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Trasparenza versus corruzione: il decreto legislativo 97/2016 e i suoi aspetti di criticità

di Serena Cicalese, Dott.ssa

5 settembre 2019

Trasparenza versus corruzione. Quasi un ossimoro, un’antitesi inconciliabile dove i due termini esprimono l’uno il contrario dell’altro, ma anche un punto di partenza fondamentale per comprendere le disfunzioni in cui ristagna il nostro sistema.

Prima di entrare nel merito dell’argomento, appare opportuno ripercorrere la tappa finale del sentiero dell’evoluzione del principio di trasparenza.

Il riferimento è al “Decreto Trasparenza” che va a sovrapporsi alle regulae iuris già vigenti in materia. Sebbene l’intento della riforma sia lodevole, la stratificazione normativa in generale e quella in materia di trasparenza in particolare, favoriscono inevitabilmente il divampare del problema della corruzione.

L’ingente numero di leggi che creano un oscuro labirinto per i cittadini e gli esperti del settore, è uno dei problemi avvertiti ma non ancora risolti. Anzi, lo stesso continua con il passare del tempo ad assumere aspetti sempre più consistenti.

Si discorre del problema della “quantità nella disunità”. Basti pensare che in Italia, sussistono all’incirca duecentomila fonti contro 60 milioni di abitanti, il che provoca un frazionamento che inevitabilmente va a ripercuotersi sui vari settori giuridici. Frazionamento a cui neppure il diritto amministrativo è rimasto indenne.[1]

“Corruptissima re publica plurimae leges”, lo diceva Tacito negli Annales[2], nel periodo tardo repubblicano. La moltiplicazione delle regole e dei divieti favorisce l’attecchimento del seme della corruzione, specie quando le leggi non sono create per il bene pubblico.

Si consideri il nuovo Codice degli Appalti pubblici (Decreto Legge 150/2016) che deve essere integrato da altri 50 provvedimenti di attuazione circa, con sistematiche ricadute sulla sempre più minata organicità e coerenza della qualità della materia.[3]

L’asfissiante normativa crea intricati labirinti che favoriscono condotte poco limpide e con riferimento all’Italia i dati relativi “al livello di corruzione percepita” sono quasi imbarazzanti.

Il Corruption Perception Index, nel 2017 ha pubblicato il rapporto annuale dove risulta che l’Italia, sebbene il trend sia in lievissima crescita, sia addirittura agli ultimi posti della classifica tra i Paesi europei, insieme ad altre realtà quali Cuba, Romania e Montenegro, paesi protagonisti negli ultimi anni di diversi scandali in materia di corruzione.

Capostipiti della graduatoria in quanto paesi virtuosi, Danimarca e Nuova Zelanda[4], paesi dove la chiarezza e la semplificazione normativa fanno da regola, grazie all’opportuna preponderanza della qualità sulla quantità.

Consultando il sito dell’ANAC[5], a proposito del report di monitoraggio FOIA, l’Autorità ha avviato nel mese di marzo 2017, un’iniziativa di “Monitoraggio istituzionale” dei dati sugli accessi generalizzati di cui all’art. 5 c. 2, del d.lgs. 33/2013 per acquisire elementi utili alla verificazione della pubblicazione del “registro degli accessi”.

Nella relazione si legge che “a fronte di n. 124 enti monitorati, solo n. 64 hanno pubblicato il registro degli accessi (in media pari al 52%)”.[6]

L’Italia è ancora solo 25esima su 29 Paesi europei censiti dal Digital Economy and Society Index (DESI),[7] dati che si vanno ad intrecciare con l’altro diffuso problema causato dell’analfabetismo digitale che si innerva ancora oggi a macchia d’olio.

