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Redditi e patrimoni dei dirigenti pubblici restano “segreti”? Il travisamento delle sentenze e delle norme

Sul Corriere on line dell’11.1.2020 Gian Antonio Stella esprime la sua riprovazione per il d.l. 162/2019, che intende attuare una sentenza della Corte costituzionale, evidentemente anch’essa considerata deplorevole dal giornalista, sospendendo per un anno le sanzioni per mancata pubblicazione sui siti web dei redditi e dei patrimoni dei dirigenti, in vista di un regolamento che graduerà le pubblicità escludendo comunque che i patrimoni siano ostentati in internet.

La conclusione che trae l’articolo è riassunta nell’occhiello “Redditi e beni restano segreti“.

L’affermazione sarebbe corretta, se qualche disposizione vigente, compreso il d.l. 162/2019, avesse dichiarato che quei dati, i redditi ed i patrimoni, siano appunto da considerare segreti.

Peccato che già da prima della novellazione apportata nel 2016 al d.lgs 33/2013 con l’introduzione dell’obbligo per i dirigenti di pubblicare in internet i propri patrimoni (obbligo dichiarato incostituzionale per i dirigenti non incaricati direttamente dalla politica da parte della Corte costituzionale, non dai “burocrati”) l’articolo 17, comma 22, della legge 127/1997, nota cone “legge Bassanini” contenga la seguente norma: “Le disposizioni di cui all’articolo 12 della legge 5 luglio 1982, n. 441, si applicano anche al personale di livello dirigenziale od equiparato di cui all’articolo 2, commi 4 e 5, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, nonchè al personale dirigenziale delle amministrazioni pubbliche. Per il personale delle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile e militare le competenze attribuite dalla legge 5 luglio 1982, n. 441, alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al Presidente del Consiglio dei ministri sono esercitate dai rispettivi organi di governo“.

Per agevolare chi non abbia eccessiva confidenza con l’interpretazione delle leggi (attività che sarebbe opportuno riservare a coloro che dispongano di formazione adeguata sul campo, di livello universitario), basta riportare allora l’articolo 12 della legge 441/1982: “Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 6 e 7 si applicano, con le modificazioni di cui ai successivi articoli: 1) ai presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali di istituti e di enti pubblici, anche economici, la cui nomina, proposta o designazione o approvazione di nomina sia demandata al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Consiglio dei Ministri od a singoli Ministri; 2) ai presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali delle societa’ al cui capitale concorrano lo Stato o enti pubblici, nelle varie forme di intervento o di partecipazione, per un importo superiore al venti per cento; 3) ai presidenti, ai vicepresidenti, agli amministratori delegati ed ai direttori generali degli enti o istituti privati, al cui funzionamento concorrano lo Stato o enti pubblici in misura superiore al cinquanta per cento dell’ammontare complessivo delle spese di gestione esposte in bilancio ed a condizione che queste superino la somma annua di lire cinquecento milioni; 4) ai direttori generali delle aziende autonome dello Stato; 5) ai direttori generali delle aziende speciali di cui al regio decreto 15 ottobre 1925, n. 2578, dei comuni capoluogo di provincia o con popolazione superiore ai centomila abitanti.

Tra queste disposizioni elencate dall’articolo 12, risalta quella contenuta nell’articolo 2 della medesima legge 441/1982. Leggiamo anche questa: “Entro tre mesi  dalla  proclamazione  i  membri  del  Senato  della Repubblica ed i membri  della  Camera  dei  deputati  sono  tenuti  a depositare  presso  l’ufficio   di   presidenza   della   Camera   di appartenenza: 

    1) una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su  beni  mobili  iscritti  in  pubblici  registri;  le  azioni  di societa’; le quote  di  partecipazione  a  societa’;  l’esercizio  di funzioni  di  amministratore  o   di   sindaco   di   societa’,   con l’apposizione  della  formula  “sul  mio   onore   affermo   che   la dichiarazione corrisponde al vero”; 

    2)  copia  dell’ultima   dichiarazione   dei   redditi   soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche; 

    3)  una  dichiarazione  concernente  le  spese  sostenute  e   le obbligazioni   assunte   per   la   propaganda   elettorale    ovvero l’attestazione di essersi avvalsi esclusivamente di  materiali  e  di mezzi propagandistici predisposti e messi a disposizione dal  partito o dalla formazione politica della cui lista hanno  fatto  parte,  con l’apposizione  della  formula  “sul  mio   onore   affermo   che   la

dichiarazione corrisponde al vero”. Alla dichiarazione debbono essere allegate  le  copie  delle  dichiarazioni  di  cui  al  terzo   comma dell’articolo 4 della legge 18 novembre 1981, n. 659,  relative  agli eventuali contributi ricevuti. 

  Gli adempimenti indicati nei numeri 1  e  2  del  comma  precedente concernono anche la situazione patrimoniale e  la  dichiarazione  dei redditi del coniuge non separato, nonche’ dei figli e  dei  parenti

entro il secondo grado di parentela, se gli stessi vi consentono. 

