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L’illegittimità dell’avocazione degli atti dei dirigenti da parte del segretario accertata dalla Cassazione
La sentenza della Corte di cassazione Sezione Lavoro 12 giugno 2007, n. 13708 è perfettamente rappresentativa delle deviazioni connesse all’assegnazione di inesistenti poteri di avocazione ai segretari comunali.
Essa racconta una storia emblematica del tentativo di ingerenza e forzatura, con tanto di ritorsione, della politica nella gestione.
La storia è quella di un responsabile del servizio edilizia, che evidenzia all’amministrazione, evidentemente propensa ad autorizzare ad una certa persona un intervento edilizio, l’illegittimità e la connessa improcedibilità della concessione.
E la storia continua con l’amministrazione che si rivolge al segretario comunale, per chiedere di “avocare” a sè un atto, per altro caratterizzato da spiccata tecnicità edilizia, in modo da superare le valutazioni tecniche contrarie del responsabile tecnico e, quindi, disporre il provvedimento di concessione.
Storia che prosegue con l’avocazione e anche l’instaurazione di un procedimento disciplinare nei confronti del tecnico.
La storia finisce col tecnico che per tutelarsi contro l’avocazione illegittima, si rivolge al giudice civile, che riconosce la legittimità del suo operato, fino a giungere alla Cassazione, che esclude il potere di avocazione del comune, costituitosi ancora una volta contro il tecnico e supportata per altro da un intervento di un sindacato da anni alla ricerca dell’assegnazione ai segretari comunali dell’inesistente potere di avocazione.
La storia che racconta questa sentenza è molto più diffusa di quanto non appaia. Per un fatto accertato in una sentenza, altri 100 non vanno a giudizio.
La sciagurata e nulla previsione contenuta nell’articolo 101 della preintesa del Ccnl dell’area dirigenza delle Funzioni Locali, riproponeo ancora una volta, l’ennesima volta, il tentativo di riconoscere per via contrattuale quel potere di avocazione che la legge e la giurisprudenza non riconoscono ai segretari, per altro utilizzando una fonte, il Ccnl, alla quale la legge inibisce tale potere normativo. E tale sciagurata previsione altro non farà, in quegli enti che non avranno la capacità di riconoscerne la totale nullità, se non decuplicare i casi di ingerenza politica sulle decisioni gestionali per mano dei segretari (divisi tra quelli convinti che l’incarico per “personale adesione” al progetto politico li induce necessariamente ad operare come soggetto politico e cane da guardia delle decisioni politiche, a prescindere dalla loro praticabilità tecnica, e quelli che si sentiranno stritolati dall’espansione dello spoil system, discendente dalla pressione operativa derivante dall’articolo 103, comma 4, della preintesa, che connette la revoca dell’incarico anche alla mancata avocazione). Altra conseguenza, sarà la crescita abnorme della conflittualità interna agli enti e del contenzioso amministrativo, civile e penale.
Non si può fare a meno di chiedersi se davvero valeva la pena introdurre nel Ccnl una clausola contra legem per dare copertura a modalità operative di questo genere.
Infine. Questa storia del 2007, attualissima, evidenzia l’altro estremo vulnus che sta dietro la sciagurata clausola: la concezione del cosiddetto “inadempimento” non per quello che dovrebbe essere, cioè la violazione di un obbligo ad adempiere, bensì per quello che intenderanno gli organi di governo, cioè l’adozione di decisioni che ad essi risultino sgradite.
Il tecnico protagonista della sentenza qui sotto riportata non è stato per nulla inadempiente: ha semplicemente denegato la concessione edilizia.
Appare gravissimo che un Ccnl possa fornire fieno alla cascina di un modo di amministrare la cosa pubblica in modo così lontano dal buon andamento e dalle regole della tecnica.
 
 
 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
 
SEZIONE LAVORO
 
Sentenza 12 giugno 2007, n. 13708
 
Svolgimento del processo
 
C.B., geometra, impiegato del Comune di Cogorno nell’area tecnica e tecnico manutentiva comunale, inquadrato in cat. D3, dovendo decidere della domanda di un privato avente ad oggetto l’autorizzazione paesaggistica ex Lege n. 1497 del 1939 e la concessione edilizia ad eseguire lavori di ristrutturazione con sostituzione edilizia di fabbricato adibito ad attività non insalubre, ritenendo che la richiesta non potesse trovare accoglimento perchè l’intervento era da considerare quale nuova ristrutturazione, comunicò il diniego di concessione al Sindaco.
 
