15/06/2020 – In caso di sospensione facoltativa dal servizio la prescrizione del reato non esclude la restitutio in integrum

In caso di sospensione facoltativa dal servizio la prescrizione del reato non esclude la restitutio in integrum
di Marcello Lupoli – Dirigente P.A.
 
In materia di pubblico impiego la prescrizione del reato non esclude il diritto alla restitutio in integrum per il periodo di sospensione facoltativa dal servizio.
E’ questo, in estrema sintesi, il portato dell’ordinanza 18 maggio 2020 n. 9095 resa dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.
Il ricorso portato all’attenzione dei giudici della Suprema Corte è finalizzato ad ottenere la cassazione della pronuncia resa dalla Corte di appello territorialmente competente, con la quale era stata confermata la sentenza pronunciata dal giudice di prime cure, che aveva respinto la domanda proposta nei confronti di un ente locale intesa ad ottenere il rimborso delle quote di retribuzione non corrisposte per l’adottata sospensione cautelare dal servizio.
In particolare, la fattispecie concreta sub iudice riguarda la vicenda di un ingegnere, capo di un ufficio tecnico comunale, sottoposto a procedimento penale per delitti contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia e destinatario di misura cautelare personale degli arresti domiciliari e, in quanto tale, sottoposto alla sospensione obbligatoria dal servizio e successivamente, a seguito di revoca della predetta misura cautelare penale, sospeso dal servizio per due mesi. A seguito delle pronunzie giurisdizionali che nelle more erano intervenute si erano poi alternati periodi di rientro in servizio a periodi di sospensione.
La vicenda penale si concludeva con pronuncia di sentenza di non luogo a procedere per prescrizione dei reati ascritti, a seguito della quale non era stato attivato alcun procedimento disciplinare a carico del dipendente, che aveva quindi chiesto la restitutio in integrum per un periodo di quasi nove anni.
I rilievi effettuati sia dal giudice di primo grado che da quello del gravame – relativi alla circostanza che nella fattispecie concreta si fosse trattato di sospensione cautelare e non disciplinare, che il diritto alla restitutio in integrum permanesse solo in presenza di assoluzione con formula piena, nonché, stante la pronuncia di prescrizione, lo stesso dipendente avrebbe dovuto attivarsi durante la sospensione dal servizio al fine di dimostrare l’assoluta estraneità ai fatti contestatigli – avevano costituito il sostrato delle reiezioni dei ricorsi avanzati dall’interessato.
Avverso le argomentazioni addotte dalla Corte territoriale interpone ricorso per cassazione il dipendente, affidando i relativi motivi alle doglianze basate essenzialmente sul vizio motivazionale e sulla violazione di legge.
Ad avviso dei giudici di Piazza Cavour il rilievo incontrastato emergente dalla sentenza impugnata – secondo il quale il comune non aveva azionato alcun procedimento disciplinare ad esito del giudizio penale, nonché quello secondo il quale era stato riconosciuto erroneamente come posto a carico del dipendente l’onere di attivarsi al fine della dimostrazione dell’inesistenza dei fatti addebitati e quindi dell’illegittimità della sospensione inflittagli – sono dirimenti ai fini dell’accoglimento del ricorso per cassazione, risultando per l’effetto superflua la disamina delle ulteriori censure avanzate.
La cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha negato il diritto alla restitutio in integrum in relazione al periodo di sospensione facoltativa si fonda su un preliminare distinguo che l’ordinanza in parola effettua rispetto alla pretesa avanzata dal ricorrente.
Ed invero, a fronte della richiesta di restitutio in integrum per tutto il periodo di sospensione cautelare, e quindi sia per il periodo di sospensione obbligatoria (disposta per l’intervenuta adozione del provvedimento della misura cautelare personale coercitiva) che per quello di sospensione facoltativa (periodo che aveva avuto inizio allorquando era stata revocata l’ordinanza cautelare penale e poi prorogato per il tempo massimo e quindi nuovamente ripreso a seguito del rinvio a giudizio ed ancora prorogato fino alla pronuncia giudiziale di reintegra in servizio), la Corte opera una chiara distinzione.