La posizione dell’Italia è perciò quella di quartultima in Europa. Gli ostacoli che frenano questo sviluppo vanno ravvisati anche nei pesanti costi finanziari che l’informatizzazione della pubblica amministrazione richiede per la sua piena attuazione.[8]

La struttura del “sistema di trasparenza”
Nell’attuale impianto, la struttura del “sistema di trasparenza” si è sviluppato intorno a due pilastri: da un lato quello degli obblighi di pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, dall’altro quello dell’accesso civico generalizzato, il tutto nell’alveo di una riforma avvolta “alone, più o meno giustificato”, di ridotta trasparenza nella gestione delle risorse e dei rapporti di impiego nelle società pubbliche.[9]

Più precisamente, l’evoluzione, rectius stratificazione del Corpus iuris publici” della trasparenza, merita una doverosa precisazione.

Chiusa la breve parentesi della “corruption” e delineata la regola della trasparenza nei suoi aspetti essenziali, una menzione a parte merita la riforma n. 97 del 2016 (FOIA e Trasparenza) che ha rafforzato, in teoria, le garanzie di partecipazione dei privati alla gestione della cosa pubblica. Intento apprezzabile, ma che è destinato a fare i conti con una serie di criticità.

In attuazione della legge delega n. 124 del 2015 (la cosiddetta Legge Madia), il Governo ha adottato provvedimenti integrativi e correttivi del Dlgs. del 2013, sulla base di una serie di principi e di criteri direttivi espressamente delineati.

Dopo aver premesso all’art. 1 che il titolo del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 è sostituito dal seguente: “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, il legislatore ha introdotto una nuova forma di accesso civico, la quale non va a sostituire la disciplina vigente, ma si aggiunge alla stessa per rinsaldare la partecipazione democratica del soggetto privato.

Si è detto che il “Decreto Trasparenza” ha operato un netto cambio di prospettiva in materia di informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, garantendo una “forma di accessibilità totale”, in funzione della tutela dei diritti fondamentali a cui vanno ricondotti il diritto ad una buona amministrazione e il diritto ad un’amministrazione democratica, aperta alle richieste dei cittadini perché in suo servizio.[10]
Si tratta di un’importante inversione di tendenza rispetto all’originaria formulazione dell’art. 5 del Dlgs. 33/2013 che ricostruiva l’accesso civico come semplice sanzione rispetto all’inadempimento dell’obbligo di pubblicazione da parte delle amministrazioni pubbliche.

“Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’articolo 5-bis.”[11]

L’ultimo richiamato art. 5-bis contiene l’eccezionale disciplina concernente l’esclusione e i limiti all’accesso civico preordinata alla salvaguardia della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale, della difesa e delle questioni militari, delle relazioni internazionali, della politica e della stabilità finanziaria ed economica dello Stato, della conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento, del regolare svolgimento di attività ispettive.[12]

L’accesso civico è stato quindi riconosciuto come diritto fondamentale, a prescindere dalla dimostrazione della titolarità di un interesse qualificato.

Quel che preme sottolineare, è che il legislatore del 2016 ha voluto ricalcare l’accesso civico su quel modello tanto caro al mondo anglosassone del Freedom of Information Acts, dove la libertà di accesso costituisce una regola generale a prescindere dalla prescrizione normativa di obblighi di pubblicazione.[13]

Savino[14] ha in proposito asserito che i modelli delle democrazie liberali, modellati sul sistema del FOIA, rappresentano un sistema volto al perseguimento di tre obiettivi: partecipation, accountability, legitimancy.

Si tratta dei tre pilastri fondamentali della partecipazione consapevole e perciò democratica dei cittadini alla cosa pubblica (partecipation), della prevenzione della corruzione (accountability) e della trasparenza e legittimazione dell’agire amministrativo (legitimacy).

