13/11/2020 Le società pubbliche (Relazione introduttiva al Webinar del 9 novembre 2020 del Pres. Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi)

L’importanza di questo seminario di studi –promosso in occasione della presentazione di un “poderoso” trattato sulle società pubbliche- risiede nella rilevanza che, negli ultimi anni, ha assunto il settore delle società a partecipazione pubblica, che –come ben osservato nel saggio introduttivo del trattato- va delineandosi sempre più come una sorta di sub-ordinamento, oggetto di una congerie di interventi normativi culminati nel Testo Unico (Tusp) del 2016, poi integrato dal decreto correttivo» del 2017 a seguito del noto intervento della Corte costituzionale, originato quest’ultimo dall’illegittimità di profili principalmente formali, sul piano procedimentale, del decreto del 2016.

E, come già accaduto negli anni precedenti, tali interventi hanno prodotto un ampio dibattito, in dottrina come in giurisprudenza e nelle varie sedi di governo e all’Anac: il tutto a conferma del fatto che ci troviamo ormai di fronte a un settore a parte del diritto, al quale non so se possa riconoscersi davvero autonomia scientifica in senso stretto, ma che incrocia gli ambiti del diritto civile, del diritto commerciale, del diritto amministrativo, del diritto penale, del diritto del lavoro, con specifiche caratteristiche trans-settoriali, ma anche interdisciplinari (penso ai profili aziendalistici e macroeconomici), in un intersecarsi di saperi imposto dalla complessità della società contemporanea.

Se al grosso pubblico e alla politica il fenomeno interessa come punta di emersione di problematiche di natura finanziaria per lo più collegate alla cattiva gestione di queste società, soprattutto a livello locale, per lo studioso la tematica suscita ben altri interrogativi. Il fenomeno è di grande interesse anche per gli economisti, come dicevo poc’anzi, ma è indubbio che per la scienza giuridica, e per quella giuspubblicistica in particolare, la relativa tematica è assai risalente (ricordo il saggio di Cammeo, pubblicato postumo “in memoria” nel 1947, su “società commerciale ed ente pubblico”), ha riguardato nei decenni il mondo delle aziende pubbliche e in particolare di quelle municipali, è stata studiata in una con le forme di gestione delle varie tipologie dei servizi pubblici e, ancor prima, in connessione con le cd. funzioni (o compiti) facoltative dello Stato e degli enti pubblici.

L’interesse nei decenni per tale tematica deriva probabilmente dal dibattito, storicamente variabile e mai sopito, sul ruolo dell’intervento pubblico nell’economia –il cui perimetro e la cui intensità variano a soffietto, ora estendendosi ora riducendosi, a seconda delle contingenze economiche e delle politiche dei governi- e sui rapporti tra mercato e pubblica amministrazione, con una considerazione, spesso distinta, tra servizi di interesse economico e servizi sociali. E le ricadute politiche della tematica furono sottolineate già negli anni 70 da Giuseppe Guarino, che, con riferimento al settore delle partecipazioni statali, ebbe a parlare esplicitamente di un problema politico degli enti di gestione, derivante dall’innesto di una capacità negoziale privatistica, con il corollario dell’utilizzazione degli strumenti di diritto comune, in soggetti formalmente pubblicistici.

Ma più di recente l’interesse dogmatico per il fenomeno delle società pubbliche riposa proprio sull’uso del modello societario, e quindi di una soggettività anche formalmente privatistica, e degli strumenti del diritto privato da parte delle pubbliche amministrazioni nonché sul particolare regime giuridico che ne consegue, in termini di diritto comune (a pubblico e privato) o di diritto derogatorio o speciale rispetto al diritto comune. Ed è indubbio che l’attenzione degli studiosi, ma anche del legislatore nazionale, sia stata poi imposta dalle sollecitazioni provenienti dal diritto europeo, sotto svariati profili per lo più riconducibili alla concorrenza e al mercato, ma anche alla cd. libertà di autoproduzione delle amministrazioni pubbliche.

Di tale interesse sul piano della teoria generale e della sistematica giuridica è ben dato conto nel saggio introduttivo del trattato. La società partecipata da un ente pubblico (stato, regioni, comunità montane, comuni, province ecc.) sembra ormai assurta al rango di vera e propria «fattispecie», e probabilmente assumerà sempre maggiore rilevanza in un futuro, visto l’orientamento politico maturato nell’emergenza sanitaria in tutta Europa, non più sfavorevole alla proprietà pubblica e all’impresa pubblica, in un continuo oscillare delle politiche economiche, peraltro comprensibile perché legato alle contingenze politiche e agli andamenti dell’economia, tra una impostazione keynesiana e una più spiccatamente liberista, legata alla libertà del mercato e della concorrenza.

