13/02/2020 – Rifiuti. Obbligo di rimozione di cui all’art. 255 TUA

Rifiuti. Obbligo di rimozione di cui all’art. 255 TUA
Pubblicato: 12 Febbraio 2020
Cass. Sez. III n. 2199 del 21 gennaio 2020 (UP  19 nov 2019)

L’obbligo di rimozione cui si riferisce l’illecito contravvenzionale di cui all’art. 255, comma 3, TUA, sorge sia in capo al responsabile dell’abbandono, quale conseguenza della sua condotta, sia nei confronti degli obbligati in solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa, sia, infine nei confronti dei destinatari dell’ordinanza sindacale di rimozione che sono obbligati in quanto tali e che, in caso di inottemperanza, ne subiscono, per ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare il provvedimento per ottenerne l’annullamento o non hanno fornito al giudice penale elementi significativi per l’eventuale disapplicazione

 
RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 7.02.2019, la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza 24.04.2018 del tribunale di Palermo, appellata dal Trionfanti, dichiarava n.d.p. nei confronti del medesimo in ordine al reato di cui al capo 1) perché estinto per prescrizione, riducendo per l’effetto la pena inflitta in 2 mesi di arresto, revocando la statuizione della confisca dell’area con restituzione all’avente diritto, fatto salvo l’obbligo di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, TUA, e confermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva condannato, per quanto qui rileva, per il reato di mancata ottemperanza all’ordinanza sindacale (art. 255, comma 3, TUA), in relazione a fatto contestato come commesso in data 13.02.2014; il medesimo veniva, invece, prosciolto, come anticipato, per il reato di realizzazione di discarica abusiva, contestato come commesso in data 7.11.2013.

2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge nella parte in cui la Corte d’appello non ha rilevato la nullità del decreto di citazione a giudizio per difetto di notifica del difensore di fiducia.

In sintesi, sostiene il ricorrente che, nel corso del giudizio di primo grado, la difesa dell’imputato avrebbe eccepito che il decreto di citazione a giudizio, datato 27 maggio 2015, indicasse come unico difensore di fiducia l’Avv. Antonella Arcoleo e non anche l’Avv. Rosaria Corona, cui non sarebbe risultato mai notificato il citato decreto. La nomina dell’Avv. Corona quale co-difensore sarebbe emersa dal procedimento in essere presso il Tribunale di Palermo innanzi al quale gli avvocati avevano proposto ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP di Palermo in data 12 novembre 2013. La presenza dell’Avv. Corona sarebbe dimostrata dal verbale di udienza in camera di consiglio del 29 novembre 2013, così come nell’avviso di deposito dell’ordinanza di rigetto del Tribunale per il riesame del 4 dicembre 2013. Il giudice di prime cure rigettava l’eccezione sostenendo che la nomina “non risultava trasmessa all’ufficio del Pm prima della notificazione del decreto di citazione a giudizio”. Sostiene tuttavia il ricorrente che il fascicolo del Tribunale del riesame farebbe parte a pieno titolo di quello delle indagini preliminari, sicché, effettuata la nomina di difensore di fiducia in quella sede, non potrebbe essere addebitato all’imputato il fatto che detto sub-fascicolo non sia stato trasmesso tempestivamente in Procura. Riproposta la questione nei motivi di appello, la Corte territoriale ha risposto negativamente, richiamando un orientamento giurisprudenziale, ad avviso del ricorrente, minoritario. La giurisprudenza di legittimità sosterrebbe infatti che non è abnorme il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, rilevata la mancanza di notifica all’imputato del decreto di citazione, restituisca gli atti al pubblico ministero affinché vi adempia, configurando questa una ipotesi di regresso consentito. La Corte di appello avrebbe pertanto errato nel non rilevare la nullità del decreto di citazione a giudizio per difetto di notifica al difensore di fiducia e non disponendo la regressione del procedimento.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge nella parte in cui la Corte d’appello non ha rilevato che la condotta costituente il presupposto logico per l’emanazione dell’atto amministrativo richiamato al capo 2) è costituito da una mera violazione amministrativa, con conseguente insussistenza della fattispecie penale sub 1), e correlato vizio di difetto di motivazione.

