24/08/2020 – Potere di avocazione dei segretari comunali. Argomentazioni pro alla preintesa al Ccnl dell’area dirigenza del comparto Funzioni Locali che lo introduce.

Potere di avocazione dei segretari comunali. Argomentazioni pro alla preintesa al Ccnl dell’area dirigenza del comparto Funzioni Locali che lo introduce.
 
Di fronte a previsioni normative innovative e da collocare nel complicato mosaico ordinamentale, le chiavi di lettura ai fini dell’approccio interpretativo sono ovviamente molte, spesso contrastanti. I contrasti interpretativi sono reperibili molto sovente tra giurisdizioni e, nell’ambito di una stessa giurisdizione, anche tra diversi giudici, oltre che in dottrina.
Non c’è, quindi, nulla di strano se rispetto all’introduzione del potere di avocazione attribuito al segretario comunale dalla preintesa al Ccnl dell’area dirigenza del comparto funzioni locali si possano esprimere tesi contrapposte: una volata ad evidenziare la nullità di tale clausola per violazione di legge; l’altra tendente, invece, a ritenerla corretta.
Ferme restando le posizioni, il fondamento delle tesi sta, ovviamente, nelle argomentazioni.
 
Chi scrive sostiene che la previsione della preintesa è nulla per violazione di legge. E propone una specifica ed unica argomentazione: la previsione contrattuale va in chiaro contrasto con quanto disposto dall’articolo 40, comma 1, secondo periodo, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “Sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421“.
Come affermato già varie volte, la previsione della preintesa vìola due volte la disposizione richiamata, perchè:
1. il potere di avocazione incide evidentemente sull’organizzazione degli uffici. Infatti, l’avocazione è una misura organizzativa, che disciplina in particolare i rapporti interorganici e consiste nella possibilità che un organo eserciti i compiti spettanti ad altro organo (organizzazione deriva dalla medesima radice…), in ordine a singoli atti, per motivi di interesse pubblico e indipendentemente dall’inadempimento dell’organo istituzionalmente competente (E. Casetta). Infatti, l’avocazione è potere tipico ed esclusivo del potere di gerarchia proprio: l’organo sovraordinato condivide con quello subordinato la medesima sfera di potere e però lascia che sia l’organo sotto ordinato a compiere certi atti, riservandosi sempre, comunque, la possibilità di incidere sulla competenza del sotto ordinato, avocando a sè il compimento di questi, non solo nel caso di inadempimento, ma anche per valutazioni di opportunità. Dunque, stabilire che un organo dispone di un potere di avocazione nei confronti di altri, implica indirettamente fissare un rapporto di gerarchia e, quindi, incidere sull’organizzazione dell’ente. Inutile ricordare qui che il rapporto organizzativo negli enti locali è, per legge, basato sul rapporto di direzione e non gerarchico, come chiarito in modo evidentissimo dall’articolo 107, commi da 2 a 5, del Tuel. Quel che conta è limitarsi ad osservare che la clausola della preintesa vìola un primo precetto dell’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001;
2. nel momento in cui un contratto collettivo incide sull’organizzazione e sull’esercizio delle competenze, evidentemente allarga il proprio disposto alle “prerogative dirigenziali”. La clausola contestualmente introduce una prerogativa inesistente, l’avocazione, e limita le prerogative dirigenziali.
E’ bene ricordare che ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del d.lgs 165/2001, “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo“.
La valutazione della nullità della clausola della preintesa, quindi, non discende da una presa di posizione socio-politica o di “antipatia” verso essa, ma semplicemente dalla lettura delle norme. Vi è un contrasto tra tale clausola e le norme citate, contrasto che, essendo le previsioni del d.lgs 165/2001 a carattere imperativo, implica la nullità della previsione contrattuale, per violazione di norma di legge imperativa. Ci si richiama a norme basiche, come l’articolo 1418, comma 1, del codice civile: “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente“.
In questo post sono state per altro esposte molte altre cause di nullità, per violazione ad una serie oggettivamente estesissima di norme.
Ma, andiamo alla tesi, invece, favorevole. L’argomentazione che ci si dovrebbe aspettare è volta a dimostrare che la previsione contrattuale non vìoli l’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001 o che, in subordine, tale norma non sia imperativa.
In gran parte, fin qui, invece, le argomentazioni evidenziate sono di tutt’altro segno, caratterizzate da una dimostrazione di opportunità della clausola contrattuale. Nulla vieta a nessuno di condividere il merito della previsione. Ma, il problema che si pone non è una condivisione, si ribadisce “socio-politica”, bensì la tenuta della clausola rispetto alle disposizioni normative.
Ccnl fonte equiordinata alla legge. Una prima argomentazione è quella secondo la quale il Ccnl sarebbe fonte equiordinata alla legge, come tale, pertanto, pienamente legittimata dall’ordinamento a disciplinare poteri organizzativi.
Dalla riforma del 1998, in effetti, si assiste ad un tentativo, per la verità disomogeneo ed incostante, di riconduziuone della disciplina del rapporto di lavoro pubblico a quello privato, con il rafforzamento del ruolo della contrattazione.
