02/07/2020 – Attività extraistituzionali – Gli utili derivanti dall’attività di socio di SRL del dipendente pubblico che la amministra, vanno riversati all’amministrazione di appartenenza

Attività extraistituzionali – Gli utili derivanti dall’attività di socio di SRL del dipendente pubblico che la amministra, vanno riversati all’amministrazione di appartenenza
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
 
La Corte dei Conti, sezione della Toscana, con la sentenza n. 152, del 10 giugno 2020, ha stabilito che se un dipendente pubblico svolge attività extraistituzionale non autorizzata di una società di capitali esercitando sostanzialmente l’amministratore di fatto, incorre nell’obbligo di riversare alla propria amministrazione di appartenenza tutti i redditi percepiti tra cui, anche gli utili conseguiti da una SRL.
Il procedimento a carico del dipendente pubblico
La Procura Regionale con atto di citazione del dicembre 2018 chiamò in causa un sottoufficiale della Guardia di Finanza, al fine di ottenerne la condanna al pagamento, in favore della stessa Guardia di Finanza, dell’importo complessivo di euro 35.472,00, oltre rivalutazione, interessi legali e spese di giudizio, in relazione ad una ipotesi di danno erariale, connessa al contestato svolgimento, per fini di lucro, di attività extraprofessionale incompatibile con lo status di appartenente al Corpo (nello specifico, co-gestione di un locale notturno).
La vicenda scaturisce a seguito di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti di una società, esercente la gestione di un locale notturno ; durante tale verifica sarebbe emerso che il finanziere chiamato in causa avrebbe rivestito, nel periodo 2013-2015, il ruolo di “socio di fatto” della predetta società, con una quota societaria pari al 30%, a fronte della quale il medesimo avrebbe realizzato introiti per complessivi euro 37.289,82, ovvero euro 20.909,43 nel 2013, euro 15.505,59 nel 2014 ed euro 874,80 nel 2015.
Nell’atto di citazione era evidenziato che si trattavano, ai sensi dell’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165/2001, di introiti derivanti da attività extra-istituzionale non autorizzata, svolta da un dipendente pubblico, e che costituivano danno erariale con restituzione degli importi percepiti illegittimamente all’Amministrazione d’appartenenza.
In considerazione della mancata restituzione, da parte del finanziere, di quanto percepito in ragione della predetta attività (nonostante la richiesta della Guardia di Finanza), la Procura contabile, esercitava l’azione erariale nei confronti dello stesso. La Sezione giurisdizionale, con la sentenza del 2016, pur ritenendo, sulla base dei molteplici elementi emersi nell’attività investigativa, accoglibile la tesi della prestazione occulta ed illecita (con conseguente obbligo di riversamento all’Amministrazione d’appartenenza di quanto maturato nel periodo in questione), nondimeno dichiarava la citazione inammissibile, per assenza del requisito della certezza ed attualità del contestato danno, essendo stato “..richiesto un riversamento di somme il cui illecito introito non risulterebbe ancora giuridicamente accertato nel suo corretto ammontare”.
Tutto ciò per il rilevato difetto, a quella data, di un avviso di accertamento definitivo, a seguito di mancata impugnazione ovvero di verifica giurisdizionale favorevole all’Ufficio.
La definitività del predetto accertamento veniva, infatti, ritenuta necessaria ai fini della insorgenza di un reddito illecitamente maturato e da riversare in favore dell’Amministrazione di appartenenza.
Secondo la Procura contabile che ha impugnato la sentenza il comportamento del convenuto, di natura dolosa, integrerebbe l’ipotesi di responsabilità tipica (definita sanzionatoria) delineata dall’art. 53, commi 7 e 7-bis, D.Lgs. n. 165/2001, applicabile alla generalità delle Amministrazioni pubbliche e rispetto alla quale il danno risulterebbe in re ipsa.
L’Organo requirente, infine, riteneva corretta la contestazione dell’importo lordo ricostruito negli atti impositivi, non risultando in atti la prova del pagamento delle imposte da parte dell’interessato.
La Procura contabile osserva che nello specifico, le attività extra-istituzionali dei militari sarebbero disciplinate dal combinato disposto della normativa generale (art. 53D.Lgs. n. 165/2001) e da quella speciale (art. 894 ss., D.Lgs. n. 66 del 2010 – cd. codice dell’ordinamento militare -), alla cui stregua sussisterebbe un regime di assoluta incompatibilità tra la professione militare e l’esercizio di qualsiasi altra professione, salvi i casi previsti da disposizioni speciali.
Secondo il finanziare, nel caso all’esame, esisterebbe una disposizione speciale, la quale consentirebbe, in deroga agli artt. 53 e 894 sopra citati, di rivestire il ruolo di socio di una società a fini di lucro, senza la preventiva autorizzazione.
A tal riguardo, il convenuto ha richiamato la circolare del Ministero della Difesa del 31 luglio 2008, attuativa delle disposizioni in commento, con particolare riferimento al personale militare.
Nello specifico, l’art. 7, lett. d), della predetta circolare ammetterebbe l’acquisizione della (semplice) qualità di socio in una società costituita a fini di lucro, sul presupposto che tale attività non rivestirebbe carattere di continuità ed assiduità e non comporterebbe un dispendio di energie tale da pregiudicare la capacità lavorativa del dipendente.