Con riferimento, infatti, al periodo di sospensione cautelare obbligatoria la doglianza avanzata dal ricorrente non può trovare accoglimento, atteso che “il diritto del dipendente pubblico alla “restitutio in integrum” non può riguardare i periodi di sospensione obbligatoria disposta a seguito di custodia cautelare, perché in tal caso la perdita della retribuzione si riconnette ad un provvedimento necessitato dallo stato restrittivo della libertà personale del dipendente e non, invece, ad un comportamento volontario ed unilateralmente assunto dal datore di lavoro pubblico, come nell’ipotesi di sospensione facoltativa in pendenza del procedimento penale (v. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31502Cass. 26 aprile 2018, n. 10137Cass. 10 agosto 2018, n. 20708, Cass. 10 ottobre 2016, n. 20321)”.
Tale orientamento rinviene la sua ratio giustificatrice nel “principio generale secondo il quale, in assenza di una specifica disciplina più favorevole, quando il prestatore non adempia all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell’adempimento dell’obbligazione retributiva, come per ogni caso di assenza ingiustificata (o non validamente giustificata) dal lavoro”.
Degna di accoglimento, invece, per i supremi giudici è la doglianza relativa alla richiesta di restitutio in integrum (avente natura retributiva e non risarcitoria) per il periodo temporale di sospensione cautelare facoltativa.
Ed invero – come da ultimo precisato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 19 marzo 2019, n. 7657 – la sospensione facoltativa “è solo finalizzata a impedire che, in pendenza di procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l’immagine e il prestigio dell’amministrazione di appartenenza, la quale, quindi, è tenuta a valutare se nel caso concreto la gravità delle condotte per le quali si procede giustifichi l’immediato allontanamento dell’impiegato. Ove l’amministrazione, valutati i contrapposti interessi in gioco, opti per la sospensione, […] opera il principio generale secondo cui ” quando la mancata prestazione dipenda dall’iniziativa del datore di lavoro grava su quest’ultimo soggetto l’alea conseguente all’accertamento della ragione che ha giustificato la sospensione” (Corte Cost. n. 168/1973)”, onde la “verifica dell’effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare l’immediato allontanamento è indissolubilmente legata all’esito del procedimento disciplinare, perché solo qualora quest’ultimo si concluda validamente con una sanzione di carattere espulsivo potrà dirsi giustificata la scelta del datore di lavoro di sospendere il rapporto, in attesa dell’accertamento della responsabilità penale e disciplinare”.
Tali principi sono stati declinati dalla giurisprudenza di legittimità in alcune fattispecie sottoposte alla sua cognizione, di guisa che “il diritto alla restitutio in integrum è stato riconosciuto nell’ipotesi di annullamento della sanzione inflitta (Cass. n. 26287/2013), di mancata conclusione del procedimento disciplinare a causa del decesso del dipendente (Cass. n. 13160/2015), di irrogazione di una sanzione meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare sofferta (Cass. nn. 5147/2013 e 9304/2017), di omessa riattivazione del procedimento in conseguenza delle dimissioni (Cass. n. 20708/2018) o del pensionamento (Cass. n. 18849/2017) e ciò a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva”.
Non è di poco momento evidenziare la ratio dell’istituto in parola: ed invero – come precisato dalla citata sentenza n. 7657/2019 della Cassazione – “il potere del datore di lavoro di estromettere temporaneamente […] dall’ufficio il dipendente sottoposto a procedimento penale è espressione del generale potere organizzativo e direttivo e trova fondamento costituzionale […] in relazione all’impiego pubblico nell’art. 97 Cost., perché finalizzato a garantire, in pendenza del procedimento penale, […] l’efficienza e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione”.
