14/07/2020 – Ancora sull’assurda guerra dei buoni pasto

Ancora sull’assurda guerra dei buoni pasto
 
Italia Oggi dell’11 luglio 2020 ospita un intervento di Maurizio Petriccioli, Segretario generale della Cisl Fp, titolato “Pa, il lavoro da remoto non è smart working” nel quale si legge: 
Nell’articolo «P.a., Smart Working senza ticket», a firma di Luigi Oliveri pubblicato su ItaliaOggi del 10 luglio 2020, viene riportato il contenuto di una sentenza del Tribunale di Venezia dalla quale sembrerebbe trarsi un principio generale che considera il buono pasto non compatibile con lo smart working, dato che per l’erogazione dello stesso sono richiesti determinati requisiti minimi di durata giornaliera della prestazione lavorativa, mentre nello smart working il lavoratore sarebbe «libero di organizzare come meglio ritiene la prestazione sotto il profilo temporale».
Va chiarito che, durante l’emergenza, il lavoro agile non ha avuto le caratteristiche proprie della legge 81/2017 che lo definisce come una modalità organizzata «per fasi, cicli e obiettivi» e senza «vincoli di orario o di luogo». Durante l’emergenza i dipendenti, pur lavorando da remoto, non hanno potuto scegliere il luogo della prestazione e neppure conciliare tempi di vita e lavoro.
Non è venuta dunque meno la continuità della prestazione lavorativa che nella gran parte degli enti si è svolta durante l’orario di servizio per il tempo necessario alla maturazione del buono mensa.
In secondo luogo, si afferma che, sulla base della legge e della circolare n. 2/2020 della ministra della pubblica amministrazione Fabiana Dadone, la materia non sarebbe oggetto di contrattazione ma di semplice confronto.
Ciò vale per le scelte organizzative relative al lavoro agile ma la disciplina del rapporto di lavoro resta regolata dalla contrattazione, specie nel caso in cui la prestazione svolta non è quella prevista dalla legge sullo «Smart Working», ma un lavoro effettuato «da remoto». Siamo di fronte a un «vuoto» contrattuale che va rapidamente colmato.
Anche dopo l’emergenza, se gli enti vorranno continuare ad avvalersi del lavoro «da remoto» prevedendo una organizzazione con precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro e non per «fasi, cicli e obiettivi», ad esso andranno applicati tutti gli istituti del lavoro in presenza“.
L’attenzione che il Segretario della Cisl FP riserva ad uno scritto di chi gestisce questo blog fa onore e di ciò ringraziamo, senza esimerci, tuttavia, dal segnalare che non è chi scrive ad aver deciso delle sorti della vertenza attivata dalla Cgil avverso il comune di Venezia, bensì il giudice del lavoro di Venezia.Per solito, infatti, non sono gli articoli di giornale – fortunatamente –  a decidere le controversie. Articoli e scritti si limitano a riportare fatti e, nel caso di questioni connesse con regole normative, ad analizzarle e provare ad interpretarle, fermo restando che la parola finale è solo del giudice e del legislatore. 
Per il resto, appare purtroppo evidente che il sindacato intenda continuare nell’assurda e quanto mai inopportuna battaglia dei buoni pasto, sulla base di considerazioni giuridicamente infondate.
Se il sindacato avrà voglia e tempo per proporre appello contro la decisione del giudice del lavoro, vi sarà un ulteriore grado di giudizio a poter eventualmente dimostrare, invece, la fondatezza di quanto richiesto.
Nel frattempo, fa ampiamente testo la decisione del giudice del lavoro di Venezia. Rispetto alla quale le considerazioni della Cisl non appaiono di alcuna conferenza.
E’ sicuramente corretto evidenziare che lo smart working emergenziali è stato prevalentemente un home working. Altrettanto vero è che il comune di Venezia, come afferma anche la Cgil, ha male interpretato ed attuato le regole dello smart working. Infatti, risulta che il sindacato abbia contestato la decisione del comune di fissare, al personale in smart working, fasce di reperibilità e di organizzazione del lavoro analoghe a quelle ordinarie, conservando ad esempio l’obbligo di svolgere due pomeriggi lavorativi o di garantire la presenza in alcuni orari.