Questi intimò al C. il rilascio del provvedimento, che venne poi effettivamente emesso, su richiesta del Sindaco, dal Segretario comunale in via sostitutiva.
 
Il C. chiese quindi al Tribunale – giudice del lavoro di dichiarare illegittimo il provvedimento emesso dal Segretario comunale, di riconoscergli la titolarità esclusiva del potere decisionale sui provvedimenti di concessione edilizia, e di dichiarare legittimo il diniego della concessione. Il Tribunale ritenuta la giurisdizione del giudice amministrativo per una parte di tali domande, affermò, quanto al resto, che in caso di inadempienza ingiustificata e illegittima dei funzionari, sussisteva il potere del Segretario comunale di sostituzione – avocazione. Il geom. C. impugnò tale sentenza e l’appellato si costituì resistendo.
 
A seguito della vicenda amministrativa sopra riassunta il Comune di Cogorno irrogò al dipendente la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per cinque giorni, contesi andò due addebiti: a) la violazione dei doveri di comportamento da cui sia derivato disservizio ovvero danno agli utenti o a terzi, in relazione al mancato rilascio della concessione edilizia, nonostante il parere favorevole della commissione edilizia integrata, e il conseguente prolungarne ti lo dei tempi di rilascio, fonte di possibile responsabilità risarcitoria per il comune; b) la condotta non conforme ai principi di correttezza verso i superiori in relazione all’esposto presentato dal C. alla Procura della Repubblica, contenente l’informazione circa l’avvenuto esercizio del potere sostitutivo, per la verifica dell’illecito penale, eventualmente configurabile in tale esercizio.
 
Il geom. C. impugnò la sanzione dinanzi al Tribunale di Chiavari e il Comune si costituì resistendo.
 
Il Tribunale rigettò le eccezioni proposte dal Comune, fondate la prima sulla circostanza che il giudice incaricato della decisione era stato componente del Collegio che aveva deciso sul reclamo contro un’ordinanza cautelare, resa nel procedimento del quale il processo di merito costitutiva riassunzione, la seconda sul mancato esperimento del tentativo di conciliazione. Nel merito accolse il ricorso del C., escludendo che vi fosse stato indebito ritardo e perciò violazione di doveri da parte del dipendente, essendo stati compiuti nel corso della procedura concessoria diversi atti che si palesavano opportuni ed essendo intercorse varie comunicazioni con l’amministrazione comunale e regionale. Il Tribunale escluse altresì che fosse qualificabile quale comportamento scorretto il fatto che il dipendente si era rivolto all’autorità giudiziaria.
 
Il Comune di Cogorno propose appello contro la sentenza ribadendo le eccezioni richiamate e sostenendo, nel merito, la legittimità dell’intervento sostitutivo di fronte al rifiuto del dipendente, e del provvedimento disciplinare. Il C. si costituì resistendo.
 
La Corte d’Appello di Genova riuniti i due procedimenti ha dichiarato illegittima la sostituzione operata dal Segretario comunale, confermando nel resto le sentenza impugnate e motivando, in sintesi, come segue.
 
Non vi è alcuna incompatibilità fra la lettura in udienza della motivazione della sentenza ed il rito del lavoro. Inoltre l’aver trattato della controversia in sede di procedimento cautelare non costituisce un’ipotesi assimilabile sotto il profilo della incompatibilità alla trattazione della causa in altro grado del giudizio. In ogni caso sarebbe stato necessario far valere tale circostanza come motivo di ricusazione, il che non era avvenuto.
 
Non è fondata l’eccezione di improcedibilità, dovendo farsi riferimento al termine di cui all’articolo 669 – octies c.p.c., comma 4, ampiamente trascorso al momento della instaurazione della causa di merito dinanzi al Tribunale.
 
