27/10/2020 – E’ legittima la sanzione irrogata dal Garante privacy nei confronti di un comune per aver diffuso i dati personali di un dipendente comun. per un periodo superiore ai 15 giorni stabiliti come periodo necessario di pubblicazione delle delibere

E’ legittima la sanzione irrogata dal Garante privacy nei confronti di un comune per aver diffuso i dati personali di un dipendente comun. per un periodo superiore ai 15 giorni stabiliti come periodo necessario di pubblicazione delle delibere nell’albo pretorio.
 
Corte di Cassazione, sez. II, 3/9/2020 n. 18292
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Civile Ord. Sez. 2 Num. 18292 Anno 2020
Presidente: GORJAN SERGIO
Relatore: COSENTINO ANTONELLO
Data pubblicazione: 03/09/2020
 
sul ricorso 2176/2017 proposto da:
 
Comune Santa Ninfa, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Giacomo Boni 15 presso lo studio dell’avvocato Sambataro Elena che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Lentini Giovanni
-ricorrente
contro
Garante Protezione Dati Personali, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis
 -controricorrente
 
avverso la sentenza n. 308/2016 del TRIBUNALE di SCIACCA, depositata il 06/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/12/2019 da COSENTINO ANTONELLO
 
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Il Comune di Santa Ninfa ha proposto ricorso, sulla scorta di quattro motivi, per la cassazione della sentenza con cui il tribunale di Sciacca ha rigettato l’opposizione dal medesimo proposta avverso l’ordinanza ingiunzione n. 193 del 26 marzo 2015 del Garante per la protezione dei dati personali. Con detta ordinanza il Garante aveva irrogato al Comune la sanzione di 4.000 euro ai sensi dell’art. 162, comma 2 bis, del d.lgs. 196 del 2003 (c.d. codice della privacy) per la violazione dell’art. 19, comma 3, dello stesso decreto, commessa dal Comune diffondendo dati personali di una dipendente comunale per un periodo superiore ai quindici giorni stabiliti come periodo necessario di pubblicazione delle delibere comunali nell’albo pretorio dall’art. 124 del d.lgs. 267 del 2000 (TUEL – Testo Unico Enti Locali).
Il tribunale di Sciacca, nel rigettare l’opposizione proposta dal Comune di Santa Ninfa, argomenta che quest’ultimo aveva mantenuto visibili per oltre un anno sul proprio albo pretorio on line determinazioni dirigenziali dalle quali risultavano non soltanto il nome e il cognome della dipendente e l’esistenza di un contenzioso tra la stessa e l’Amministrazione municipale (dati funzionali a giustificare la nomina di un difensore e il conseguente impegno di spesa per il Comune) ma anche lo stato di famiglia dell’interessata e le circostanze che la medesima viveva da sola, che aveva avanzato una domanda di rateizzazione del dovuto e che tale domanda non era stata accolta. Si trattava, si legge nell’impugnata sentenza, di informazioni che, non afferendo all’assetto organizzativo degli uffici, non potevano ricondursi alle strette esigenze di trasparenza amministrativa, cosicché il loro contenuto avrebbe imposto al Comune di avviarle celermente verso l’archiviazione e l’oblio, dopo la scadenza del termine di cui all’art. 124 TUEL.
Il Garante per la protezione dei dati personali, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha presentato controricorso. La causa è stata chiamata all’adunanza di camera di consiglio del 17 dicembre 2019, per la quale non sono state depositate memorie.
Con il primo motivo di ricorso, riferito al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., il Comune di Santa Ninfa denuncia la violazione del comma 3 bis dell’art. 19 del d.lgs. 196/2003 e del primo comma dell’art. 11 del d.lgs. 150/2009, entrambi abrogati dal d.lgs. n. 33/2013 ma nella specie applicabili ratione temporis.
Secondo il Comune di Santa Ninfa la pubblicazione nell’albo pretorio delle determinazioni amministrative de quibus, contenenti dati non sensibili della dipendente, sarebbe stata imposta:
– dall’art. 19, comma 3 bis, d.lgs. 196/2003, che prevede l’accessibilità delle notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica (con esclusione delle notizie espressamente qualificate non ostensibili);
 – dall’art. 124 del d.lgs. 267/2000, che prevede, in conformità con il disposto dell’art. 11 dello Statuto del Comune, la pubblicazione di tutte le deliberazioni dei comuni e delle provincie per un termine (minimo) di quindici giorni consecutivi;
– dall’art. 11 del d.lgs. 150/2009, che, argomenta il ricorrente, fonda la prevalenza del principio della trasparenza sul principio della privacy, imponendo l’accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione, gli andamenti gestionali e l’utilizzo delle risorse anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, allo scopo di attuare il principio democratico e i principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.
Il motivo non può trovare accoglimento. Il Comune è stato sanzionato non per aver pubblicato sul proprio sito le determinazioni dirigenziali de quibus, ma per aver mantenuto la pubblicazione oltre il termine di quindici giorni previsto dall’articolo 124 TUEL (cfr. pag. 4, ultimo capoverso, della sentenza). Il tribunale ha confermato la sanzione sul rilievo che la pubblicazione era lecita nei limiti del 124 TUEL, a cui è conforme l’art. 11 dello Statuto del Comune di Santa Ninfa, ma non poteva ritenersi consentita per un tempo eccedente i quindici giorni imposti da quest’ultima disposizione, in quanto riguardava notizie relative alla vita privata dell’impiegata (il suo stato di famiglia, il fatto di vivere sola, la proposizione di domanda di rateizzazione, il mancato accoglimento della stessa), le quali non afferivano all’assetto organizzativo degli uffici e pertanto non potevano ricondursi alle esigenze di trasparenza amministrativa.