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul tema privilegiando un’interpretazione estensiva della libertà di espressione tutelata dall’art. 10 CEDU, stabilendo dapprima che il diniego di accesso ai documenti amministrativi comporta un’interferenza nel diritto di ricevere informazioni e ammettendo poi che la sua stessa giurisprudenza “recently advanced towards a broader interpretation of the notion of `freedom to receive information’ (…) and thereby towards the recognition of a right of access to information”[15]

Nel 2008 è seguita l’approvazione da parte del Consiglio d’Europa della Convenzione sull’accesso ai documenti ufficiali, primo strumento di diritto internazionale che riconosce solennemente il diritto di chiunque, senza discriminazioni, ad avere accesso, su richiesta, a documenti ufficiali detenuti dalle autorità pubbliche.

Sulla base di questi riconoscimenti, nel corso del suo sviluppo, “il diritto di accesso ha cessato di essere appannaggio esclusivo dei destinatari di un provvedimento amministrativo, per assurgere ad istituto strumentale al funzionamento corretto delle democrazie liberali e all’emancipazione del singolo dalla soggezione al potere pubblico.”[16]

Nell’ordinamento italiano il “right to know” dovrebbe consentire di perseguire il fine della trasparenza, ma la normativa interna suscita talune perplessità.

Senza entrare nel merito della sentenza “manipolativa sostitutiva di procedura”[17] n. 251/2016, in cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime alcune disposizioni della cd. Riforma Madia (legge 7 agosto 2015, n. 124) con riferimento alle deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche che avrebbero usurpato il campo della potestà residuale e concorrente regionale, in violazione dello stesso riparto operato dall’art. 117 della Carta Costituzionale[18], va rammentato che i giudici amministrativi hanno avuto modo di sottolineare in più battute la differenza tra accesso tradizionale e nuovo accesso civico, occasionalmente ritenendo che i due tipi di accesso potrebbero anche essere esercitati congiuntamente sul medesimo documento.[19]

Non di secondo piano l’osservazione di chi ha avvertito che decidendo di mantenere in vita quanto realizzato con la trasparenza mediante pubblicazione, il decreto 97/16 nel tentativo di delineare, o meglio semplicemente “abbozzare” una distinzione concettuale tra i due strumenti di trasparenza (“Per accesso civico semplice si intende…”; “per accesso civico generalizzato si intende…”) sembra aver dato luogo a un vero e proprio “caos regolativo.”[20]

Le ombre sono destinate a moltiplicarsi.

Infatti, non minore perplessità suscita la peculiare ipotesi di responsabilità dirigenziale, dove, sotto la rubrica “Responsabilità derivante dalla violazione delle disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione e di accesso civico” è previsto che “L’inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente e il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso civico, al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 5-bis, costituiscono elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, eventuale causa di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione e sono comunque valutati ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili.”

È poi prevista un’esimente al secondo comma di esclusione della responsabilità se il responsabile prova che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.[21]

Con riferimento al primo aspetto, è stato posto in rilievo[22] come la responsabilità dirigenziale per danni di immagine debba essere circoscritta a quelle specifiche e determinate ipotesi di reati contro la Pubblica Amministrazione e previste negli artt. 314-335 c.p. e non potrebbe essere altrimenti, sulla base di quanto previsto anche dalla Corte dei Conti nella sentenza n. 8 del 2015.
Con questa sentenza, la Corte dei Conti, in tema di delitti contro la P.A. ha evidenziato come la finalità del legislatore della riforma del 2016 sia stata quella di circoscrivere il ricorso all’azione di risarcimento del danno per violazione del primo comma dell’art. 46 del Dlgs. 33/2013 in relazione ai reati propri (peculato, peculato mediante profitto dell’errore altrui, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, concussione, corruzione, abuso di ufficio e via enumerando) da cui derivi o comunque possa derivare un vero e proprio danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, in violazione “dei canoni che trovano la loro tutela ultima nell’art. 97 della Costituzione, con la conseguenza che, fuori da tale ambito, ogni estensione dei casi previsti dalla normativa in rassegna appare arbitraria”.[23]

