asse il governo della città. Soprattutto, si può pensare di recuperare la nostra reputazione internazionale in questa fase così delicata, mantenendo in piedi una Capitale semi-commissariata e piena di voci e sospetti?

L’inchiesta romana per i modi e i tempi in cui avviene – il centro del nostro paese, e il nostro delicato passaggio economico in Europa – non è una delle tante retate: è lo specchio più crudele di quello che è il rischio default del nostro paese. Vi è intanto coinvolta tuta la classe politica, di destra come di sinistra, ed è solo a un passo dal potere centrale che per sua contiguità rischia di essere comunque coinvolto non fosse altro che per aver girato il volto dall’altra parte.

Ci sono molti distinguo da fare, ovviamente – è vero che la colpa non si estende mai a tappeto, su tutti e nella stessa misura. Ma è difficile non immaginare che il prolungamento della inchiesta e il permanere di condizioni di sospetto e incertezza non portino in un futuro non tanto lontano a una generalizzata condanna, a un processo al passato che porti a una generalizzata sfiducia in tutto quello che è Roma, che è la Capitale. 

Si capisce la logica di chi sostiene che Marino debba rimanere, ma nelle condizioni di terremoto attuale sostenere il sindaco non solo non basta, ma si rischia al contrario di bruciarlo nella marasma di una città che non si riesce a governare. Lo steso vale per la Provincia, per la Regione.

C’è un solo mezzo per uscire da queste sabbie mobili, e non è quello di stringere i denti e sperare di cavarsela. Al cuore dello scandalo di Roma c’è la ulteriore prova che la politica non ha oggi più da spendersi nessuna credibilità. La politica deve dunque prendere nelle proprie mani il processo politico a se stessa. Deve farlo la Destra, che però finora non pare intenzionata ad avviare nessun discorso in merito – la folta schiera della destra romana, quella di An o della sociale, quella istituzionale o quella del rinnovamento non si sente parlare. Verrebbe da dire: dove siete Fini (anche lui sì, ha qualche riflessione da fare su questi sviluppi?) e Gasparri, e Meloni? A sinistra il silenzio è però forse ancora maggiore: stupore, imbarazzi, distinguo è tutto quel che si sente.

Ma la giusta difesa della propria storia non si fa così, né a destra né a sinistra. C’è evidentemente a Roma un meccanismo che ha funzionato fin troppo bene, una macchina del consenso dentro cui si sono infilate troppe incognite, troppi uomini e scopi che con la politica non c’entravano o forse c’entravano troppo bene. Il primo partito che deciderà di fare una vera autocritica potrà fare una sola cosa: sciogliere i propri ranghi, pendersi del tempo e riesaminare il proprio percorso non attraverso le solite chiacchiere da convegno, ma con una robusta commissione di probi viri, che lavorino parallelamente e se possibile con tempi più accelerati dei magistrati.

Matteo Orfini, cui è stato il compito di avviare questo processo di pulizia, ha detto che saranno ora esaminati uno per uno gli 8000 iscritti del Pd – saranno chiamati, gli verranno fatte delle domande per capire le ragioni della loro partecipazione al Pd. È una strada buona nel senso del metodo. Ma non sono gli iscritti attuali il problema: il problema è la classe dirigente del partito, tutta la ampia fascia di persone che hanno governato e governano. Loro è la responsabilità politica se non morale. Il primo partito che a Roma prenderà tale decisione e accetterà il proprio fallimento sciogliendo i propri ranghi, sarà probabilmente anche il primo che nel tempo riuscirà a risorgere. Il contrario è solo il prolungare il declino.

 

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