 

La riflessione sistematica, ovviamente, non può che muovere dal dato positivo, che abbiamo detto essere in costante evoluzione negli ultimi decenni, fino alla disciplina attuale. Le principali direttrici su cui si è mosso il legislatore riguardano: l’utilizzo del tipo delle società di capitali, anche consortili; l’espressa previsione ed elenco delle attività perseguibili con il modello; le regole sulla governance delle società e sui limiti ai compensi degli amministratori; le procedure per la costituzione, il mantenimento e l’alienazione delle partecipazioni; l’esclusione parziale delle società quotate dall’applicazione del testo unico; gli obblighi di dismissione per le società che non soddisfano specifici requisiti; la gestione transitoria  del personale dipendente.

Il testo unico contiene principi importanti. Di fondo, chiarisce una volta per tutte che una società è una società, e come tale va trattata, in linea con l’orientamento che già fu anticipato dal Cammeo. È stata infatti più volte rimarcata la previsione del Tusp, secondo cui esso costituisce un insieme di norme speciali, ma a carattere integrativo: «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato».

Questa prospettiva pare trovare ulteriore conferma anche nei recentissimi provvedimenti emanati dal Governo per fronteggiare la crisi non solo sanitaria ma anche economica. L’assenza di norme di coordinamento di tali interventi con il Testo Unico delle partecipate pubbliche va letta probabilmente nell’ottica di considerare le società partecipate come definitivamente assoggettate al diritto delle società, cosicché gli interventi sulla comune disciplina delle procedure concorsuali, per esempio, sono da considerarsi automaticamente estesi anche alle società pubbliche.

 

A monte, queste incertezze convergono nella difficoltà di tener conto delle specificità ordinamentali e soprattutto disciplinari, ratione materiae: d’altronde –come rilevano i curatori nel saggio introduttivo- il diritto pubblico o il diritto amministrativo mai potranno entrare appieno nella forma mentis di un societarista o di un fallimentarista (ed è vero anche la reciproca).

L’equivoco principale si è rivelato quello riguardante il tipo di disciplina da applicare alle società in mano pubblica, equivoco nato in passato dalla errata impostazione secondo cui la partecipazione di una pubblica amministrazione a una società di capitali potesse alterarne la struttura, dando vita a un «tipo» di diritto speciale. In particolare, una certa impostazione, ignara delle complessità sistematiche, partendo dal principio della neutralità della forma giuridica rispetto alla natura dello scopo, ma alla fine travisando il presupposto stesso della neutralità, è arrivata ad attribuire alle società partecipate una connotazione pubblicistica, frutto di una sostanziale mutazione genetica nel senso di una riqualificazione del soggetto.

La riforma introduce sicuramente una serie di norme speciali ad hoc, ma dubito che queste facciano emergere un tipo di società a sé stante, probabilmente perfino nel caso più “pubblicistico”, cioè quello di società c.d. in house providing.

A parte i casi di società c.d. legali (istituite, trasformate o comunque disciplinate con apposita legge speciale), convengo che ci troviamo sempre di fronte a società di diritto comune, in cui pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano, e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica, che regola il contegno del socio pubblico, e quella privatistica, che regola il funzionamento della società, convivono. Con aspetti anche teorici di non facile composizione, quale il rapporto tra interesse sociale e interesse pubblico.

 

In questi anni abbiamo assistito alla crescente e progressiva espansione delle società a partecipazione pubblica locale, anche attraverso la trasformazione di aziende speciali, consorzi e istituzioni avvenuta prevalentemente venti anni fa.

Ed oggi si confondono due fenomeni che andrebbero tenuti distinti: la partecipazione pubblica nelle società e la costituzione delle società per la gestione dei servizi pubblici locali.

Il legislatore è ripetutamente intervenuto sulla deviazione dell’utilizzo dello strumento societario da parte delle pubbliche amministrazioni soprattutto locali, che ha avuto spesso mere finalità di consentire l’affidamento diretto della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate, in deroga ai princìpi della concorrenza, se non semplicemente in evidente elusione degli stessi.

Di certo questo fenomeno è stato favorito dall’incerta definizione perimetrale dei servizi pubblici, che includono quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche quelli riguardanti attività tendenti a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare a funzioni che costituiscono tipiche attività istituzionali o strumentali dell’ente. Dall’altra parte è stata incentivata la gestione mediante società partecipate in un’ottica rivolta (solo) formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e a una privatizzazione effettiva (come auspicato dal legislatore sin dal lontano 1942), ma in realtà sostanzialmente diretta a sottrarre comparti dell’amministrazione ai vincoli di bilancio e di norme pubblicistiche, per esempio in materia di assunzioni e personale.