Maggiori problemi dà la previsione di una sanzione accessoria, discendente dal collegamento tra inadempimento degli obblighi di pubblicazione e il differimento e la limitazione dell’accesso civico, con riferimento al trattamento retributivo del dirigente. Lo scetticismo deriva dalla mancata previsione ad opera del legislatore di un meccanismo di parametrazione della cosiddetta “sanzione retributiva”. Non predeterminando dei criteri ad hoc, né regole apposite, né tanto meno limiti quantitativi, si ingenera il pericoloso rischio di sanzioni dai “caratteri non prevedibili”, in quanto tali destinate a scivolare ben presto sul terreno dell’inefficacia.[24]

Brevi cenni sul Whistleblower
Sempre con riferimento al rapporto di lavoro, il legislatore è intervenuto per rafforzare le garanzie di trasparenza in sinergia con lo Stato, favorendo la segnalazione di condotte illecite ad opera del dipendente, con la garanzia dell’anonimato e dell’assenza di possibili ritorsioni.

Si parla del Whistleblower, che ha segnato un decisivo passo in avanti in materia di collaborazione tra pubblico e privato.

Dapprima esteso soltanto al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, è stato successivamente previsto anche in ambito privatistico mediante lo stesso schema: la segnalazione o denuncia, mediante buona fede, di condotte illecite ad opera del lavoratore.

Ciò che balza agli occhi con un’alea di perplessità riguarda la previsione da parte del legislatore di un vero e proprio “obbligo” e non facoltà di denuncia per il rapporto di lavoro ad impronta privatistica, perfino delle violazioni del MOG[25] ex Dlgs. 231/19900, a differenza della parallela previsione di ambito pubblicistico, che lascia all’incombenza del singolo la suddetta scelta, con un’evidente e ingiustificata disparità proprio con riferimento a quel settore, il settore dell’impiego pubblico, in cui maggiore è l’esigenza di lotta e contrasto alla corruzione e quindi la necessita di politiche ispirate alle fondamentali garanzie di trasparenza e di chiarezza.

Sempre con riferimento al Whistleblower, altra perplessità si riscontra con riferimento alla nozione di “buona fede” richiesta al collaboratore che segnali o denunci condotte illecite nel quadro della cooperazione sinergica tra cittadino e Stato. La buona fede viene qui identificata nella “segnalazione circostanziata nella ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita si sia verificata”. La formula, al quanto generica e indeterminata, alimenta dubbi e perplessità per la sua obiettiva impossibilità di assumere una fisionomia concreta e in ultima analisi risulta costruita in modo tale da favorire la moltiplicazione dei contenziosi inter partes.[26]

Ultima notazione va fatta con riferimento ai costi economici della riforma a carico dei cittadini per l’esercizio del nuovo strumento di accesso civico.

L’art. 6 della legge di riforma, riconosce la gratuità dell’istanza di accesso civico sia in forma cartacea che elettronica (previsione aggiuntiva rispetto all’iniziale formulazione), salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali[27].

La regola generale è quella della gratuità dell’accesso, salvo il rimborso dei costi di riproduzione, al fine sostanzialmente di scongiurare, ictu oculi, eccessivi oneri a carico delle amministrazioni pubbliche.

Ciò che desta sospetto è ancora una volta la mancata quantificazione legislativa di tali costi, con la conseguenza che in mancanza di standard predeterminati, i diversi enti pubblici potranno autonomamente fissare la misura dell’importo richiesto, scoraggiando, nell’ipotesi in cui richiedano somme eccessive, lo stesso esercizio del diritto di accesso.[28]

Nonostante le criticità, la riforma del 2016 rappresenta comunque un passaggio fondamentale nell’ottica di potenziamento degli strumenti di partecipazione del privato, in ossequio alla principale garanzia della trasparenza amministrativa, affinché la metafora della visione “vitrea” dell’amministrazione pubblica sia sempre più realtà e sempre meno aspirazione.
D’altro canto, da un’attenta analisi delle modifiche e delle integrazioni apportate al testo legislativo emerge come l’impegno maggiore del legislatore attenga in realtà al profilo dei rimedi, mediante il potenziamento di “meccanismi giustiziali” attivabili prima dell’instaurazione del processo davanti al giudice amministrativo. Fondamentale anche per arginare il proliferarsi dei contenziosi in sede processuale[29] e il correlato fenomeno dell’estrema lunghezza dei processi con conseguenti negative ricadute sulla parte “che ha ragione”.