In sintesi, si sostiene che la Corte di appello, relativamente al capo 1), si sarebbe limitata a dichiarare la prescrizione del reato, senza esaminare i motivi di impugnazione sollevati sul punto ed incidenti direttamente su quelli addotti a sostegno della insussistenza dell’illecito di cui al capo 2), condotta per la quale è stata invece dichiarata la responsabilità penale del Trionfanti. Il fatto che il giudice di secondo grado non abbia preso posizione circa la corretta qualificazione giuridica del reato contestato al capo 1) costituirebbe un vulnus grave alla ricostruzione della vicenda. Non potrebbe prescindersi dal fatto che, allorquando il 7 novembre 2013 i militari della Stazione Carabinieri di Torretta procedettero al sequestro di un appezzamento di terreno sito nel comune di Torretta, questo venne indicato come interamente di proprietà del Trionfanti Lorenzo al quale veniva contestato di aver conferito nell’area suddetta “terra e materiale lapideo e cementizio, nonché alcuni pneumatici di medie e grandi dimensioni”. La difesa avrebbe censurato la sommarietà delle indagini poste in essere, avendo il sequestro coinvolto, in maniera indiscriminata, anche particelle di terreno (nn. 248 e 249) appartenenti a terzi, come documentalmente sarebbe dimostrato, così considerando il tutto unitariamente e quindi riconducendo all’imputato la responsabilità anche per i materiali posti in altre proprietà. Solo in quelle particelle sarebbero stati rinvenuti i materiali sopra indicati, sicché il Trionfanti non potrebbe essere dichiarato penalmente responsabile per il deposito avvenuto su terreni al medesimo non appartenenti. La difesa evidenzia che sulle particelle direttamente riconducibili all’imputato (nn. 1286, 1288 e 254) sarebbe stata riscontrata solo la presenza di materiale omogeneo, cioè terreno vegetale in parte in cumuli e in parte spianato, ma non anche materiale lapideo e cementizio ovvero pneumatici. Di tali circostanze avrebbero riferito ampiamente anche i consulenti tecnici della difesa, sebbene i giudici di merito non abbiano tenuto in conto le dichiarazioni dei medesimi. Quanto dedotto inciderebbe sulla esatta configurazione giuridica dei fatti. La contestazione mossa al Trionfanti è quella di cui al comma terzo dell’art. 256 D.lgs. n. 152/2006. La questione da dirimere sarebbe quella di stabilire se il caso concreto possa invece essere ricondotto alla violazione amministrativa di cui all’art. 255, co.1, dello stesso testo legislativo. Secondo la difesa non potrebbe dirsi realizzata una discarica abusiva, difettando i requisiti previsti e richiesti per la sua configurabilità giuridica. Tenuto conto, infatti, della non riconducibilità al Trionfanti delle particelle nn. 248 e 249, non potrebbe non evincersi che la terra sarebbe stata sversata in maniera occasionale, che non vi sia eterogeneità di materiali, trattandosi esclusivamente di terreno naturale, e che non si sarebbe verificato alcun degrado dell’area, la quale sarebbe rimasta inalterata nella sua destinazione agricola. Lo stesso Tribunale del riesame, nell’ordinanza del 29 novembre 2013, avrebbe ritenuto sussumibile la fattispecie nel reato di cui al comma primo dell’art. 256 D.lgs. n. 152/2006. Tale configurazione giuridica sarebbe tuttavia errata, in quanto tale fattispecie di reato presupporrebbe comunque una attività di impresa che, se non in via principale, ma quanto meno in maniera secondaria o consequenziale a quella primaria, sia finalizzata ad una “gestione dei rifiuti”. Nel caso di specie il Trionfanti non avrebbe esercitato alcuna attività di tal genere, limitandosi a depositare un certo quantitativo di terra sul proprio terreno, al solo fine di rendere più agevole l’accesso dei mezzi sul fondo. Anche la dottrina sarebbe critica circa la qualificazione dell’illecito de quo quale reato comune, rinviando il precetto agli artt. 208, 209, 210, 211,212,214,215 e 216 i quali prevedono tutti l’esercizio di una attività di impresa, anche solo di fatto, con la conseguenza che sarebbe preferibile parlare di reato proprio. La violazione in cui sarebbe incorso il Trionfanti sarebbe invece inquadrabile nell’art. 255, co.1 D.lgs. n. 152/2006, il quale sanziona a livello amministrativo il deposito o l’abbandono incontrollato di rifiuti. Alla luce della distinzione tra “raccolta” ed “abbandono”, il legislatore avrebbe distinto la medesima attività (ossia l’abbandono o il deposito incontrollato dei rifiuti) da un punto di vista penale o amministrativo solo in base alla qualifica soggettiva dell’agente, tale per cui, a parità di condotta, il titolare di imprese ed il responsabile di enti ne risponderebbero penalmente, mentre il privato persona fisica in via amministrativa. Si ribadisce, pertanto, che il Trionfanti non svolge alcuna attività di impresa, neppure di fatto, e l’abbandono o il deposito incontrollato di rifiuti da parte sua configurerebbe solo la violazione di carattere amministrativo di cui all’art. 255 summenzionato. Tale interpretazione normativa sarebbe giustificata dalla contestazione di cui al capo 2) che fa riferimento all’art. 255. Di tale problematica si sarebbero disinteressati i giudici del merito i quali avrebbero giustificato la presenza di una “discarica” utilizzando criteri difformi da quelli individuati dalla giurisprudenza di legittimità. Il giudice di prime cure avrebbe fatto leva sul posizionamento dei rifiuti e sul posizionamento del materiale terroso. Sul punto nulla direbbe la Corte di Appello che non ha preso posizione sul capo. 1). Il giudice di secondo grado non avrebbe motivato sulla corretta qualificazione giuridica del fatto, dovendosi inquadrare la condotta ascritta al Trionfanti all’art. 255.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, vizio di motivazione, sotto il profilo della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, quanto al capo 2), nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto di non dover disapplicare l’atto amministrativo sotteso al reato contestato.