Quanto al merito, la concessione edilizia è atto proprio del dirigente, o nei comuni senza dirigenti come quello in questione, del responsabile dell’ufficio competente. Il C. era, pacificamente, responsabile del servizio tecnico del Comune. Il Segretario comunale sulla base della normativa di riferimento (D.Lgs. n. 267 del 2000, articolo 97) non ha poteri di avocazione e sostituzione ma funzioni di supervisione e coordinamento dei dirigenti. Lo stesso deve dirsi anche sulla base del regolamento comunale anteriore alla citata disposizione di legge. E’ consentita l’assegnazione al Segretario comunale di funzioni ulteriori, ma occorre una previsione espressa, che nella specie è stata introdotta con il regolamento comunale successivo ai fatti di causa, e nel quale comunque il potere di avocazione e sostituzione presuppone l’accertata inerzia del dirigente titolare. In conclusione, sia pure per un solo atto, il Comune con il provvedimento di sostituzione del 20 settembre 2001 ha illegittimamente spogliato il dipendente delle mansioni che gli erano attribuite.
 
Quanto alla sanzione disciplinare, l’informazione circa l’esercizio del potere sostitutivo data dal C. all’autorità giudiziaria, ossia l’invocazione del controllo di legalità sull’operato dell’amministrazione, non può integrare lesione della dignità professionale e personale del Segretario comunale, salvo il caso di denunzia con modalità denigratorie ed offensive, neppure adombrate nel procedimento disciplinare. D’altra parte il contratto collettivo tipicizza l’illecito disciplinare nella “condotta non conforme ai principi di correttezza verso i superiori”, e richiama pertanto principi di lealtà ed onestà, la cui violazione è incompatibile con una condotta secondo diritto, quale la denunzia all’autorità giudiziaria, tanto più che il C. non aveva un interesse giuridico a impugnare la concessione dinanzi al giudice amministrativo.
 
Quindi uno dei due addebiti è da ritenere insussistente. Poichè la sanzione è stata inflitta in considerazione dell’intera vicenda, venuta meno la rilevanza disciplinare di una parte di questa, la sanzione complessiva deve ritenersi eccessiva, e perciò contraria al principio di proporzionalità fissato nell’articolo 25 del contratto collettivo.
 
Di questa sentenza il Comune di Cogorno chiede la cassazione sulla base di quattro motivi limitatamente peraltro alla parte in cui essa ha dichiarato l’illegittimità della sostituzione operata dal Segretario comunale con il provvedimento del 20 settembre 2001.
 
C.B. resiste con controricorso, chiedendo preliminarmente che sia dichiarata l’inammissibilità del ricorso per inefficacia o invalidità della procura conferita dal Sindaco del Comune di Cogorno nonchè per violazione del principio di autosufficienza e per la mancata individuazione degli errore addebitati alla sentenza impugnata.
 
L’Unione nazionale segretari comunali e provinciali, ha depositato una “comparsa di costituzione” aderendo al ricorso del Comune.
 
Motivi della decisione
 
Preliminarmente vanno esaminate le diverse eccezione di inammissibilità del ricorso.
 
Secondo il controricorrente la procura alle liti conferita dal Sindaco al difensore del Comune non sarebbe valida, e determinerebbe l’eccepita inammissibilità del ricorso, in quanto avrebbe ecceduto il contenuto decisorio della autorizzazione concessa dalla Giunta comunale.
 
L’eccezione è infondata dal momento che le Sezioni unite di questa Corte, superando il contrario orientamento giurisprudenziale cui si richiama il controricorrente, hanno affermato che nel nuovo quadro delle autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della giunta comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione, salva restando la possibilità per lo statuto comunale – competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio (“ex” art. 6, comma 2, del lesto unico delle leggi sull’ordinamento delle autonomie locali, approvato con il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267) – di prevedere l’autorizzazione della giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente (ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia). Ove l’autonomia statutaria si sia così indirizzata – il che nella specie non è stato dedotto – l’autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell’organo titolare della rappresentanza. (Cass. Sez. Un. 16 giugno 2005, n. 12868).
 
Parimenti infondato è il rilievo di difetto di autosufficienza per la mancata trascrizione della parte della sentenza ritenuta viziata.
 
L’art. 366 c.p.c., comma 1, sia nel testo vigente al momento della proposizione del ricorso che in quello attuale richiede l’esposizione sommaria dei fatti di causa, e non quella della sentenza o del capo della sentenza, la cui trascrizione nel ricorso può essere come può non essere sufficiente ai fini del requisito in esame.
 
Infine, le censure formulate nei quattro motivi consentono pienamente di comprendere, come del resto si vedrà in seguito, quali errori vengano addebitati alla sentenza impugnata, sicchè è da respingere anche l’ultimo delle ragioni di inammissibilità fatta valere dal controricorrente.
 