Quello della ragionevole durata del processo, principio applicabile ad ogni tipo di giurisdizione, è altro problema attuale che interessa in modo ravvicinato l’Italia e che nonostante l’espresso riconoscimento ad opera della CEDU del «diritto di ogni persona» ad un processo equo entro un «termine ragionevole», continua a registrare un’elevata consistenza.

L’art. 6 della Convenzione va interpretato in una duplice prospettiva, cioè nel senso che da un lato non deve intercorrere un’eccesiva durata tra l’inizio del processo e la sua conclusione, dall’altro lato al convenuto deve essere assicurato, in ogni caso, il tempo per preparare le proprie difese.[30]

Non si considera rispettato il termine ragionevole se la sua durata ecceda i tre anni in primo grado, i due anni in grado di appello e un anno nel giudizio di legittimità.[31]

Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se la sua durata non ecceda nel complesso i sei anni.[32]

Occorre rimarcare, da ultimo, che al di là dell’eccessiva durata processuale dei contenziosi, le convulse modifiche normative che freneticamente si affannano nel nostro Paese, rappresentano l’ostacolo principale ad una normazione chiara e limpida in cui può realmente fortificarsi a piene lettere il principio di trasparenza.

D’altra parte, la considerazione della corruzione come la nemica principale della Repubblica non costituisce certo una novità: “Bisogna che la Repubblica sia giusta e incorrotta, forte e umana: forte con tutti i colpevoli, umana con i deboli e i diseredati.”[33]