E’, tuttavia, noto che questo processo ha subìto una forte battuta d’arresto con la riforma Brunetta del 2009 e che le divergenze tra disciplina del lavoro pubblico e privato restano e si ampliano.
In effetti, non esiste alcuna equiordinazione tra Ccnl e legge. Lo dimostrano proprio le norme citate in precedenza. L’articolo 2, comma 2, del d.lgs 165/2001 (“I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”) limita l’estensione della competenza dei Ccnl alla sola regolazione del rapporto di lavoro, materia dalla quale esula la definizione di poteri organizzativi. Infatti, l’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001 vieta alla contrattazione collettiva di ingerirsi nell’organizzazione: essa è tipicamente pertinenza esclusiva datoriale e soggetta, oltre tutto, a riserva di legge, ai sensi dell’articolo 97, comma 2, della Costituzione: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge“. E’ una riserva relativa, certo. Ma, non è dato rinvenire nessuna disposizione normativa che abbia permesso ai Ccnl di disciplinare l’organizzazione dei pubblici uffici. Sarebbe quella norma che permetterebbe di superare l’imperatività delle previsioni del d.lgs 165/2001 ed eviterebbe alla clausola del Ccnl di incappare nella nullità imposta dall’articolo 1418, comma 1, del codice civile. Tuttavia, questa previsione non esiste.
Efficienza dell’organizzazione. L’introduzione di una previsione posta a porre in capo ad un vertice organizzativo un potere di avocazione corrisponderebbe a criteri di efficienza, volti a ricondurre ad unità la gestione e a creare un sistema coerente e dotato di un livello ultimativo di decisione.
Si tratta di un’argomentazione suggestiva. Si potrebbe controdedurre che:
1. in ogni caso ciò presupporrebbe l’introduzione di un sistema di potere gerarchico proprio, sicchè il segretario comunale assommerebbe in sè tutte le competenze dei dirigenti, comprese quelle dei dirigenti tecnici, degli assistenti sociali, dell’avvocatura, del comando della polizia municipale, del bilancio, dei tributi. Da elemento di organizzazione, un collo di bottiglia simile si tramuterebbe in sintomo irrimediabile di disorganizzazione. Un modello simile può funzionare solo nei comuni con meno di 1000 anime e 3-5 dipendenti. L’evoluzione organizzativa richiede altri principi organizzativi, che sono quelli in effetti indicati dall’ordinamento: direzione e coordinamento;
2. l’avocazione degli atti dei dirigenti non è prevista nemmeno nell’organizzazione dei Ministeri, ove i dirigenti di prima fascia sono realmente collocati in posizione di gerarchia superiore rispetto ai dirigenti di seconda fascia. E’ disciplinato solo il potere di sostituzione in caso di inerzia. La ragione è semplice: gli etti dei dirigenti sono sempre e tutti definitivi. Altrimenti, la certezza del diritto e degli strumenti di tutela si azzererebbero.
Ma, a ben vedere, queste due controdeduzioni non occorrono e si rivelerebbero controproducenti. Non perchè non fondate, bensì perchè condurrebbero a spostare l’attenzione, invece di lasciarla focalizzata sulla violazione dell’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001.
Allora, tornando al problema di tale violazione, è facile dimostrare che la suggestione delle necessità organizzative cozza comunque col divieto imperativo posto dalla legge al Ccnl di interessarsi dell’organizzazione.
L’avocazione è nella sostanza il potere sostitutivo. E’ un’interpretazione interessante, volta a “conservare” il valore giuridico della clausola contrattuale, senza giungere alla conclusione della sua radicale nullità.
In sostanza, il Ccnl avrebbe riscritto, in modo atecnico e parzialmente erroneo, la previsione contenuta nell’articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990: “L’organo di governo individua, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell’ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell’amministrazione“.
Così intesa, la disposizione contrattuale conserverebbe le proprie validità ed efficacia e non comporterebbe in ogni caso uno stravolgimento organizzativo ed un’incisione nelle prerogative dirigenziali.
Si tratta di un’interpretazione per un verso anche auspicabile, perchè non condurrebbe alla “traumatica” nullità. Le parti, per altro, in un accordo di interpretazione autentica potrebbero anche sostenere questa visione e chiudere ogni diatriba.
C’è, però, un problema grave. La normativa della legge 241/1990, per altro rinvenibile anche nel novero delle competenze dei dirigenti di prima fascia ai sensi dell’articolo 16 del d.l.gs 165/2001, disciplina il potere sostitutivo come sacrosanto e necessario rimedio all’inerzia.
La disposizione del Ccnl è diversa: radica il potere di avocazione non sull’inerzia ma sulla diversa situazione dell’inadempimento.
Qui è il nocciolo della questione. L’inerzia è un fatto oggettivo. L’inadempimento pure, ma si presta ad essere valutato come tale in relazione a punti di vista. Sta qui l’estremo rischio di disorganizzazione e contenzioso del potere di avocazione, a chiunque assegnato segretario comunale o non segretario comunale.