  I  senatori  di  diritto,   ai   sensi   dell’articolo   59   della Costituzione, ed i senatori  nominati  ai  sensi  del  secondo  comma dell’articolo 59 della Costituzione sono tenuti a  depositare  presso

l’ufficio di presidenza del Senato della Repubblica le  dichiarazioni di  cui  ai  numeri  1  e  2  del  primo  comma,  entro   tre   mesi, rispettivamente, dalla cessazione dall’ufficio  di  Presidente  della

Repubblica o dalla comunicazione della nomina“.

Si scopre, allora, che i dirigenti pubblici sono tenuti a depositare all’amministrazione di appartenenza redditi e patrimoni, appunto dal 1997, poichè si applicano loro gli obblighi previsti per deputati e senatori, ovviamente compatibilmente con la diversità dello status.

I redditi ed i patrimoni dei dirigenti pubblici, quindi, non sono per nulla segreti. Infatti, essi sono noti ai datori di lavoro e, per altro, l’incostituzionalità dichiarata dalla sentenza della Consulta 20/2019 si limita solo all’obbligo di pubblicare i dati patrimoniali, ma non i redditi, che, quindi possono ben continuare ad essere pubblicati, come da sempre, sui portali.

Materie delicate, che hanno visto un intervento molto complesso della Consulta, non si prestano a letture semplificate.

Pensare che davvero Poggiolini o Balducci non si sarebbero arricchiti se obbligati a pubblicare i patrimoni è insieme un’ingenuità ed un sofisma. Un’ingenuità, perchè chi si arricchisca in modo eventualmente illecito nasconde redditi e patrimoni dietro scudi finanziari e bancari molto solidi, così da poter presentare dichiarazioni sui patrimoni senza nemmeno un’azione, un’obbligazione, uno yacht e un castello, intestati in modo da non lasciar traccia alcuna. Un sofisma, perchè è un’argomentazione suggestiva, ma priva di concretezza perchè un corrotto adotta qualsiasi misura per nascondere i profitti della propria corruzione anche in presenza di obblighi di pubblicazione.

Gian Antonio Stella non può non ricordare che il Poggiolini, secondo le cronache giudiziarie, nascondeva i soldi delle attività corruttive dentro i pouf della sua villa: pare al giornalista che chi occulti in tal modo redditi o patrimoni poi dichiari in un modulo da pubblicare su internet di possedere denari nascosti dentro i divani, proprietà intestate a teste di legno, azioni assegnate a trust di investimento alle Cayman? E’ proprio credibile questo?

Le amministrazioni pubbliche, poichè possiedono i dati reddituali e patrimoniali che i dirigenti pubblici sono obbligati a depositare – in quanto per nulla segreti – possono attivare ogni opportuno controllo allo scopo.

Quel che serve contro la corruzione, oltre alla trasparenza entro i corretti limiti, sono i controlli. Esattamente quel che manca nel sistema introdotto con la normativa oggi vigente. Il legislatore, abbagliato dalla voglia di Freedom of Information Act ha creato un sistema che col Foia vero e proprio non ha nulla a che vedere e, soprattutto, ha puntato molto su puri formalismi adempimentali: piani dal contenuto sostanzialmente vuoto e dati, altri dati, altri dati ancora, da pubblicare in un crescendo incontrollato di adempimenti (con le autorità competenti più intente a sanzionare eventuali inadempimenti formali che non andare a caccia dei corrotti) e di informazioni la cui utilità per l’efficienza della PA e l’eticità del suo comportamento è molto discutibile (la regione Umbria aveva un mirabile piano anticorruzione, completamente inidoneo a fermare la corruzione, come si è visto).

La stampa, invece di stracciarsi le vesti perchè la Consulta intende mettere limiti ad inutili voyeurismi e adempimenti, forse dovrebbe chiedersi quale sia l’effettivo risultato delle regole anticorruzione sul piano concreto e soprattutto perchè i controlli, l’arma davvero necessaria e decisiva, siano da anni depotenziati.

La Corte costituzionale ha ritenuto che pretendere la pubblicazione dei patrimoni (anche del coniuge e dei parenti fino al secondo grado) di dirigenti pubblici che non debbano la loro attività alla personale adesione ad un indirizzo politico e, quindi, al consenso politico, sia una lesione della riservatezza.

La stessa sentenza ritiene, invece, costituzionalmente legittimo un regime di pubblicità più esteso per dirigenti di massimo vertice dei Ministeri (come i Poggiolini o i Balducci), quelli che vengono incaricati fiduciariamente dalla politica, sulla base della professione espressa di una personale adesione all’indirizzo politico (e partitico).

Di fronte ad una pronuncia chiarissima come quella della Consulta è legittimo esprimere un proprio diverso punto di vista. Ma, tale diverso punto di vista resta solo, ancora, puro sofisma. Chi ha il compito di interpretare le leggi sulla base delle indicazioni della Costituzione e dell’ordinamento ha esaurito la questione. Il resto, la pretesa di parificare chi accede ad attività lavorative non mediante percorsi politici (elezioni o sostegni adesivi espliciti ad una forza politica), bensì attraverso normali modalità di ingresso nella pubblica amministrazione, cioè concorsi pubblici, a chi, invece, deve al consenso politico la propria carica, è e resta solo un modo di intendere la trasparenza radicale e distorto.

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