 

Altro profilo da considerare, accanto alla già rilevata «sovraregolamentazione» del settore, lo spazio acquisito dalla soft law, nell’ambito della quale un posto di tutto rilievo è stato assunto in questi anni dall’Anac, che si è trovata in più occasioni ad emettere indicazioni vincolanti per gli operatori, non solo al fine di chiarire alcuni aspetti legati alla prevenzione della corruzione, ma anche, in più ampio spettro, al fine di fornire chiarimenti su aspetti che la disciplina legislativa lasciava scoperti, quali ad esempio la nozione di controllo analogo o la definizione del controllo pubblico in caso di società pluri-partecipate con partecipazioni anche ‘pulviscolari’.

Una panoramica dei temi su cui si è sviluppato il maggior numero di dibattiti dimostra infatti come su ciascuno di essi l’Autorità sia intervenuta, a partire dall’emissione delle linee guida generali del 2017.

Tra essi, spicca quello legato alla nozione di controllo pubblico.

A tal riguardo, da ultimo con la delibera n. 859 del 25 settembre 2019, l’Anac ha fornito la propria interpretazione di società a controllo pubblico ai fini dello svolgimento della propria attività di vigilanza di cui alla l. n. 190/2012 e al d.lgs. n. 33/2013, anche al fine di appianare i contrasti emersi in seno alla Corte dei conti, tra la sezione controllo e quella giurisdizionale, al fine di verificare il rispettivo ambito di intervento. Ai propri fini – questo il contenuto più importante della delibera de qua – l’Anac ritiene la partecipazione pubblica maggioritaria al capitale sociale quale indice presuntivo della situazione di controllo pubblico. Si tratta di una presunzione suscettibile di prova contraria in quanto la società interessata che intenda rappresentare la non configurabilità del controllo pubblico è tenuta a dimostrare l’assenza del coordinamento formalizzato tra i soci pubblici, desumibile da norme di legge, statutarie o da patti parasociali, ovvero l’influenza dominante del socio privato, se presente nella compagine societaria.

 

La riforma è oramai in vigore da quasi quattro anni, e numerosi aspetti di essa sono stati approfonditi nella prassi e negli orientamenti della Corte dei Conti, dell’Anac, della giurisprudenza ordinaria e amministrativa, di merito e di legittimità.

E ora che le società pubbliche sembrano avere un assetto sempre consolidato già emergono all’orizzonte nuovi fenomeni e nuovi assetti: un esempio per tutti, le fondazioni di partecipazione, non disciplinate dal testo unico e nemmeno dal testo unico del terzo settore; fondazioni che pertanto, dotate formalmente di natura di soggetti privati, restano disciplinate dalla scarna, se riferita a tale fenomeno, normativa del Libro Primo del codice civile.

 

Concludo nell’ottica dell’amministrativista. Quello delle società pubbliche –come sono andato accennando nel corso del mio intervento- è sicuramente uno di quei temi che, sul piano della teoria generale ma sulla base dei dati positivi, costituisce un momento dell’incessante dialogo tra diritto pubblico e diritto privato. Un dialogo che ha caratterizzato il nascere della scienza amministrativistica italiana, in cui forte era presenza di categorie civilistiche nella ricostruzione di istituti pubblicistici (penso al pubblico impiego, alle concessioni amministrative, ai cd. contratti ad oggetto pubblico), che si è sviluppato nella ricerca di un’autonomia del diritto amministrativo in termini di “specialità” nel primo Novecento, per approdare prima a una ricostruzione degli istituti di diritto amministrativo in termini privatistici (penso a Giovanni Miele, e in certa misura a Giannini), e poi a teorizzare una certa, come dire, “intercambiabilità” tra diritto privato e diritto pubblico nella disciplina giuridica di alcune fattispecie. Questa sorta di “indifferenza”, che tale non è se non apparente, deriva a mio avviso dalla tradizione giuridica italiana, che, nella sua storica presa di distanza dalla scuola esegetica francese e dal dogmatismo di certa pandettistica, è andata sviluppandosi nel senso della ricerca di un continuo adattamento degli istituti, e delle stesse categorie giuridiche, alle esigenze di una società in continuo divenire; per far sì che il diritto serva alla società e alle sue esigenze di regolazione anzi che ai giuristi e alle loro esigenze di “fare sistema”. Il che non vuol dire rinunciare al fondamentale ruolo ordinante del diritto ma solo evitare di cadere in “trappole dogmatiche” che allontanino il diritto e i giuristi dalla realtà da regolare.

Per tornare a noi, e concludere davvero, questo convegno e lo stesso trattato denotano una impostazione di fondo diretta sì a porsi problemi interpretativi e qualificatori ma soprattutto a trovare le basi su cui rilanciare il modello societario in un momento storico caratterizzato dal necessario intervento nell’economia, incentivandone l’uso virtuoso ed al tempo stesso disincentivandone l’abuso.

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