Tale argomentazione, al contrario di quanto sostenuto nel mezzo di ricorso in esame, non si pone in contrasto né con l’articolo 11, primo comma, d.lgs. 150/09, né con l’art. 19, comma 3 bis, d.lgs. 196/93. Quanto all’art. 11, primo comma, d.lgs. 150/09, conviene riportarne integralmente il testo: «La trasparenza è intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità. Essa costituisce livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione»; le menzionate notizie relative alla vita privata dell’impiegata non riguardavano alcun “aspetto dell’organizzazione”, né costituivano “indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse”, né rappresentano “risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti”; la pubblicazione di dette notizie non può dunque ritenersi legittimata dall’art. 11, primo comma, d.lgs. 150/09. Quanto all’articolo 5 19, comma 3 bis, d.lgs. 196/93, è sufficiente considerare che i dati dell’impiegata che sono stati resi pubblici per un tempo maggiore di quello imposto dall’articolo 124 TUEL non riguardavano lo svolgimento delle prestazioni di costei. Donde la complessiva infondatezza del primo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo di ricorso il Comune di Santa Ninfa deduce la violazione dell’art. 132 co. 1 n. 4 c.p.c. e la nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c. per mancanza di motivazione in ordine alla denunziata violazione dell’art. 162, comma 2 bis, del codice della privacy. Il ricorrente lamenta la mancata motivazione sulla (implicita) reiezione, da parte del Tribunale, dell’argomentazione difensiva del Comune secondo cui la sanzione inflitta al Comune sarebbe priva di base legale, perché la norma applicata nell’impugnato provvedimento del Garante – l’art. 162, comma 2 bis, d.lgs. 196/93 – non sanzionerebbe la contestata violazione dell’articolo 124 TUEL, richiamando solo gli artt. 33 e 167 dello stesso d.lgs. 196/93 .
Il motivo va disatteso, non sussistendo la dedotta nullità della sentenza per assenza di motivazione; va qui ricordato l’insegnamento di questa Corte alla cui stregua la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ. non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l'”iter” seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. n. 8294/11). Può peraltro aggiungersi, per ragioni nomofilattiche, che, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, l’articolo 19 del d.lgs. 196/93 rientra(va) tra le disposizioni la cui violazione, per effetto del richiamo dell’ art. 162 all’art. 167 dello stesso decreto (nel testo applicabile ratione temporis) costituiva illecito amministrativo quando, difettando il dolo specifico, non costituisse reato.
Con il terzo e quarto motivo di ricorso, riferiti rispettivamente al n. 3 e al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., si attinge la statuizione con cui il Tribunale ha rigettato il motivo di opposizione relativo al difetto dell’elemento psicologico dell’illecito amministrativo rappresentato dalla colpa. L’omessa rimozione dall’ albo pretorio on line dei dati personali della dipendente, secondo il Comune, non sarebbe al medesimo imputabile, poiché esso – come lo stesso Comune lamenta di aver inutilmente chiesto di provare per testi – si era avvalso, non disponendo di personale dotato delle specifiche professionalità richieste, dell’opera di un consulente esterno, al quale era stato dato l’incarico di configurare il sito internet del Comune in conformità alla normativa vigente.
In particolare, il ricorrente denuncia, con il terzo motivo, la violazione dell’art. 3 della I. 689/1981 e, con il quarto motivo, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione.
Il terzo motivo va disatteso. Va premesso che, come precisato in Cass. n. 8184/14, ai sensi dell’art. 28 del codice in materia di protezione dei dati personali, il titolare del trattamento è la persona giuridica, non il legale rappresentante o l’amministratore, e che, come sottolineato in Cass. n. 13657/16, detto codice deroga al principio della imputabilità personale della sanzione di cui alla legge n. 689/1981, configurando, nello specifico regime sanzionatorio ivi dettato, un’autonoma responsabilità della persona giuridica. Tale responsabilità non può ritenersi oggettiva ma, analogamente a quanto previsto dal d.lgs. 231/2000 in tema di responsabilità da reato degli enti, va configurata come “colpa di organizzazione”, da intendersi, in senso normativo, come rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione degli illeciti (cfr. SSUU Penali n. 38343/14). Correttamente, quindi, il Tribunale ha negato efficacia esimente alla circostanza che il ritardo nella rimozione dal sito web dei dati personali della dipendente sia dipesa da una disfunzione degli applicativi informatici gestiti da un consulente esterno, rilevando che tale circostanza era «pienamente riconducibile alla sfera di signoria dell’Ente e de/suo apparato» (pag. 7 della sentenza).
Il quarto motivo va pur esso rigettato, alla luce delle considerazioni già svolte nel corso dell’esame del secondo motivo in ordine alla portata del disposto dell’articolo 132, co. 1, n. 4 c.p.c. Il tribunale ha sufficientemente dato conto delle ragioni della propria decisione in punto di colpa dell’Amministrazione municipale mediante il richiamo alla riconducibilità dell’illecito alla sfera di signoria dell’Ente.
Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza. Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/02, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e infondato.
Condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in 1.500 euro, oltre 200 euro per esborsi ed oltre accessori di legge. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 17 dicembre 2019

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