23/01/2020 – L’assoluzione piena del dipendente pubblico dai reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti di ufficio non è rilevante ai fini del rimborso delle spese legali

L’assoluzione piena del dipendente pubblico dai reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti di ufficio non è rilevante ai fini del rimborso delle spese legali
di Vincenzo Giannotti – Dirigente Settore Gestione Risorse (umane e finanziarie) Comune di Frosinone, Gianluca Popolla – Dottore in giurisprudenza – esperto enti locali
La vicenda
Una dipendente della Guardia di Finanza è stata sottoposta a procedimento penale dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i reati di calunnia, omissione di atti d’ufficio e rifiuto di obbedienza, per essersi astenuta dal compilare la documentazione per l’uscita dell’autovettura di servizio e dal porsi alla guida della stessa. La dipendente, veniva successivamente assolta per insussistenza del reato ipotizzato. A seguito dell’assoluzione la dipendente ha presentato richiesta del rimborso delle spese legali, con successivo diniego da parte dell’Amministrazione, ostandovi la mancata riferibilità della condotta al perseguimento delle finalità istituzionali dell’Ente di appartenenza. Il diniego del rimborso delle spese legali è giunto a seguito di impugnazione davanti al Tribunale Amministrativo di primo grado, che ne ha negato il rimborso ritenendo decisiva la circostanza che l’imputazione non riguardasse lo svolgimento di un’attività direttamente connessa con i fini istituzionali dell’Ente. La dipendente si è, quindi, appellata davanti al Consiglio di Stato in considerazione della violazione dei principi stabiliti dall’art. 18, comma 1, D.L. n. 67 del 1997 secondo cui “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.
La giurisprudenza di riferimento
Secondo il Consiglio di Stato la norma invocata dall’appellante subordina la spettanza del beneficio ad una duplice circostanza: a) l’esistenza di un giudizio, promosso nei confronti del (e non anche dal) dipendente, conclusosi con un provvedimento che abbia definitivamente escluso la sua responsabilità; b) la sussistenza di un nesso tra gli atti e i fatti ascritti al dipendente, l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali. L’assoluzione in sede penale riguarda tanto i presupposti di cui all’art. 530, comma 1, c.p.p. quanto quelli relativi al successivo comma 2 (tra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8137). Nessun rimborso è, invece, possibile per cause diverse come l’estinzione del reato, l’intervenuta prescrizione, oppure quando sia stato disposto per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di procedibilità dell’azione.
La norma in questione, tuttavia, oltre all’assoluzione richiede ulteriori requisiti per il riconoscimento delle spese legali, in quanto ricollega il riconoscimento solo nel caso in cui il dipendente abbia agito in nome, per conto ed anche nell’interesse dell’Amministrazione. La giurisprudenza amministrativa ha precisato che tale presupposto sussiste solo ove gli atti o i fatti compiuti dall’interessato siano riconducibili, in un rapporto di stretta dipendenza, con l’adempimento dei propri obblighi, ossia con l’esercizio diligente della funzione pubblica; occorrendo, altresì, che sia ravvisabile l’esistenza di un nesso di strumentalità tra il compimento dell’atto o del fatto e l’adempimento del dovere, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non tenendo quella determinata condotta (tra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2013, n. 1190). Mentre la giurisprudenza di legittimità, se si è occupata del pubblico impiego contrattualizzato, ha avuto modo di precisare, ormai in modo consolidato, che lo specifico interesse che deve necessariamente sussistere affinché l’Amministrazione possa essere chiamata a tenere indenne dalle spese legali il proprio dipendente, imputato in un procedimento penale, consiste nella circostanza che l’attività sia riferibile all’Ente di appartenenza, ponendosi in un rapporto di stretta connessione con il fine pubblico (tra le tante Cass. civ, 29 gennaio 2019, n. 2475Cass. civ, 6 agosto 2018, n. 20561). Si tratta, in altri termini, di un interesse sostanziale discendente dalle conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto. In conclusione, stante la natura eccezionale della disposizione normativa sul rimborso delle spese legali, si deve escludere il rimborso nel caso in cui l’atto o il comportamento: a) non abbiano trovato origine nell’esecuzione di compiti istituzionali, ma abbiano avuto luogo solo “in occasione‟ dello svolgimento della pubblica funzione, senza che possa ravvisarsi la necessaria riferibilità all’Amministrazione di appartenenza, ossia deve sussistere uno specifico nesso causale che consenta di affermare la stretta riconducibilità del fatto contestato all’espletamento del dovere d’ufficio; b) costituiscano violazione dei doveri d’ufficio; c) possano condurre ad un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione di appartenenza, cioè quando, pur in assenza di responsabilità penale, sussistano i presupposti per la configurazione di un illecito disciplinare e l’attivazione del relativo procedimento.
La conferma del Consiglio di Stato
Chiariti i presupposti elaborati dalla magistratura amministrativa e di legittimità, nel caso di specie le condotte che hanno portato alla contestazione dei reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti d’ufficio, seppur riconosciute come non rilevanti penalmente, non sono in ogni caso riconducibili ad esigenze di servizio, non trovando immediata e diretta riferibilità nella volontà dell’Ente di appartenenza. Anzi, l’astenersi dal porsi alla guida di un mezzo militare non può che rendere ipotizzabile in capo all’interessata una violazione dei doveri d’ufficio, se si consideri che la stessa era munita di apposita patente di guida militare, con la conseguenza dell’impossibilità di ravvisare nel caso di specie un nesso tra l’agire della ricorrente e la volontà dell’Amministrazione, in ragione del dissolvimento del rapporto di immedesimazione organica. In merito al conflitto di interessi con l’Amministrazione, che sarebbe venuto meno in considerazione della mancata attivazione del procedimento disciplinare, l’eccezione è da considerarsi priva di pregio. Infatti, per ravvisare un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione ed escludere la spettanza del beneficio, è sufficiente che sussistano i presupposti per la configurazione dell’illecito disciplinare e per l’attivazione del relativo procedimento (tra le tante Cons. Stato, Sez. II, 27 agosto 2018, n. 2055). In altri termini, il conflitto d’interesse può infatti rilevare ex se, indipendentemente dall’esito del giudizio penale (tra le tante Cass. civ., Sez. Lav., 3 febbraio 2014, n. 2297), mentre l’assoluzione non ha alcuna incidenza in ordine al giudizio sulla non riconducibilità all’Amministrazione del fatto addebitato.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conferma della sentenza impugnata.

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