Quanto alla posizione della Unione Nazionale Segretari Comunali e Provinciali che ha depositato un atto denominato “comparsa di costituzione” in adesione al ricorso del Comune di Cogorno, va rilevato che si tratta di un atto di intervento volontario,del quale va dichiarata l’inammissibilità in questa sede, in conformità di costante giurisprudenza di questa Corte (v. per tutte Cass. 7 luglio 2004, n. 12448).
 
Con il primo motivo di ricorso è denunziata violazione e falsa applicazione dell’articolo 281 sexies c.p.c..
 
Si sostiene che la sentenza di primo grado sarebbe nulla perchè, riguardando una controversia di lavoro, non poteva essere pronunziata mediante contestuale lettura della motivazione secondo quanto previsto dalla norma richiamata.
 
Il motivo è infondato E’ infatti esatto ritenere, come ha fatto il giudice di merito, che non vi sia alcuna incompatibilità di principio fra la lettura in udienza della motivazione della sentenza ed il rito del lavoro potendosi porre solo un problema di opportuni adattamenti in relazione all’assenza, nel rito del lavoro, dell’udienza di precisazione delle conclusioni, problema però insussistente nella specie.
 
Come recentemente ricordato da questa Corte, nel rito del lavoro – essendo vietate le udienze di mero rinvio e non essendo prevista un’udienza di precisazione delle conclusioni – ogni udienza, a cominciare dalla prima, è destinata, oltre che all’ammissione ed assunzione di eventuali prove, alla discussione orale e, quindi, alla pronuncia della sentenza ed alla lettura del dispositivo – sulle conclusioni di cui al ricorso, per quanto riguarda l’attore, e su quelle di cui alla memoria difensiva, per quanto concerne il convenuto, salvo modifiche autorizzate dal giudice per gravi motivi – con la conseguenza che il giudice del lavoro non è tenuto ad invitare le parti alla precisazione delle conclusioni – prima della pronuncia della sentenza – al termine dell’udienza, nella quale le stesse parti hanno facoltà di procedere alla discussione orale – rimessa, integralmente, alla loro discrezionalità – senza che ne risulti alcuna violazione del diritto di difesa. Sulla base di tale principio è quindi corretto ritenere applicabile al processo del lavoro la disposizione di cui all’art. 281 sexies cod. proc. civ., a condizione del suo adattamento al rito speciale, nel quale, a differenza di quanto stabilito nella citata disposizione riguardante la fase decisoria nel giudizio ordinario di cognizione dinanzi al tribunale in composizione monocratica, non è prevista l’udienza di precisazione delle conclusioni. (Cass. 20 aprile 2006, n. 9235).Si deve considerare, d’altra parte, che l’interesse sotteso alla disposizione che nel rito del lavoro prescrive la decisione in udienza mediante lettura del dispositivo (art. 429 c.p.c., comma 1; v. anche art. 420 c.p.c., comma 4) non solo non contrasta ma è pienamente coerente con lo scopo di accelerazione perseguito nell’art. 281 sexies c.p.c.. Nè, peraltro, la lettura della motivazione e del dispositivo in un unico contesto temporale può in alcun modo ritenersi, anche nel rito del lavoro lesiva di alcun interesse delle parti, dovendo al contrario ipotizzarsi che queste si giovino della immediata conoscenza, oltre che della decisione, delle ragioni di questa.
 
Con il secondo motivo di ricorso è denunziata violazione e falsa applicazione dell’articolo 51 c.p.c., n. 4 e del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, articoli 69 e 69 bis. Il motivo contiene due censure.
 
Con la prima si addebita alla sentenza impugnata di non aver considerato che il giudice chiamato a decidere nel merito il ricorso riassunto dal geom. C. ex articolo 669 terdecies c.p.c., avrebbe avuto l’obbligo di astenersi, avendo già fallo parte, quale relatore, del collegio che aveva deciso sul reclamo del Comune contro l’ordinanza del Tribunale di Chiavari 19 – 20 giugno 2002, Con la seconda si addebita alla sentenza impugnata di aver rigettato l’eccezione di improcedibilità del ricorso in riassunzione, fondata sulla mancata promozione da parte del ricorrente del tentativo obbligatorio di conciliazione.
 
La prima censura è infondata.
 
