Ancora sui diritti di rogito ai segretari comunali: una discriminazione inaccettabile

Ancora sui diritti di rogito ai segretarî comunali: una discriminazione inaccettabile

di Riccardo Nobile

 

Oggi vogliamo tornare sulla questione dei diritti di rogito già spettanti ai segretarî comunali [e provinciali]. Ce ne siamo occupati in un precedente intervento sulle pagine di questa Gazzetta. Di qui una prima domanda: occuparsene di nuovo è inattuale? E se è attuale, è forse questione oziosa? “Forse che sí, forse che no” ci verrebbe da dire. Ma qui il dirne si impone, perché in questo caso non ci si sta occupando di questioni di estetica letteraria o di storia della critica dei costumi, ma di questioni ben piú sèrie. La sollecitazione di derivazione danunziana non è però casuale. Qui, infatti, non si tratta di fare sfoggio di erudizione, ma di guardare alla realtà attraverso un approccio fenomenologico. Che è poi l’unico sensato, sostenibile e poss ibile.

Già, “forse che sí, forse che no”. Ma per chi? Prima di tutto un’annotazione di cronaca giuridica: il governo ha pósto la questione di fiducia sulla conversione in legge del noto d.l. 24.6.2014, n. 90, e lo ha fatto assumendo come rilevante il testo della fonte di regolazione come modificato ed integrato dai lavori della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati. La quale, per quel che ci interessa ora, ha aggiunto al testo dell’art. 10 del d.l. 24.6.2014, n. 90 i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, il cui testo è il seguente: “negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell’articolo 30, secondo comma, della legge 15 novembre 1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 8 giugno 1962, n. 604, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento. Le norme di cui al presente articolo non si applicano per le quote già maturate alla data di entrata in vigore del presente decreto. All’art. 97, comma 4, lettera c), del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n, 267, le parole «può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed autenticare», sono sostituite dalla seguenti: “roga, su richiesta dell’ente, i contratti di cui l’ente è parte e autentica”.

Dopo il preambolo è ora possibile affrontare la questione, riprendendo l’adagio introduttivo: “forse che sí, forse che no”.

Nella logica della prima alternativa, le integrazioni della commissione Affari costituzionali rispondono alla logica bene esplicitata dal saggio Categorie del politico di Carl Schmitt, che la riconduce alla tensione dialettica, che diviene tensione autenticamente lacerante, fra le categorie “amico” – [ma forse meglio sarebbe dire “v.s.”] “nemico”: “la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico e nemico. Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per l a morale, bello e brutto per l’estetica e così via. In ogni caso essa è autonoma non nel senso che costituisce un nuovo settore concreto particolare, ma nel senso che non è fondata né su una né su alcuna delle altre antitesi, né è riconducibile ad esse. Se la contrapposizione di buono e cattivo non è identica senz’altro e semplicemente a quella di bello e brutto o di utile e dannoso, e non può essere direttamente ridotta ad esse, ancor meno la contrapposizione di amico e nemico può essere confusa con una delle precedenti. Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stes so tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”. Cosa significa tutto ciò? Nulla di piú e nulla di meno ch e contrapporre i segretarî comunali non dirigenti ai segretarî comunali [e provinciali] che posseggono tale qualifica. E contrapporre questi ultimi ai restanti dirigenti della pubblica amministrazione. Commettendo però il tragico errore di non considerare la specificità della funzione rogante che spetta ex lege a tutti i segretarî comunali [e provinciali], indipendentemente dalla qualifica rivestita e posseduta. E perché no, spingendo il concetto un po’ oltre, a contrapporli anche a tutti coloro che dirigenti non sono perché neppure pubblici dipendenti, con ciò evocando la circostanza che i diritti di rogito, da sempre spettanti ai segretarî comunali [e provinciali], sono un fastidioso privilegio. Senza rammemorare che i contratti degli enti locali devono pur essere rogati, e che la potestà rogator ia dei segretarî comunali è derogatoria rispetto a quella dei notaî, il cui esercizio, com’è ben noto, ha costi di gran lunga maggiori per le imprese. Col che altro non si vuol dire se non che i segretarî comunali-dirigenti sono nemici di chi combatte i privilegî e di chi di simili privilegî non gode, senza che chi si erige ad “amico” [ma dopo tutto, amico di chi?] nulla o poco [o forse troppo, perché li ha incontrati sul proprio cammino] sappia di loro. Di qui la conclusione sul punto: il legislatore che perseveri in questa direzione non è legislatore-nomotheta perché non persegue l’eunomia, ma solo un demagogo.

Nella logica della seconda alternativa il problema si complica, e l’analisi si sposta per intero sul piano giuridico. Cosa significa prevedere che non tutti i segretarî comunali abbiano diritto alla percezione dei diritti di rogito? E prima ancóra è ammissibile che il d.l. 24.6.2014, n. 90 tratti dei diritti di rogito [cosí come pure dei c.d. “diritti di toga” e dei c.d. “compensi meloni”]?

