09/12/2020 – I mali della PA non si curano eliminando i concorsi e precarizzando personale e dirigenza

Se molte delle analisi proposte da Francesco Grillo nell’articolo su Il Messaggero del 7.12.2020 titolato “Retribuzioni e merito: la relazione necessaria” sono condivisibili, in quanto scontate, i rimedi proposti appaiono in gran parte fuori strada. 

Partiamo da quello in teoria più accettabile e, infatti, perorato, enunciato, potremmo dire quasi “officiato” da qualsiasi Ministro della Funzione Pubblica da Brunetta in poi: prevedere “indicatori che i cittadini stessi possono controllare”. 

E’ l’insistenza sul coinvolgimento dei cittadini nella valutazione. Una petizione di principio corretta, che fa assurgere, però, ad un elemento necessariamente marginale della valutazione ad un ruolo fondamentale che non ha e non può avere. 

La confusione è la solita: pensare che la pubblica amministrazione agisca “come un’azienda”. Quindi, come i cittadini/clienti scelgono il prodotto e quindi le aziende alle quali rivolgersi, allo stesso modo i cittadini dovrebbero poter essere clienti dei servizi e scegliere il migliore produttore di essi, tra le varie pubbliche amministrazioni. 

Oltre all’errore di confondere la PA con un’azienda, l’altra imperdonabile deviazione di questo modo di ragionare è considerare i cittadini appunto non come tali, bensì come clienti, chiamati ad esprimersi mediante le “faccine” di brunettiana memoria, oppure rispondendo a domande più o meno lunghe e comprensibili di quesitari o a mettere dei “like” nelle (per altro pochissimo visitate) pagine istituzionali. 

Non comprende che le PA agiscono in regime di quasi monopolio. Il cittadino non può scegliere a quale ufficio anagrafe rivolgersi per avere la carta di identità, né l’ufficio tributi al quale pagare le imposte. 

Non solo. Il cliente si rivolge al mercato per comprare un prodotto, in un rapporto perfettamente simmetrico tra cliente e fornitore. Se al cliente il prodotto proposto o offerto non piace, può rivolgersi ad un altro fornitore. E se conclude il contratto è perché certamente il bene o servizio è quello cercato. Un giudizio negativo di solito si esprime con la decisione di non acquistare, o nel post vendita. 

Nel rapporto con la pubblica amministrazione in un enorme serie di ipotesi il contatto col cittadino non è voluto dal cittadino. Basti pensare ai casi più diffusi: il pagamento delle tasse, la chiamata per una sanzione, la richiesta di un permesso negato. 

I rapporti tra PA e cittadini non sono quelli tra fornitore e clienti. Spesso sono di carattere regolatorio o impositivo. Per quanto la normativa abbia provato a parificare i ruoli, assegnando ai cittadini diritti di partecipazione ed accesso, in ogni caso le decisioni non sono frutto di un’intesa contrattuale, ma comunque imposte. E’ evidente che il “gradimento” dell’azione amministrativa in gran parte potrebbe essere sondato in modo fuorviante. Quanti cittadini, in questo momento, sono disponibili a dare un “voto” favorevole alle misure di restrizione sotto le feste natalizie? 

E passiamo all’altro spunto inaccettabile, anche questo trito e ritrito: “superare la logica dei concorsi a tempo indeterminato”. 

Il superamento di ciò, implica necessariamente due cose: 

1. la scelta dei dipendenti pubblici non mediante concorso; 

2. la copertura dei ruoli degli uffici pubblici con dipendenti a tempo determinato.  

Inutile ricordare il dato formale che il primo corno della proposta è, per fortuna, al momento impedito dall’articolo 97 della Costituzione. Per fortuna, perché per quanto il concorso pubblico non sia la forma perfetta di reclutamento (che non esiste in natura), resta comunque l’unica capace di frapporre (non sempre con successo) un diaframma alle assunzioni per familismo o appartenenza politico-sindacale. Chi propone, come fosse una scelta “moderna” (e invece è un arretramento pre industriale), l’abbandono del concorso, non ha mai la capacità di fornire un’alternativa credibile, capace di risolvere i problemi dell’inquinamento della selezione. L’unica idea che si legge è quella di affidarsi alle aziende private di ricerca e selezione (“come le aziende”). Ma, queste aziende sono pagate dal committente. Inutile fare le anime candide: il committente politico pagherebbe l’azienda cacciatrice di testa per giungere a selezionare l’amico, l’amante, il parente, l’iscritto, l’affiliato. Avviene già, fin troppo spesso e senza nessun argine quando le PA assumono attraverso i contratti di somministrazione: in grandissima parte dei casi i nominativi delle persone sono “casualmente” pilotati ed indirizzati. 

Infine, l’altro mantra: la dirigenza da assumere a tempo determinato, perché deve “rischiare”. Non si comprende che in questo modo si assoggetta la dirigenza alla politicizzazione, esattamente il disegno micidiale della riforma Madia, per fortuna mai andato in porto. 

La dirigenza deve rischiare, certo. Ma non a causa dell’introduzione di meccanismi tali da indurre i dirigenti al bacio della pantofola della maggioranza di turno, me solo ed esclusivamente sapendo introdurre elementi di valutazione del risultato. Che non è solo un’analisi di un prodotto. In un ufficio anagrafe è importante sapere quanto tempo ci si mette a produrre una carta di identità, un certificato, un’iscrizione nei registri, un cambio di residenza, per capire se il tempo disponibile sia correttamente impiegato nel produrre gli atti ed i prodotti ipoteticamente vicini alla frontiera dell’efficienza. Ma, il risultato dell’ufficio anagrafe non è solo la somma di pezzi di carta o di plastica prodotti: è la garanzia di un censimento costante e ordinato della popolazione, necessario a fini fiscali, per la sicurezza, per lo svolgimento delle consultazioni elettorali, per le politiche urbanistiche ed edilizie, per quelle sanitarie, e così via. Il risultato, molte volte, è un “meta risultato”, che la politica e troppi commentatori, avvolti nell’opacità della nebbia della “PA come un’azienda”, non sono più capaci di vedere e valorizzare.

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