Nei procedimenti civili – come in quelli disciplinari dinanzi agli ordini forensi- l’inosservanza dell’obbligo dell’astensione determina la nullità del provvedimento adottato solo nell’ipotesi in cui il componente dell’organo decidente abbia un interesse proprio e diretto nella causa, tale da porlo nella veste di parte del procedimento, mentre in ogni altra ipotesi la violazione dell’art. 51 cod. proc. civ. assume rilievo solo quale motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della rv relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell’organo decidente e sulla validità della decisione, con la conseguenza che la mancata proposizione di detta istanza nei termini e con le modalità di legge preclude la possibilità di far valere tale vizio in sede d’impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento (v., fra le molte, Cass. Sez. un. 8 agosto 2005, n. 16615; Cass. 15 giugno 2004, n. 11275). In tale ordine di idee si è ritenuto in particolare non deducibile come motivo di nullità di una sentenza d’appello la circostanza che uno dei componenti del collegio che l’ha pronunciata precedentemente avesse conosciuto dei medesimi fatti in sede di reclamo contro ordinanza di rigetto di richiesta di un provvedimento di urgenza “ante causam”, poichè l’avere conosciuto della stessa causa in un altro grado deve essere ritualmente fatto valere come motivo di ricusazione del giudice, a norma dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 cod. proc. civ. e, d’altra parte, l’avere trattato della controversia in sede di procedimento cautelare proposto “ante causam” neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 326/1997 e ordinanza n. 193/1998), un’ipotesi sufficientemente assimilabile, sotto il profilo dell’incompatibilità, alla trattazione della causa in un altro grado di giudizio. (Cass. 13 agosto 2001, n. 11070).
 
Anche la seconda censura è infondata.
 
L’articolo 669 octies c.p.c., nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, dispone, per quanto di rilievo, che l’ordinanza cautelare di accoglimento di domanda proposta ante causam deve fissare un termine perentorio non superiore a 30 giorni per l’inizio del giudizio di merito (comma 1); che tale termine perentorio di 30 giorni vale comunque se il giudice non ne abbia fissato uno diverso (comma 2); che esso decorre dalla pronunzia dell’ordinanza, se in udienza, o dalla sua comunicazione (comma 3).
 
Lo stesso articolo (comma 4) per le controversie di lavoro con le pubbliche amministrazioni, quale quella in esame, stabilisce che il termine decorre dal momento in cui la domanda è divenuta procedibile, condizione che, in base a quanto previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, articolo 65, comma 2, (corrispondente all’articolo 69 del D.Lgs. n. 29 del 1993) si verifica trascorsi 90 giorni dalla promozione del tentativo di conciliazione.
 
Ma il codice di rito civile, con la norma in esame, considera anche l’ipotesi in cui la conciliazione non sia stata richiesta e, coerentemente con il principio della necessaria introduzione della causa di merito entro un termine breve e non superabile, stabilisce, che in tale caso il termine inizi il proprio decorso, una volta decorsi, a loro volta, 30 giorni. Così, come la dottrina non ha mancato di rilevare, interrogandosi sulla scarsa ragionevolezza della soluzione, per il promovimento della causa di merito in tale genere di controversie si determina un sicuro allungamento, cumulandosi due termini, il primo dei quali peraltro oggi, per effetto del nuovo articolo 669 octies c.c. raddoppiato a 60 giorni.
 
Da quanto precede deriva che, entro il (più lungo) termine così individuato il ricorrente vittorioso in sede cautelare ha in ogni caso l’onere di proporre la domanda di merito, ancorchè il giudice rilevando la mancata proposizione del tentativo di conciliazione possa sospendere il giudizio ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, articolo 65, comma 3, l’issando alle parti il termine perentorio per promuovere il tentativo.
 
Ciò premesso, è pacifico nel caso di specie, che il giudizio di merito sia stato avviato entro il termine di cui sopra e che il giudice di merito non lo abbia sospeso rimettendo le parti alla sede competente per la conciliazione. Quindi è inesatto dire, come fa la sentenza, che al momento della udienza di discussione la causa era procedibile, perchè in realtà il giudice avrebbe dovuto rilevare che essa non era stata preceduta dal tentativo e provvedere conseguentemente.
 
Tuttavia la censura in esame non può condurre alla cassazione della sentenza.
 