Questa modalità di disciplinare il lavoro agile è certamente erronea: pensare, infatti, al “rientro” pomeridiano in un’attività slegata all’orario è profondamente in contraddizione con le caratteristiche dello smart working.
Per altro, si tratta di un errore di impostazione estremamente comune e diffuso in moltissime pubbliche amministrazioni ad ha una genesi precisa: la mancanza della capacità di fissare per i dipendenti attività/prodotti connessi a standard orari per prodotto. E’ la totale incapacità di pensare ad una metrica del lavoro ed ai prodotti del lavoro che ha reso lo smart working emergenziale in troppi casi un simulacro di smart working, qualcosa di più simile al tele lavoro, privo per altro di indicatori di risultato.
Ma, non è questo quel che rileva ai fini del tema della spettanza del buono pasto. L’ente può anche erroneamente disporre il telelavoro pretendendo fasce lavorative da casa in tutto analoghe a quelle dell’ufficio.
Contrariamente a quanto afferma la Cisl, il presupposto per la maturazione del buono pasto non è la continuità della prestazione lavorativa nel segmento orario previsto.
Le organizzazioni sindacali incentrano erroneamente la loro attenzione su un elemento accessorio della disciplina del buono pasto: la durata oraria della prestazione.
Non fanno alcun cenno, invece, all’elemento essenziale: il luogo della prestazione. Spiega l’Aran (Orientamenti applicativi M_130): “buono non è un beneficio che viene attribuito di per sé, ma è finalizzato a consentire al dipendente – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’amministrazione al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa anche dopo un periodo di sei ore”.
Con particolare riferimento alla contrattazione collettiva del Comparto Funzioni Locali, si applicano ancora gli articolo 45 e 46 del Ccnl 14.9.2000. Ebbene, tali disposizioni danno agli enti la facoltà (non l’obbligo) di istituire la “mensa aziendale”. Questo è l’elemento dirimente: l’istituzione della mensa è consentita per dar modo ai dipendenti di rifocillarsi nel corso dell’obbligatoria pausa per il recupero psicofisico connessa alla prosecuzione pomeridiana del lavoro diurno, nella medesima sede di lavoro. La mensa è istituita per chi non abbia la possibilità di mangiare e trascorrere la pausa a casa propria.
Dunque, è l’elemento fisico del luogo di lavoro e della sua distanza dall’abitazione, tale da rendere impossibile recarvisi per mangiare, a costituire il presupposto dell’agevolazione della mensa.
Il buono pasto, come chiarisce l’articolo 46 del citato Ccnl 14.9.2000, è sostitutivo della mensa. L’ente, cioè, è messo nella condizione, invece di istituire una mensa come punto di accesso unico alla rifocillazione dei dipendenti, di creare una sorta di “mensa diffusa” nel territorio ove ha sede l’ente, consentendo ai dipendenti di accedere ai vari esercizi convenzionati, che appunto sostituiscono la mensa nel rendere il servizio pasti. Il presupposto logistico è, comunque, sempre lo stesso: permettere al dipendente che non può consumare il pasto a casa, di consumarlo in luoghi nei pressi della sede di lavoro.
E’ assai chiaro che nel momento in cui il lavoratore svolga la propria attività lavorativa a casa propria o, nel caso di un lavoro agile vero e proprio e quindi con ampia flessibilità oraria, con margini sufficienti per tornare all’abitazione a consumare il pasto, il presupposto logistico del buono viene completamente a mancare. Infatti, l’ente non avrebbe nemmeno ragione per istituire la mensa che il buono pasto sostituisce.
Il decreto del Tribunale di Venezia 8 luglio 2020, n. 3463, per altro, richiama la sentenza della Corte di Cassazione 29 novembre.2019 n.31137) ove si spiega: “il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione di lavoro, si possano conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio”. Non pare vi sia troppa necessità si specificare che se il lavoratore presta l’attività lavorativa nella propria abitazione o abbia elevata possibilità di raggiungerla anche se renda la prestazione al di fuori di essa, l’esigenza della conciliazione del lavoro con le esigenze quotidiane è risolta in re ipsa.