Su tale premessa la misura interinale de qua, “per il suo carattere unilaterale, non fa venir meno l’obbligazione retributiva che, nei casi in cui la stessa sia oggetto di disciplina da parte della legge o della contrattazione collettiva, è solo in tutto o in parte sospesa ed è sottoposta alla condizione dell’accertamento della responsabilità disciplinare del dipendente. Solo qualora il procedimento si concluda sfavorevolmente per il dipendente con la sanzione del licenziamento, il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell’adozione della misura cautelare; viceversa qualora la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura tale da non giustificare la sospensione sofferta, il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni arretrate, dalle quali dovranno essere detratte solo quelle relative al periodo di privazione della libertà personale perché in tal caso, anche in assenza dell’atto datoriale, il dipendente non sarebbe stato in grado di rendere la prestazione”.
Come evidenziato anche nell’ordinanza in disamina, “il legislatore, prima, e le parti collettive, poi, nel prevedere la tempestiva riattivazione del procedimento disciplinare, all’esito della definizione di quello penale che ha dato causa alla misura cautelare, ha posto un preciso onere a carico delle amministrazioni, che, una volta fatto ricorso alla misura cautelare, non possono rimanere inerti e devono sollecitamente adottare tutte le iniziative necessarie a consentire una tempestiva ripresa del procedimento”.
L’argomentazione che precede- come dianzi riferito – è rilevante nella fattispecie concreta, atteso che sul punto i supremi giudici non condividono l’assunto cui erano pervenuti i giudici di merito.
Ed invero, i giudici di Piazza Cavour ritengono che “l’onere di attivarsi per consentire la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare, una volta definito quello penale, grava sull’amministrazione e non sul dipendente pubblico, tanto che neppure rileva, né può far escludere il diritto al pagamento delle retribuzioni non corrisposte durante il periodo di sospensione facoltativa, la circostanza che l’incolpato non abbia tempestivamente comunicato al datore di lavoro la sentenza passata in giudicato di definizione del processo penale pregiudicante”.
In merito, già la citata sentenza n. 7657/2019 ed ora l’ordinanza de qua hanno rilevato che “né il legislatore nei diversi interventi normativi né, tanto meno, le parti collettive hanno mai previsto a carico del dipendente sottoposto a processo penale e sospeso dal servizio, un obbligo di collaborazione e un dovere di comunicazione delle sentenze penali, a prescindere dalla natura e dal contenuto di dette decisioni”, osservando, altresì, come già la Corte Costituzionale (n. 264/1990) avesse evidenziato che la facoltà concessa all’impiegato di attivarsi per far cessare lo stato di sospensione non può essere trasformata in un obbligo o in un onere, “peraltro a rischio di colui a carico del quale tale onere verrebbe imposto, di sollecitare l’apertura o la prosecuzione del procedimento stesso che potrebbe risolversi in senso a lui sfavorevole. Non sarebbe difatti ragionevole che, per far cessare una situazione di incertezza che il legislatore ha ancorato al trascorrere di un termine congruo, si debba accollare, a colui che ha un interesse addirittura contrapposto all’esercizio del potere disciplinare, l’onere di sollecitarlo, tenuto conto che l’ordinamento, per esigenze di certezza del tutto analoghe, già conosce ipotesi, come quelle attinenti alla prescrizione di reati, nelle quali l’estinzione del potere punitivo in relazione al mero trascorrere del tempo non è subordinata ad alcun onere da parte del soggetto che ne beneficia, ne’, tantomeno, alla conoscibilità del fatto illecito”.
Rispondono ai principi suddetti le disposizioni di rito penale, che, al fine di consentire alle pubbliche amministrazioni di avere tempestiva notizia dei processi penali avviati a carico di dipendenti pubblici e del loro esito, hanno contemplato alcuni oneri di comunicazione a carico del pubblico ministero (art. 129 disp. att. c.p.p.) e della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento (art. 154-ter disp. att. c.p.p.).
In conclusione, nell’ordinanza n. 9095/2019 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione il distinguo effettuato tra sospensione cautelare obbligatoria e facoltativa, con la previsione dei differenti effetti in materia di restitutio in integrum, ha come conseguenza l’accoglimento del ricorso interposto, con cassazione della sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha negato il diritto al reintegro relativamente al periodo di sospensione facoltativa dal servizio.

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