In sintesi, si sostiene che la Corte di appello, nel confermare la sentenza di primo grado, avrebbe impiegato affermazioni generiche ed apodittiche, sostenendo che il Trionfanti avesse certamente la materiale disponibilità dell’intero lotto, che fosse l’unico soggetto a frequentare quel sito del quale era stato nominato custode e che il medesimo non aveva impugnato l’ordinanza sindacale. A fronte delle argomentazioni difensive in ordine alla necessità di procedere alla disapplicazione dell’atto amministrativo sotteso alla contestazione di carattere penale, il giudice di secondo grado avrebbe ritenuto di contrappore le considerazioni sopra menzionate. A fronte di una contestazione sub capo 1), per avere realizzato una discarica ai sensi dell’art. 256, co.3, D.lgs. n. 152/2006, sarebbe stata logica conseguenza una contestazione al capo 2) legata all’inosservanza degli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi. Viceversa la contestazione dell’art. 255, co.3, D.lgs. n. 152/2006 riporterebbe al concetto di “abbandono o deposito incontrollato di rifiuti” secondo la formulazione di cui al comma primo del medesimo articolo la cui violazione comporta solo una sanzione amministrativa, non costituendo una violazione penale. Ogni valutazione in ordine alla sussistenza del reato contestato al capo 2) avrebbe pertanto dovuto presuppore una derubricazione della contestazione di cui al capo 1) da art. 256, co.3 all’art. 255, co.1 D.lgs. n. 152/2006. La difesa censura la legittimità dell’ordinanza sindacale del Comune di Torretta (n. 89 del 10.12.2013) alla quale il Trionfante non avrebbe ottemperato. Su tale questione la Corte di appello non si sarebbe pronunciata, richiamando considerazioni generiche ed apodittiche come sopra esposto. Si tratterebbe di una ordinanza sindacale emessa a firma del responsabile dell’area tecnica del comune di Torretta, cioè il medesimo funzionario pubblico che avrebbe partecipato al sopralluogo congiunto con i carabinieri di Torretta e che ha identificato l’imputato quale proprietario dell’intera area, anche se le particelle nn. 248 e 249 sarebbero appartenenti a terzi. L’ordinanza sarebbe illegittima e dovrebbe essere disapplicata.