Allo scopo, chi scrive ha ricordato qui la vicenda affrontata dalla sentenza della Corte di cassazione Sezione Lavoro 12 giugno 2007, n. 13708. Non ha richiamato la sentenza citata per trarre da questa argomentazioni sulla liceità della clausola della preintesa, ma per evidenziare i rischi molto gravi sottesi all’avocazione. Nel post è, infatti, scritto: “La storia è quella di un responsabile del servizio edilizia, che evidenzia all’amministrazione, evidentemente propensa ad autorizzare ad una certa persona un intervento edilizio, l’illegittimità e la connessa improcedibilità della concessione.
E la storia continua con l’amministrazione che si rivolge al segretario comunale, per chiedere di “avocare” a sè un atto, per altro caratterizzato da spiccata tecnicità edilizia, in modo da superare le valutazioni tecniche contrarie del responsabile tecnico e, quindi, disporre il provvedimento di concessione.
Storia che prosegue con l’avocazione e anche l’instaurazione di un procedimento disciplinare nei confronti del tecnico.
La storia finisce col tecnico che per tutelarsi contro l’avocazione illegittima, si rivolge al giudice civile, che riconosce la legittimità del suo operato, fino a giungere alla Cassazione, che esclude il potere di avocazione del comune, costituitosi ancora una volta contro il tecnico e supportata per altro da un intervento di un sindacato da anni alla ricerca dell’assegnazione ai segretari comunali dell’inesistente potere di avocazione“.
Come si nota, la Cassazione ha affrontato una questione legata non ad un inadempimento, bensì ad una decisione gestionale di rigetto di un’istanza edilizia, cui ha fatto seguito la reazione dell’amministrazione, che ha preteso ed ottenuto dal segretario comunale di “avocare” la competenza per concedere ciò che il tecnico aveva denegato, causando contestualmente il procedimento disciplinare del tecnico. Tutto senza alcun fondamento.
Ora, si ribadisce, il richiamo di questa sentenza non ha lo scopo di fondare la illiceità della clausola della preintesa, bensì di evidenziare quali sono le certe conseguenze del certissimo utilizzo distorto che del potere di avocazione verrebbe diffusamente preteso nei comuni.
Il problema è, appunto, nel concepire e definire l’ipotesi di “inadempimento”. Sul piano squisitamente giuridico è ovviamente il mancato compimento di un obbligo o la mancata esecuzione di un’obbligazione.
Troppo facile è, però, prevedere che agli occhi degli amministratori di matrice politica, “inadempimento” è anche negare una concessione edilizia, non attribuire un contributo, non assegnare un appalto in affidamento diretto ad una certa ditta, non concludere un concorso con la collocazione al primo posto in graduatoria del candidato che si sarebbe voluto “premiare”.
Da questo punto di vista, la clausola del Ccnl non solo è nulla, ma scellerata sul piano operativo, perchè se non intesa come riscrittura mal riuscita dell’articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990, potrebbe far esplodere continui contrasti tra politica e gestione negli enti locali e trasformare, per via contrattuale, il segretario in quella longa manus politica che sarebbe stato il “dirigente apicale” mai entrato in vigore.
Sul piano del merito, per altro, c’è, abbastanza da dubitare della legittimità di una manovra che intenda ripresentare, sia pure non nominalmente, un istituto che per legge non è passato, attraverso una diversa fonte.
Sentenza vecchia. Tra le argomentazioni favorevoli all’avocazione, si afferma anche quella secondo la quale l’opposta tesi è erronea perchè fondata sulla citata sentenza della Cassazione, una sentenza comunque “vecchia” e come tale non utile a fondare un’argomentazione.
A parte la circostanza che la clausola contrattuale va considerata nulla non per la sentenza della Cassazione, bensì per le violazioni di legge indicate sopra, fondare un’interpretazione giuridica sulla datazione di una sentenza è oggettivamente del tutto privo di senso e di pratica giuridica.
Le sentenze non hanno il marchio di scadenza, come lo yogurt. Esse si considerano come elemento a supporto di tesi, sulla base del loro contenuto, non in relazione alla data di emanazione. Le sentenze con le quali la Consulta ha rilevato l’illegittimità costituzionale dello spoil system per i dirigenti non appartenenti alla prima fascia sono del 2007, esattamente come quella della Cassazione citata sopra: nessuno dubita che le sentenze della Consulta, pur di 13 anni fa, siano e restino attuali.
Una sentenza può divenire “vecchia”, ma meglio dire inconferente rispetto ad una questione interpretativa, se riferita a norme non più in vigore o ad un sistema ordinamentale superato.
L’argomentazione della sentenza “vecchia”, si consenta, è una non argomentazione, ma solo un sofisma, finalizzato a non affrontare il problema vero: spiegare perchè la clausola della preintesa non vìoli l’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001. Fermarsi sulla data della sentenza è come buttare il pallone in tribuna o parlar d’altro, per distogliere dal tema reale.

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