Prima di tutto è bene rispondere alla seconda delle questioni. Che il d.l. 24.6.2014, n.90 tratti dei compensi de quibus è privo di fondamento giuridico. Per dimostrarlo efficacemente è sufficiente rammemorare che il suo art. 10 è al di fuori della lettura costituzionalmente orientata dell’art. 77 Cost., che legittima il ricorso alla decretazione d’urgenza riconosciuta al governo. Ed infatti, ad un’attenta lettura dell’art. 10 del d.l. 24.6.2014, n. 90 non è difficile accorgersi che le dichiarate ragioni che supportano il ricorso alla decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost. non hanno la benché minima attinenza e che nulla hanno a che spartire con asserite motivazioni di “straordinaria necessità ed urgenza” evocate nel suo incipit, che vogliamo riportare per tabulas: “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la piú razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l’accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione”. Quale sia la pertinenza fra i due termini della relazione non è dato comprendere, per l’ovvia ragione che una relazione purchessia non v’è.

Quanto alla seconda delle questioni póste, differenziare l’indifferenziabile è un po’ come cercare di flettere l’inflessibile. La funzione rogante da sempre scritta al segretario comunale [e provinciale] è ontologicamente unitaria e non frazionabile. Prevedere che la specifica remunerazione che essa determina sia riconosciuta solo ad alcuni segretarî comunali determina una contraddizione insanabile di fondo perché differenzia irragionevolmente quoad effectum ciò che in causa è identico: proprio l’esercizio della medesima funzione, che si esplica nel medesimo modo. A ciò si aggiunge l’ulteriore stridente contraddizione fondata sulla circostanza che i diritti di rogito sono un vero e proprio diritto retributivo previsto dalla contraddizione collettiva nazionale a favo re di tutti i segretarî comunali e provinciali e che l’art. 2, comma 3, terza proposizione del d.lgs. 30.3.2001, n. 165 demanda proprio alla contrattazione collettiva la regolamentazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici in generale: “l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e salvo i casi previsti dal comma 3-ter e 3-quater dell’articolo 40 e le ipotesi di tutela delle retribuzioni di cui all’articolo 47-bis, o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali”. 

Ed ora la conclusione, che non può che essere una: la nuova disciplina dei diritti di rogito prevista dal d.l. 24.6.2014, n. 90 è gravemente viziata da incostituzionalità per contrasto con gli artt. 77, 36, 39 e 97 Cost. La nuova disciplina dei diritti di rogito come risulta delle modificazioni introdotte dalla commissione Affari costituzionali nei termini citati è anch’essa viziata da incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. perché differenzia l’indifferenziabile e, per giunta, lo fa travalicando il paradigma della ragionevolezza. A ciò si aggiunge, sia nel primo, sia nel secondo caso, che l’ablazione dei diritti di rogito a parità di prestazione lavorativa ha significato pratico di prestazione patrimoniale imposta, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano delle pert inenti censure di incostituzionalità, osservando soprattutto che nessuna prestazione patrimoniale totalmente ablatoria può essere ragionevolmente imposta quando a parità di presupposto in altra ipotesi essa lo è solo parzialmente. Proprio com’è in questo caso, nel quale a parità di presupposto, ossia l’esercizio della medesima funzione rogante, corrisponde un trattamento che in un caso nega, nell’altro prevede la spettanza dell’effetto economico che da essa consegue per legge e qui anche per contratto collettivo.

Ed ora l’auspicio: il governo ha pósto la questione di fiducia sulla legge di conversione del d.l. 24.6.2014, n. 90 cosí come modificato dalla commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati. E tale fiducia ha conseguito a maggioranza dei voti espressi. Dinanzi alle evidenti censure di incostituzionalità è bene che in seconda lettura il Senato licenzi un testo al quale è estranea la disciplina dei diritti di rogito dei segretarî comunali [e provinciali], cosí come pure quella dei c.d. “diritti di toga” e dei c.d. “compensi merloni”. Il tutto non solo per evidenti questioni di coerenza ordinamentale, che non è certo questione di poco conto, ma anche per scongiurare l’instaurazione di copioso e preannunciato contenzioso dinanzi sia alla Corte costituzionale, sia ai Tr ibunali del lavoro. 

Il perché è ovvio, ma vale qui lo sforzo di rammemorarlo: le riforme fatte ad ogni costo sono pessime riforme; le riforme ad evidente rischio di contenzioso si rivelano presto per il contrario di quel che sono: esse sono nulla. E cosí come vengono in essere dal nulla, apparendo effimeramente, altrettanto sono destinate a finirvi senza lasciare traccia. Come del resto è giusto che sia.

 

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