Il Trionfanti avrebbe infatti fornito al giudice penale dati significativi valutabili ai fini della disapplicazione del provvedimento e cioè il fatto che alcune particelle sarebbero state erroneamente attribuite al medesimo, pur appartenendo a terzi, nonché la mancata specificazione per le singole particelle di proprietà dell’imputato nell’ordinanza, venuta meno l’unitarietà dell’area, del se e quali tipologie di rifiuti vi fossero stati abbandonati. Ne sarebbe conseguito che il Trionfante sarebbe stato materialmente impossibilitato a predisporre il ripristino dei luoghi e dunque ottemperare correttamente all’ordinanza sindacale, il che costituisce il presupposto della violazione penale contestata. L’atto amministrativo mostrerebbe errori, imprecisioni ed incongruenze per i quali non potrebbe costituire il fondamento di una possibile responsabilità penale. Essa infatti: a) indica erroneamente il Trionfante come proprietario di alcune particelle che il comune di Torretta avrebbe potuto accertare come appartenenti a terzi; b) non preciserebbe in quale delle particelle fossero presenti rifiuti; c) non preciserebbe, in caso positivo, quale tipologia di rifiuto fosse presente nelle particelle riconducibili al Trionfante. L’imputato non avrebbe pertanto potuto ottemperare alle disposizioni di una ordinanza siffatta. La sentenza sarebbe per tali ragioni censurabile, non avendo la Corte di appello tenuto in considerazione le argomentazioni difensive.

2.4. Deduce, con il quarto motivo, vizio di motivazione in ordine alle ragioni che hanno indotto la Corte d’appello a subordinare la sospensione condizionale della pena all’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi.

In sintesi, premette il ricorrente che la Corte di appello ha subordinato alla sospensione condizionale della pena al ripristino dello stato dei luoghi, applicando la seconda parte dell’art. 255 D.lgs. n. 152/2006. Si tratterebbe di una facoltà riconosciuta al giudicante, senza alcun automatismo, la quale ricalca il principio generale di cui all’art. 165 c.p. in base al quale la sospensione condizionale può – e non deve – essere subordinata all’adempimento di determinati obblighi. Allorquando il giudicante subordini la sospensione condizionale della pena all’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi, il medesimo dovrebbe indicare le ragioni per le quali, nel formulare il giudizio prognostico di cui all’art. 164, co.1, c.p., abbia ritenuto necessario porre l’esecuzione di tale ordine come condizione per la fruizione del beneficio. Nulla avrebbe invece indicato la Corte di appello, limitandosi ad affermare il principio, senza adottare alcuna motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.

4. Il primo motivo è inammissibile.

La rinnovazione della notificazione da parte del giudice di primo grado, ordinata nell’ambito della prima udienza (3.5.2016), è avvenuta il 12.5.2016, dunque indiscutibilmente entro i termini richiesti dall’art.  552, co. 3 c.p.p. (60 giorni prima dell’udienza, rinviata al 7.10.2016). Non sussiste dunque nemmeno un interesse all’impugnazione, difettando una concreta lesione del diritto di difesa. A ciò va aggiunto che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la nomina del difensore di fiducia fatta dall’indagato per il procedimento incidentale di riesame non dispiega effetto alcuno nel procedimento principale, del tutto autonomo e separato dal primo, non essendone prevista la conoscenza da parte dell’autorità giudiziaria procedente che viene avvisata della richiesta di riesame ai soli fini della trasmissione degli atti (tra le tante: Sez. 3, n. 4653 del 03/03/1999 – dep. 14/04/1999, Ventriglia L, Rv. 213091).

