tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
Chiamate in correità sufficienti a provare la responsabilità amministrativo-contabile
di Domenico Irollo – Commercialista/revisore contabile/pubblicista
 
La valutazione delle prove nel processo contabile non va operata secondo i canoni del codice di procedura penale e pertanto anche le dichiarazioni rese in sede giudiziaria da persona coinvolta nello stesso reato o in un procedimento penale connesso sono liberamente scrutinabili ai fini del vaglio della medesima vicenda sul piano della responsabilità amministrativo-contabile da parte del giudice erariale, il quale può pertanto ad esse riconoscere anche valenza probatoria esclusiva. Lo ha chiarito la Seconda Sezione Centrale di Appello della Corte dei Conti con la sentenza n. 166/2020 in commento.
La fattispecie esaminata dai Giudici contabili di ultima istanza riguardava il caso di un funzionario dell’Agenzia delle Entrate nei cui confronti, in esito ad una indagine penale, era stato accertato lo svolgimento di attività extraprofessionale incompatibile con il proprio status, consistente nella consulenza fiscale prestata in favore di studi legal-tributari. La circostanza, oltre a provocare il licenziamento disciplinare dell’interessato, veniva segnalata alla competente Procura contabile che lo citava in giudizio per ottenere il riversamento in favore dell’Amministrazione Finanziaria, ratione temporis sua datrice di lavoro, ai sensi del disposto di cui all’art. 53, comma 7, D.Lgs. n. 165/2001, dei compensi da questi asseritamente percepiti in relazione al secondo lavoro non autorizzato (né autorizzabile).
Il Collegio di primo grado aveva tuttavia respinto le pretese del Requirente erariale avendo ritenuto non sufficientemente provata la remunerazione delle cennate consulenze professionali. Nello specifico, erano state ritenute non (auto)sufficienti a corroborare le dazioni, le dichiarazioni in tal senso rese in sede penale, in veste di persona coinvolta negli stessi fatti, da uno dei commercialisti con cui il funzionario delle Entrate aveva indebitamente collaborato. Secondo la Corte di prime cure, in simili evenienze sarebbero state difatti applicabili in via analogica nel contesto giuscontabile le stesse regole valide in ambito penale-processuale per vagliare le chiamate in correità da parte di coimputati nel medesimo reato o imputati in procedimento penale connesso, le quali, a mente dell’art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. e della relativa elaborazione giurisprudenziale, possono costituire prova nei confronti dell’accusato purché sia contemporaneamente accertata: i) l’attendibilità del dichiarante (in relazione ai di lui personalità, carattere, temperamento, trascorsi di vita, ai suoi rapporti con l’accusato, alla genesi e ai motivi della sua confessione a carico di coautori e complici, etc.); ii) l’attendibilità intrinseca della chiamata in correità (che va valutata da dati specifici quali la spontaneità, la verosimiglianza, la precisione, la completezza della narrazione dei fatti, la concordanza tra le dichiarazioni rese in tempi diversi, etc.); iii) l’attendibilità estrinseca della stessa (che si concreta nell’esistenza di riscontri esterni, estranei alle dichiarazioni, che possano confermarle ulteriormente).
Di contrario avviso è invece stato il Giudice d’Appello che, accogliendo le rimostranze della Procura, ha riformato il verdetto di primo grado osservando come, con riguardo al regime probatorio vigente in ambito erariale, ogni tentativo di estensione di principi processualpenalistici al giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti si pone, anzitutto, in contrasto con la precisa scelta del Legislatore di integrare la disciplina del giudizio di responsabilità nell’ambito del processo civile, attesa la natura dell’oggetto della cognizione, una responsabilità patrimoniale a prevalente funzione risarcitoria-recuperatoria.
A ciò si aggiunga l’evidente diversità dei valori in gioco nel processo penale tra difesa e accusa (la libertà del singolo e la pretesa punitiva dello Stato ex art. 27, Cost.) e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo contabile tra le due parti contendenti (patrimonio privato ed erariale), valori che conformano, differenziandoli, gli standard delle prove e dei mezzi di ricerca delle stesse, e, in ultima analisi, la c.d. “regola di giudizio”. Nel processo penale, infatti, vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.), mentre, nel processo civile – e, quindi, in quello contabile – vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non” (artt. 115 e 116 c.p.c.), ossia un giudizio che si basa sugli elementi di convincimento disponibili in relazione al caso concreto, la cui attendibilità va verificata sulla base dei relativi elementi di conferma.
Conseguentemente, l’estensione analogica di disposizioni del codice di procedura penale, riguardanti in ultima analisi la tutela processuale della libertà personale, per integrare la disciplina del processo contabile di responsabilità che ha, al pari del processo civile, il patrimonio del soggetto convenuto quale unico oggetto sul quale si riflettono gli effetti della decisione giudiziaria, comporta un’operazione ermeneutica che si pone non in linea col precetto dell’art. 3 Cost., sottoponendo a una medesima disciplina due situazioni – tutela del patrimonio e tutela della libertà personale – ben differenti e distinte.
Per quanto detto, il giudice contabile, a differenza di quello penale, può trarre argomenti di prova da tutti gli elementi in suo possesso, ivi compresi quelli che provengono dal processo penale. Nel giudizio contabile, infatti, possono essere utilizzati come indizi tutti gli elementi acquisiti in sede penale, nel corso delle indagini preliminari, ancorché non confermati in sede dibattimentale, purché siano gravi, precisi e concordanti. Il convincimento del giudice contabile può, pertanto, liberamente formarsi anche sulla base degli elementi derivanti dalle indagini penali, che vengono in rilievo, nel giudizio per la responsabilità erariale, non quali prove in senso tecnico, bensì quali elementi da valutare, come presunzioni, anche ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c. In base a dette prove, il Giudice forma il proprio libero convincimento, ex artt. 94 e 95 C.G.C., fornendone adeguata motivazione, che evidenzi il percorso logico e giuridico che lo ha condotto alla decisione, senza che ciò implichi la necessità della dettagliata confutazione di tutte le prove e/o argomentazioni contrarie (in tale ottica, nel caso di specie i Giudici hanno valorizzato, tra l’altro, il fatto che il commercialista in questione avesse confermato anche in sede di audizione dinanzi al P.M. contabile le dichiarazioni già fatte al P.M. penale a proposito dell’ammontare e della regolarità dei pagamenti effettuati per i servizi resi dal funzionario, nonostante fosse stato messo preliminarmente al corrente delle esose conseguenze sanzionatorie previste per quanti conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi, conseguenze – consistenti in un carico sanzionatorio complessivo di 90mila euro – alle quali egli sarebbe andato inevitabilmente incontro in virtù dell’art. 53, comma 9, D.Lgs. n. 165/2001, cit., in combinato disposto con l’art. 6D.L. n. 79/1997).
Art. 192 c.p.p.

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