Questa Corte, con riferimento alle controversie di lavoro privato, ma con una affermazione che deve ritenersi egualmente valida per quelle di lavoro con le pubbliche amministrazioni, data la riconducibililà di entrambe sotto il profilo in esame al medesimo principio, ha infatti chiarito che la questione della procedibilità della domanda giudiziaria in relazione al preventivo espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione è sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa al potere – dovere del giudico del merito, da esercitarsi, ai sensi dell’art. 443 cod. proc. civ., comma 2, solo nella prima udienza di discussione, sicchè ove la improcedibilità, ancorchè segnalata, non venga rilevata dal giudice entro detto termine e non sia stato fissato il termine perentorio per la richiesta del tentativo, l’azione giudiziaria prosegue, in ossequio al principio di speditezza di cui agli artt. 24 e 111 Cost., comma 2, e la questione stessa non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio. (Cass. 19-07-2004, n. 13394; 27 febbraio 2003, n. 3022).
 
Con il terzo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione dell’articolo 25, comma 4, del c.c.n.l. 6 luglio 1995.
 
Si addebita alla sentenza impugnata di avere ritenuto illegittima la avocazione da parte del Segretario comunale, in quanto intervenuta prima del regolamento comunale che ne aveva previsto la possibilità, e di aver considerato corretto il diniego della concessione edilizia dato il parere negativo della Regione.
 
Così decidendo il giudice del merito non aveva però considerato che la Regione Liguria ha subdelegato ai Comuni le funzioni conferitele dalla legge in materia di paesaggio e che i Comuni devono esercitare i relativi poteri sulla base della parere vincolante della Commissione edilizia. Quindi, dato il parere favorevole di quest’ultima, il Contorno non poteva disattenderlo ed era obbligato non solo al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ma anche a quello delle concessione, non potendo far richiamo al parere dell’Ufficio Affari giuridici della Regione, non competente in materia, nè richiedere inconferenti varianti al piano regolatore generale, con aggravio del procedimento e il superamento del termine fissato dalla legge per il rilascio dell’atto in questione.
 
D’altra parte dai compiti di sovrintendenza e coordinamento attribuiti della legge al Segretario comunale deriva in capo tale organo il potere di avocazione, con la conseguenza che una volta diffidato dal Segretario comunale a compiere l’atto il C. era tenuto a provvedervi.
 
Con il quarto motivo è dedotta violazione dell’articolo 25, comma 4, contratto collettivo nazionale di lavoro 6 luglio 1995, sotto altro profilo.
 
Si addebita alla sentenza impugnata di non avere considerato che, data l’inottemperanza alla diffida da parte del C., era legittima la sostituzione disposta dal Segretario comunale, e ciò anche in considerazione di quanto previsto dallo Statuto comunale in materia di corretto e tempestivo assolvimento degli incarichi da parte degli uffici, e di responsabilità verso il Segretario comunale dei dipendenti ad essi preposti. Parimenti legittima era quindi la sanzione irrogata al C., per la grave violazione dei compiti istituzionali e il rischio di risarcimento al quale egli, ledendo l’interesse legittimo del privato, aveva esposto il Comune.
 
I motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.
 
Prima di tale esame la Corte ritiene necessario peraltro chiarire esattamente i termini della impugnazione sulla quale è chiamata a decidere, data la mancanza di chiarezza del ricorso su tale punto. Il ricorrente afferma infatti di voler ottenere la “riforma” della sentenza impugnata “laddove ha dichiarato l’illegittimità della sostituzione operata dal Segretario comunale con il provvedimento 10563 del 20 settembre 2001” in ragione dei motivi successivamente esposti, ma nel quarto motivo di ricorso esordisce affermando che l’irrogazione del provvedimento disciplinare sarebbe “ancor più giustificata” dalla sua del C. mancata ottemperanza alla diffida a rilasciare la concessione” e nelle conclusioni chiede alla Corte di confermare la sanzione disciplinare inflitta dal Comune al dipendente.
 
La Corte non può che valorizzare l’insieme di questi dati e ritenere pertanto che l’annullamento della sentenza sia chiesto non solo nel capo relativo alla dichiarata illegittimità della sostituzione ma anche in quello concernente la ritenuta illegittimità della sanzione.
 
Ciò premesso, può tuttavia agevolmente affermarsi, già sulla base della lettura dei motivi in questione, che essi non sono idonei ad ottenere la cassazione della sentenza in tale secondo capo. La valutazione di illegittimità, fatta dal giudice di merito, è infatti fondata su di una ragione – il difetto di proporzionalità rispetto al fatto complessivamente considerato, parte essenziale del quale è stata considerata l’iniziativa del dipendente di informare l’autorità giudiziaria dell’esercizio del potere sostitutivo da parte del Segretario comunale – che le censure sopra riferite neppure prendono in considerazione.
 