Corretto pertanto è risultato il rigetto dell’eccezione sia da parte del primo che del secondo giudice, non essendo stata rilevata la presenza al fascicolo del PM della nomina fiducia al codifensore avv. Corona, la cui nomina risultava solo per la fase incidentale cautelare reale. Nemmeno, peraltro, può qualificarsi illegittimo il provvedimento del giudice che ha disposto la rinnovazione della notifica del d.c. a giudizio al difensore, anziché restituire gli al P.M. al fine dell’esecuzione della notifica all’Avv. Corona. La giurisprudenza citata dal ricorrente evidenzia la possibilità per il giudice di non procedere direttamente alla rinnovazione, trattandosi di un caso di regresso “consentito”. Tuttavia la possibilità che tale regressione non venga ritenuta abnorme non esclude, a contrario, la non abnormità dell’ipotesi contraria. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (26 marzo 2009, n. 25957) hanno affrontato il problema dei rapporti fra il giudice e il P.M. in rapporto al fenomeno della regressione “anomala” del processo ad una fase precedente. In tale occasione è stato affermato non conforme al sistema, per le caratteristiche di assoluta atipicità e residualità del fenomeno, dilatare il concetto di abnormità fino ad utilizzarlo impropriamente per far fronte a situazioni di illegittimità considerate altrimenti non inquadrabili né rimediabili. Si precisa, innanzitutto, che ricorre l’ipotesi di “abnormità strutturale” nel caso di esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall’ordinamento processuale (carenza di potere in astratto) ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo del modello legale, nel senso di esercizio di un potere previsto dall’ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perché oltre ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto). Si verte, invece, in ipotesi di “abnormità funzionale” nel caso di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo. L’abnormità si verifica dunque soltanto quando il provvedimento giudiziario imponga alla pubblica accusa un adempimento idoneo ad integrare un atto nullo rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo. I giudici hanno anche mirato a limitare un eventuale eccessivo ricorso alla categoria della abnormità escludendo dal perimetro della medesima i c.d. vizi innocui, ossia i casi nei quali venga accertata una irrilevanza sopravvenuta dell’anomalia, dovuta ad un successivo provvedimento o ad una situazione processuale che ne ha fatto venire meno la rilevanza. In tali ipotesi sebbene il giudice abbia esercitato un potere al medesimo non spettante, non si è realizzata alcuna stasi del processo, anche ove il processo sia indebitamente regredito. In relazione ai provvedimenti assunti sull’atto di citazione a giudizio, sempre le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (29 maggio 2002, n. 28807) hanno stabilito che il regresso del procedimento è atipico e comporta l’abnormità del relativo provvedimento se consegua ad un atto adottato dal giudice in carenza di potere, ossia la restituzione degli atti nei casi di cui all’art. 552, co. 3 c.p.p., allorché era suo compito provvedere direttamente a rinnovare la citazione a giudizio o la relativa notifica. Non è invece abnorme il provvedimento con cui il giudice, dichiarata la nullità del decreto di citazione (art. 429 c.p.p. – ad es. omessa notificazione avviso ex art. 415bis c.p.p.), restituisca gli atti al pubblico ministero – ancorché si tratti di declaratoria originata da un suo errore-  in quanto l’atto rientra nella sfera di competenza del giudice e comporta tipicamente la regressione (Cass., Sez. V, 23 ottobre 2018, n. 55261).

Nessuna censura sul punto poteva pertanto essere avanzata dal ricorrente.

5. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

Deve, anzitutto, premettersi che, essendo intervenuta sentenza di proscioglimento per prescrizione in ordine al reato di cui al capo 1), le doglianze del ricorrente, il quale evoca anche un vizio di motivazione, in tal senso, non possono essere oggetto di esame da parte di questa Corte. La difesa dimentica, infatti, l’ormai consolidato principio secondo cui, da un lato, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 – dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244275); dall’altro, che in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 – dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244274).

Nella specie, la stessa struttura del motivo proposto dal ricorrente, rende evidente come la doglianza difensiva si fondi sull’assunto che l’imputato non avrebbe potuto essere ritenuto responsabile della contestata realizzazione della discarica in quanto non sarebbero state ad esso riconducibili le particelle nn. 248 e 249, su cui vennero rinvenuti i materiali. E’ evidente che la verifica di tale presupposto comporterebbe da parte di questa Corte lo svolgimento di un accertamento di fatto, estraneo alla giurisdizione di pura legittimità esercitabile da parte della Corte di cassazione, donde è evidente come non sarebbe possibile, nel caso di specie, giungere all’adozione di una formula liberatoria più favorevole a quella cui sono pervenuti i giudici di merito, non potendo giungere questa Corte a tale soluzione mediante la semplice percezione “ictu oculi”, ma imponendosi un “apprezzamento”, giudizio che, come anticipato, non può essere svolto da questa Corte in quanto incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.