In ogni caso, poi, la predetta circolare, alla lett. a) del richiamato art. 7, consentirebbe lo svolgimento, senza autorizzazione, di attività a titolo gratuito.
In definitiva, anche a volere ritenere la norma violata, il comportamento del finanziere non risulterebbe sanzionabile, in quanto il relativo rendimento non sarebbe stato in alcun modo inficiato dalla predetta asserita attività, così come emergerebbe dai documenti valutativi redatti, con giudizio altamente positivo, dalla Guardia di Finanza nel periodo di riferimento.
La sentenza della Corte dei Conti regionale
Con riferimento al merito della vicenda, il Collegio ritiene che la pretesa della Procura meriti integrale accoglimento, ricorrendo tutti i presupposti della contestata responsabilità erariale.
Nello specifico, risulta pacifica ed incontestata la sussistenza del cd. rapporto di servizio tra il convenuto e l’Amministrazione danneggiata (Guardia di Finanza). Allo stesso modo, a giudizio del Collegio, possono ritenersi acclarate la sussistenza ed antigiuridicità delle condotte contestate al medesimo finanziare (svolgimento di attività extraistituzionale, incompatibile con l’appartenenza al Corpo della Guardia di Finanza, consistita, in particolare, nell’attività di socio occulto/amministratore di fatto di una società, esercente la gestione di un locale notturno, senza il riversamento dei relativi introiti all’Amministrazione).
I giudici contabili osservano che l’art. 53 riveste, invero, una portata generale, non smentita dalla disciplina contenuta, per il personale militare, negli artt. 894 e 896D.Lgs. n. 66/2010, cd. codice dell’ordinamento militare.
Tutto ciò, del resto, risulta coerente con il fatto che la disposizione in questione costituisce immediata espressione dei precetti costituzionali di (tendenziale) esclusività della funzione pubblica (art. 98 Cost.) e di buon andamento degli uffici della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.).
L’art. 53D.Lgs. n. 165/2001, al comma 1, fa espressamente salva l’applicabilità, per tutti i dipendenti pubblici, della disciplina delle incompatibilità di cui agli artt. 60 ss. D.P.R. n. 3/1957.
Nello specifico, il predetto art. 60 statuisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fini di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”.
A tal riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha puntualmente sottolineato l’incompatibilità (assoluta) dello status di pubblico dipendente con lo svolgimento di attività imprenditoriale (cfr. Corte Conti, Sez. giur. Sardegna, 6 giugno 2018, n. 130).
Il comma 7, dell’art. 53, nella versione, applicabile alla fattispecie all’esame, risultante dalla modifica introdotta dall’art. 1, comma 42, lett. c), L. 6 novembre 2012 (cd. legge anticorruzione), prevede che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Infine, il comma 7-bis, del medesimo art. 53, quale introdotto dall’art. 1, comma 42, lett. d), L. n. 190/2012, statuisce che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
Le Sezioni riunite di questa Corte, con la sentenza n. 29/2019, depositata il 31 luglio 2019, hanno sottolineato che il comma 7-bis configura una ipotesi “risarcitoria” classica, anche se tipizzata, del danno da mancata entrata, patito dall’Amministrazione in conseguenza del mancato riversamento del compenso indebitamente percepito (con la conseguente applicazione degli ordinari canoni, sostanziali e processuali, della responsabilità amministrativa), pur rimarcando la stretta connessione della medesima ipotesi con la violazione dell’obbligo primario di richiedere ed ottenere l’autorizzazione.
Va osservato che l’art. 894D.Lgs. n. 66/2010, al primo comma, prevede che “La professione militare è incompatibile con l’esercizio di ogni altra professione, salvo i casi previsti da disposizioni speciali”, aggiungendo, al successivo comma 2, che “E’ altresì incompatibile l’esercizio di un mestiere, di un’industria o di un commercio, la carica di amministratore, consigliere, sindaco o altra consimile, retribuita o non, in società costituite a fine di lucro”.
In sostanza, lo svolgimento, da parte del militare, di attività professionale incompatibile, in assenza di autorizzazione preventiva, volta a rimuovere il predetto profilo d’incompatibilità (art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165/2001 ed artt. 894 e 896 D.Lgs. n. 66/2010) ovvero, a maggior ragione, di attività del tutto incompatibile e, dunque, giammai autorizzabile (art. 53, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001art. 60 DPR n. 3/1957 ed artt. 894 e 896 D.Lgs. n. 66/2010), riveste carattere d’illiceità ed integra responsabilità erariale, per l’ipotesi di omesso riversamento all’Amministrazione d’appartenenza dei compensi ricavati dalla medesima attività (art. 53, comma 7-bis, D.Lgs. n. 165/2001, letto in connessione con l’obbligo di riversamento di cui al precedente comma 7).
La sentenza
La Corte dei Conti, in conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, dispone che il finanziare sia condannato al pagamento, in favore della Guardia di Finanza, della somma complessiva di euro 35.472,00, maggiorati degli interessi.

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