Vale quindi, con gli opportuni adattamenti, il principio per cui il ricorso che non censuri tutte le ragioni poste a fondamento della decisione è inammissibile (fra le molte, Cass. 18 maggio 2005, n. 10420; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2274; Cass. 26 maggio 2004, n. 10134) la diversità rispetto a tale ipotesi qui risiedendo nella circostanza che, benchè il ricorso sia diretto contro più capi della sentenza, solo uno di essi è, quanto meno in astratto, effettivamente investito da censure che lo riguardano.
 
L’esame va allora rivolto ai motivi soprariassunti in quanto diretti a contestare la valutazione di illegittimità della sostituzione operata dal Segretario comunale nei confronti di un atto rientrante nella sfera di attribuzione del C., cui pacificamente, secondo conformi previsioni di legge, erano state attribuite funzioni dirigenziali, benchè privo della relativa qualifica.
 
I fatti rilevanti per la causa, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, si sono svolti nell’arco di tempo che va dall’8 maggio 2000, data di presentazione della domanda di concessione edilizia, al 20 settembre 2001, data del rilascio della concessione da parte del segretario comunale.
 
Essi vanno pertanto valutati alla luce delle norme contenute nel D.Lgs. 18 agosto 2000, 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) onde accertare se fosse o no legittimo sostituire il C. nella emanazione dell’atto (concessione edilizia) rientrante nelle funzioni assegnategli. Quindi non hanno rilievo le argomentazioni sviluppate nei motivi del ricorso circa la normativa regionale in tema di autorizzazione paesaggistica e dei relativi compiti da essa subdelegati ai Comuni, nè quelle in tema di doverosità del rilascio della concessione da parte del dipendente.
 
D’altra parte, neppure possono avere rilievo le norme regolamentari e statutarie citate nel ricorso (Statuto comunale in ultimo modificato con atto del Consiglio 20 marzo 1995, n. 19) che riflettono un sistema anteriore al vigore del cit. testo unico, disegnando in modo difforme da esso il rapporto fra dipendenti comunali e segretario.
 
Ciò premesso deve osservarsi che nel D.Lgs. n. 267 del 2000 i compiti propri del segretario comunale sono definiti, in linea generale quali “compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico- amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti” (t.u. articolo 97, comma 2). Viene poi specificato che “il segretario sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività” (articolo 97, comma 4, prima parte dell’enunziato). Al segretario inoltre possono essere specificamente attribuite dallo statuto o dai regolamenti o conferite dal vertice politico dell’ente ulteriori funzioni (articolo 97, comma 4, lettera d).
 
Disposizioni specifiche regolano inoltre i compiti del segretario comunale in relazione alla presenza o assenza nella struttura organizzativa dell’ente della figura del direttore generale, alla cui nomina il vertice politico dell’ente può provvedere sulla base dell’articolo 108 del medesimo testo unico.
 
Nell’ipotesi in cui il direttore generale manchi, le funzioni di quest’ultimo possono essere conferite al segretario (articolo 108, comma 4 t.u.), l’elenco delle cui funzioni comprende infatti “le funzioni di direttore generale nell’ipotesi prevista dall’articolo 108 c.p.c., comma 4”. (art. 97 comma 4, lett. e).
 
Qualora tale conferimento non sia avvenuto, i compiti del segretario restano quelli di sovrintendenza e coordinamento sopraindicati.
 
Se invece si sia provveduto a tale nomina, la legge impone all’organo di vertice di disciplinare i rapporti fra direttore generale e segretario, indicando quale criterio il “rispetto dei loro distinti ed autonomi ruoli“.
 
Quanto alle attribuzioni dei dirigenti, la legge ribadisce il principio fondamentale di separazione tra poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, da un lato, gestione dall’altro, ed in questa prospettiva assegna ai dirigenti “la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettate dagli statuti e dai regolamenti”, imponendo a questi ultimi di uniformarsi al principio anzidetto (articolo 107, t.u. comma 1). Attribuisce quindi ai dirigenti ogni compito non riconducibile, in modo espresso, alle funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo o “non rientrante tra le funzioni del segretario o del direttore generale” (art. 107 t,u, comma 2). Tali compiti ricomprendono l’adozione degli atti e provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, (art. 107. comma cit.). Fra di essi, rientrano in particolare, “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi … ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”.
 