Peraltro, si aggiunga, il ricorrente mostra di non tenere nemmeno conto di quanto argomentato dai giudici di merito sul punto. Il ricorrente, infatti, contesta sostanzialmente la ricostruzione della fattispecie operata dal giudice di primo grado e confermata in appello relativamente al capo 1) di imputazione. Sebbene sia stata dichiarata la prescrizione del reato, dal testo della sentenza si evince che la Corte territoriale ha tenuto conto degli elementi probatori emersi nel procedimento, individuando gli elementi costitutivi della contravvenzione di cui al comma terzo dell’art. 256 TUA, non invece la fattispecie descritta dal secondo comma del medesimo articolo. Solo per quest’ultima il legislatore ha posto l’accento sulla qualifica soggettiva dell’agente (imprenditore o privato) al fine di distinguerla dall’ipotesi costituente mero illecito amministrativo di cui all’art. 255 TUA. Il motivo pertanto non si confronta con le risultanze probatorie e, conseguentemente, con la motivazione della sentenza che su di esse è fondata (“…alla luce dell’accertamento compiuto dai Carabinieri unitamente a personale specializzato in servizio all’ufficio tecnico del Comune e dei rilievi fotografici acquisiti in atti in ordine al deposito di una consistente quantità di rifiuti in un lotto di terreno, quanto meno nella disponibilità dell’imputato, non sono emersi elementi per una più favorevole pronuncia di proscioglimento”- pag. 5 della sentenza impugnata).

5.1. Né, infine, è corretto giuridicamente sostenuto dalla difesa del ricorrente, secondo cui la sentenza sarebbe viziata laddove sostiene che difetti il presupposto logico per l’emanazione dell’atto amministrativo richiamato al capo 2). Ed infatti, la responsabilità penale per il reato previsto dall’art. 255, comma 3, d. lgs. n. 152 del 2006, prescindeva dall’accertamento della responsabilità per il reato di cui al capo 1). Come infatti è stato più volte affermato da questa Corte, l’obbligo di rimozione cui si riferisce l’illecito contravvenzionale di cui all’art. 255, comma 3, TUA, sorge sia in capo al responsabile dell’abbandono, quale conseguenza della sua condotta, sia nei confronti degli obbligati in solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa, sia, infine – ed è questo il caso in esame – nei confronti dei destinatari dell’ordinanza sindacale di rimozione che sono obbligati in quanto tali e che, in caso di inottemperanza, ne subiscono, per ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare il provvedimento per ottenerne l’annullamento o non hanno fornito al giudice penale elementi significativi per l’eventuale disapplicazione (Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018 – dep. 03/09/2018, Pavan, Rv. 273840). Dunque, la responsabilità penale per la mancata ottemperanza all’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti di cui risultava destinatario l’attuale ricorrente risultava del tutto sganciata dalla natura, penale o amministrativa, della condotta contestata al capo 1), ben potendo identificarsi il responsabile anche nel privato cittadino (oltre che colui che esercita professionalmente un’attività di gestione di rifiuti) che resti inottemperante all’ordinanza di rimozione dei rifiuti, donde il rilievo si appalesa del tutto privo di pregio. Colui il quale sia raggiunto dall’ordinanza deve quindi agire perché il provvedimento venga meno, in via amministrativa o giurisdizionale, altrimenti configurandosi l’illecito de quo ove non ottemperi all’ordine nel medesimo espresso (Cass., Sez. III, 7 maggio 2019, n.31291).