In quanto alle relazioni sindacali, evidentemente la Cisl non ha avuto modo di leggere la decisione del giudice. Ecco il passaggio connesso: “i buoni pasto non sono dovuti al lavoratore in smart working e di conseguenza la mancata corresponsione degli stessi non doveva essere oggetto di contrattazione e confronto con le sigle sindacali. D’altro canto è anche difficile ipotizzare quale potrebbe essere l’esito di tale confronto: se i buoni pasto non spettano, non possono erogati e l’atto del Comune con cui se ne sospende l’erogazione al lavoratore in smart working è sostanzialmente un atto “necessitato””. 
Laddove alla Cisl fosse sfuggito, segnaliamo anche il RAL_1869 dell’Aran: “gli oneri connessi all’erogazione dei buoni pasto sono sostenuti esclusivamente dal bilancio dell’ente e non sono a carico delle generali risorse decentrate, di cui all’art.15 del CCNL dell’1.4.1999, come, invece, necessario per tutti gli altri trattamenti economici accessori.
Ciò comporta l’impossibilità di utilizzare eventuali risorse del citato art.15 non spese in un anno per il finanziamento dell’erogazione dei buoni pasto nell’anno successivo.
Ad ulteriore conferma si ricorda anche che la materia dei buoni pasto sostitutivi del servizio mensa non forma oggetto di contrattazione decentrata integrativa, salvo che per i soli profili ad essa espressamente demandati dall’art.13 del CCNL del 9.5.2006”. Tale ultima norma conte alle amministrazioni di erogare i buoni pasto anche al personale di vigilanza ed addetto alla protezione civile, secondo un regime in parte derogatori alla disciplina principale.
Risparmiamo, poi, l’elencazione delle materie oggetto di confronto e contrattazione ai sensi degli articoli 5 e 7 del Ccnl 21.5.2018: basti qui evidenziare che l’erogazione dei buoni pasto non è nemmeno lontanamente menzionata.
Al sindacato, certo, non può far piacere l’assenza di relazioni sindacali sulla fruizione dei buoni pasto, è comprensibile. Ma, ingaggiare una battaglia su questo tema non ne valeva assolutamente la pena, nel merito giuridico e sulla base dell’opportunità.
Nel merito giuridico il giudice del lavoro di Venezia ha avuto gioco sin troppo facile: “L’indicazione fornita dal Ministero della P.A. (circolare n. 2 del 2020, richiamata da parte ricorrente), secondo cui ciascuna amministrazione assume le determinazioni di competenza in materia “previo confronto sul punto con le 0.0.S.S.”, non solo non è giuridicamente vincolante nella valutazione della legittimità del comportamento del Comune, ma è comunque priva di qualunque utilità, non potendosi neppure ipotizzare che si giunga a soluzioni differenti a seconda dell’esito del confronto sindacale. Se non è necessario il confronto sindacale, men che meno è fondata la doglianza relativa alla mancata informativa, posto che non si è in presenza di un atto gestionale e discrezionale del datore di lavoro in materia di organizzazione degli uffici, ma dell’applicazione del dettato normativo, che impone di ritenere incompatibile la fruizione del buono pasto con il lavoro del dipendente svolto dal proprio domicilio”.
Il giudice dà corpo ad una vera e propria stroncatura – condivisibilissima – della circolare 2/2020 della Funzione Pubblica, ricordando a tutti che il potere giuridico di interpretazione vincolante delle norme l’hanno solo es esclusivamente il Legislatore (mediante le norme di interpretazione autentica) e i giudici. Troppo spesso si dimentica che le circolari ministeriali hanno valore giuridico e cogente pari a zero, visto che non possono vincolare alle loro conclusioni. Soprattutto se, come nel caso di specie, si rivelano sbagliate ed inopportune.
Ed è strano che il sindacato, sempre attento all’autonomia di diritto privato ed al ruolo della contrattazione, si sia abbarbicato alla “circolare ministeriale”, come un ufficio pubblico qualsiasi, per sostenere la propria tesi.

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