Particolare rilievo nella ricostruzione delle funzioni dirigenziali assumono, infine, le previsioni circa la inderogabilità delle attribuzioni dei dirigenti, se non per espressa e specifica previsione di legge (articolo 10, comma 4) e la diretta ed esclusiva responsabilità dei dirigenti “in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa della efficienza e dei risultati della gestione” (articolo 107, comma 6). li” da tener presente che le funzioni dirigenziali, in presenza di determinati presupposti, possono essere attribuite anche a personale privo della relativa qualifica (art. 109, comma 2) come avvenuto nella specie.
 
Quanto al direttore generale, elemento, come si è detto non necessario ma solo eventuale, della struttura dell’ente, esso è individuato dalla legge quale organo che attua gli “indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente” e “sovrintende alla gestione dell’ente perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza”. Il rapporto fra dirigenti e direttore generale è poi espressamente delineato nel senso che “a tali fini”, ossia ai fini del perseguimento dei compiti assegnati al direttore generale, i dirigenti sono responsabili verso di lui. (art. 108 c.p.c., comma 1, ultima parte).
 
Il quadro normativo cosi sinteticamente accennato consente quindi di affermare – senza necessità in questa sede di ulteriori approfondimenti – che anche nei confronti del direttore generale eventualmente nominato, il rapporto dei dirigenti assume connotazioni tali non permetterne con sicurezza l’inquadramento in una relazione gerarchica, se non con attenuazioni del (e scostamenti dal) relativo modello. In ogni caso, il modello della relazione fra dirigente e direttore generale consente anche di misurare con chiarezza la distanza che intercorre fra esso ed quello della relazione fra gli stessi dirigenti e il segretario generale, salvo quando quest’ultimo eserciti come è pacifico nella specie che non sia avvenuto – le funzioni del direttore generale espressamente conferitegli a norma dell’articolo 108, comma 4.
 
Al Segretario generale sono infatti affidati compiti di coordinamento dell’attività dei dirigenti e di sovrintendenza allo svolgimento delle relative funzioni mentre non risulta invece riprodotta per tale ipotesi la disposizione sulla diretta responsabilità dei dirigenti nei confronti del direttore generale.
 
Ai dirigenti è assegnata a una sfera di attribuzioni non derogabile se non con norma primaria, ed essi sono direttamente ed esclusivamente responsabili del loro esercizio. Quindi l‘attribuzione legislativa al segretario comunale di compiti di sovrintendenza di coordinamento dell’attività del dirigente, non può essere intesa, per ragioni di coerenza sistematica, nel senso che tali compiti implichino un potere di sostituzione del dirigente. Un siffatto potere da un lato comporterebbe deroga alle attribuzioni di quest’ultimo, in contrasto con l’esplicito limite che la legge prevede in proposito, dall’altro determinerebbe violazione della regola di diretta responsabilità del dirigente rispetto all’atto di esercizio di una funzione specificamente attribuitagli.
 
Nella prospettiva del rapporto di lavoro, che è quella in cui, come esattamente osservato nella sentenza impugnata, il giudice ordinario deve collocarsi nella valutazione dell’atto di cui si discute – con conseguente estraneità alla presente controversia di qualsivoglia dubbio circa la giurisdizione – i problemi di inerzia o rifiuto nel provvedere, vanno quindi affrontati sul piano della responsabilità de dirigente, mentre deve escludersi che essi potessero trovare soluzione mediante un’iniziativa sostitutiva, non consentita sulla base delle norme in vigore all’epoca della controversia.
 
In conclusione, la sostituzione oggetto di controversia è stata esattamente considerata illegittima dalla Corte d merito e il ricorso del Comune va rigettato mentre va dichiarato inammissibile l’intervento della Unione Nazionale Segretari Comunali e Provinciali, con condanna solidale del ricorrente e della parte interveniente alle spese liquidate come in dispositivo.
 
P.Q.M.
 
Rigetta il ricorso del Comune di Cogorno; dichiara inammissibile il ricorso in intervento della Unione Nazionale Segretari Comunali e Provinciali; condanna il ricorrente e la parie interveniente in solido al pagamento delle spese in Euro 96,00 oltre a Euro 2000,00 per onorari.
 
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2007.
 
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2007.

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