6. Anche il terzo motivo è inammissibile.

Ed invero, nella sentenza impugnata, la Corte di appello ha considerato non solo l’avvenuta inottemperanza all’ordine ricevuto dal ricorrente, ma anche la circostanza che il medesimo non risultava avere impugnato l’ordinanza in contestazione nell’ambito del relativo procedimento “al fine di far valere la mancanza dei presupposti soggettivi, dimostrandosi così acquiescente rispetto al provvedimento amministrativo” (pag. 8 sentenza). Nell’ambito del procedimento diretto all’adozione dell’ordinanza il Trionfanti non aveva fatto pervenire alcuna contestazione o controdeduzione, sicché, in quanto destinatario formale dell’ordinanza sindacale, era tenuto a darvi esecuzione. Considerato il contenuto della sentenza di primo grado, in ogni caso, il Trionfante era stato correttamente qualificato come destinatario dell’ordinanza. Il medesimo infatti, secondo quanto si legge nelle due decisioni di merito (le cui motivazioni si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risultava avere il pieno dominio del terreno, avendone sostanzialmente un uso esclusivo (relativamente alla parcella n. 249, prima appartente al Trionfante fino al 2010, essa era stata oggetto di alienazione sebbene il cedente-imputato si fosse riservato il diritto di passaggio e di utilizzazione dell’intera strada carrabile; per la particella n. 248, invece, si constatava l’appartenenza ad un numero di 17 coeredi, tutti residenti negli Stati Uniti), approdo cui erano pervenuti i giudici di merito attraverso una valutazione del tutto immune da vizi logico – argomentativi, non inficiata dal fatto che la stessa non avrebbe specificato per le singole particelle di proprietà dell’imputato se e quali tipologie di rifiuti vi fossero stati abbandonati, atteso che, in considerazione dell’unitarietà sostanziale della disponibilità in parte giuridica ed “in toto” in fatto delle particelle in capo all’imputato (per come emersa dalle emergenze istruttorie e motivata dai giudici di merito), detta specificazione non era rilevante. Né, tantomeno, l’ordinanza avrebbe potuto ritenersi illegittima per la mancata indicazione della tipologia di rifiuti  abbandonati di cui si ordinava la rimozione, atteso che l’organo amministrativo, avendo ritenuto ascrivibile l’abbandono dei rifiuti ivi rinvenuti (si noti, di tutti i rifiuti ivi rinvenuti), evidentemente aveva chiesto al destinatario della stessa, ossia l’imputato, di rimuoverli integralmente, donde nessuna specificazione della tipologia dei rifiuti abbandonati era necessaria.

Da qui, dunque, la corretta affermazione dei giudici di merito che non avevano ravvisato elementi per poter disapplicare l’ordinanza, atteso che incombeva sull’imputato l’onere di provare l’assenza dei presupposti soggettivi al fine di ottenere la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice penale, onere nella specie non assolto.

7. Il quarto ed ultimo motivo, infine, è inammissibile per una duplice ragione. Anzitutto, perché, come risulta dall’esame dell’atto di appello – e dalla stessa precisazione svolta dalla Corte d’appello (pag. 8) che, nel confermare la predetta statuizione, precisava non essere intervenuta alcuna impugnazione sul punto -, il ricorrente non aveva proposto alcun motivo diretto a censurare la subordinazione della sospensione della pena al ripristino dello stato dei luoghi. Nessun onere motivazionale, pertanto, aveva il giudice d’appello di pronunciarsi sul punto, non avendo costituito oggetto di specifica doglianza nei motivi di appello.

In ogni caso, il motivo è comunque inammissibile, non tenendo conto il ricorrente del testo legislativo applicato al caso in esame, e, nello specifico, del comma terzo dell’art. 255 D.lgs. n. 152/2006, in forza del quale “Chiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco, di cui all’articolo 192, comma 3, o non adempie all’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3, è punito con la pena dell’arresto fino ad un anno. Nella sentenza di condanna o nella sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione di quanto disposto nella ordinanza di cui all’articolo 192, comma 3, ovvero all’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 187, comma 3”. Il giudice del merito, sia in primo che in secondo grado, ha pertanto legittimamente subordinato la sospensione condizionale della pena al ripristino dello stato dei luoghi, avendo ciò già costituito oggetto dell’ordine – non ottemperato dal Trionfanti – contenuto nel provvedimento emesso dal sindaco del Comune di Bolognetta.

8. Il termine di prescrizione del reato, infine, non è ancora decorso, atteso che, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, il reato di mancata ottemperanza all’ordine sindacale di rimozione dei rifiuti, di cui all’ art. 255, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 ha natura di reato permanente, nel quale la scadenza del termine per l’adempimento non indica il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l’inizio della fase di consumazione che si protrae sino all’ottemperanza all’ordine ricevuto (Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018 – dep. 03/09/2018, Pavan, Rv. 273841).

9. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 19 novembre 2019

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