 
Note
[1] G. M. ESPOSITO, Il sistema amministrativo tributario italiano, 2017, p. XV e ss.
[2] TACITO, Annales, Libro III, p. 27 che significa “moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto”.
[3] MICHELE GERARDO, Anticorruzione e trasparenza nella pubblica amministrazione. Profili giuridici, economici ed informatici, in Judìcìum, il processo civile in Italia e in Europa, 2017, p. 13
[4] Il Corruption Perceptions Index 2017 è un indicatore statico pubblicato da Transparency International con cadenza annuale. I dati possono essere consultati in Transparency International https://www.transparency.org
[5] Acronimo di “Autorità nazionale Anticorruzione”
[6] Così in: Rapporti e studi – Anticorruzione e Trasparenza, sito istituzionale dell’ANAC, http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/Pubblicazioni/RapportiStudi
[7] Si tratta dell’indicatore che misura lo stato di attuazione dell’Agenda Digitale in Europa.
[8] Per un approfondimento del tema, F. MARTINES, La digitalizzazione della pubblica amministrazione, in Rivista di dir. dei media 2/2018, 2018, p. 4 e ss.
[9] R. CANTONE, La prevenzione della corruzione nelle società a partecipazione pubblica: le novità introdotte dalla “Riforma Madia” della Pubblica Amministrazione, in Riv. delle Società, fasc.1, 2018, p. 233
[10] S. MILAZZO, Trasparenza nella Pubblica Amministrazione e accesso civico: analisi degli elementi di innovazione e di criticità della disciplina del FOIA italiano, di cui al Dlgs. 25 Maggio 2016, n. 97, 2017, in Foro Amm.
[11] Art. 5 Dlgs. 33/2013 così come sostituito dall’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 97 del 2016
[12] Art. 5-bis, così come introdotto dall’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 97 del 2016
[13] A. SIMONATI, L’accesso civico come strumento di trasparenza amministrativa: luci ombre e prospettive future, in Saggi e Articoli, 2017 p. 725 e ss.
[14] Il contributo lo si rinviene in M. SAVINO, La nuova disciplina della Trasparenza Amministrativa, in Gior. di Dir. Amm., 2013, 797 e ss.
[15] Corte europea dei diritti dell’uomo, Társaság a Szabadságjogokért v. Hungary, 14 April 2009, punto 35
[16] E. COGO, Il Consiglio di Stato si pronuncia per la prima volta sui rapporti tra accesso ai documenti amministrativi ed accesso civico, in Riv, quadr. di Scienze dell’Amm, 2014
[17] Secondo l’interpretazione data alla sentenza n. 251/2016 dal Consiglio di Stato (parere n. 83/2017), laddove è stato precisato che la sentenza, di per sé, è sufficiente a fornire un’interpretazione della riforma conforme e perciò “adeguatrice” al dettato costituzionale.
[18] Con la sentenza n. 251 del 2016 del 25 novembre, la Corte Costituzionale, è stata chiamata a giudicare la legittimità costituzionale di alcune norme della legge di riforma delle amministrazioni pubbliche (legge n. 124 del 2015), su ricorso della Regione Veneto. Secondo la Corte “occorre, anzitutto, verificare se, nei singoli settori in cui intervengono le norme impugnate, fra le varie materie coinvolte, ve ne sia una, di competenza dello Stato, cui ricondurre, in maniera prevalente, il disegno riformatore nel suo complesso. Questa prevalenza escluderebbe la violazione delle competenze regionali. Quando non è possibile individuare una materia di competenza dello Stato cui ricondurre, in via prevalente, la normativa impugnata, perché vi è, invece, una concorrenza di competenze, statali e regionali, relative a materie legate in un intreccio inestricabile, è necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze.” Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati “previo parere” e non “previa intesa”.
[19] Si è così pronunciato il T.A.R Lombardia, Brescia, sez. I, sent. 360/2015
[20] G. GARDINI, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in Riv. di Dir. Pubblico Italiano e Comparato, 2016, p. 15 e ss.
[21] Art. 46 così modificato dall’art. 37 del d.lgs. n. 97 del 2016
[22] Segnatamente D. U. GALLETTA, Accesso Civico e Trasparenza alla luce delle (previste) modifiche alle disposizioni del Dlgs. 33/2013, p. 14-15
[23] Corte dei Conti, sent. n. 8/2015, in il Quotidiano degli enti locali e P.A. del 1° aprile 2015
[24] S. MILAZZO, Trasparenza nella Pubblica Amministrazione e accesso civico: analisi degli elementi di innovazione e criticità della disciplina FOIA italiano, di cui al Dlgs. 25 maggio 2016, n. 97.
[25] Il Modello di Organizzazione e Gestione (MOG) è un sistema organico strutturato sull’esigenza di prevenzione della responsabilità penale degli enti tramite l’incentivazione di condotte virtuose da parte di soggetti operanti in settori ritenuti sensibili (amministratori, dirigenti, consulenti tecnici, dipendenti e collaboratori) introdotto dal Dlgs. 231/2001, in materia di responsabilità da reato degli enti, anche non costituiti persone giuridiche, sotto l’etichetta “responsabilità amministrativa”.
[26] Articolo pubblicato su Il Sole 24 ore, in data 7 febbraio 2016, in A.R. CASTALDO, In ordine Sparso, il diritto penale oggi, Torino, 2016, p. 46 e ss. In particolare, nello studio condotto sulla Briberitaly, si osserva come le forme di mutua cooperazione tra Stato e cittadino proseguano verso un trend in progressiva crescita, è il caso delle SOS nella lotta al money-laundering e della tutela accordata al dipendente pubblico che segnali l’illecito dall’art. 54 bis del Dlgs. 165/2001, così come riformulato dalla legge n. 190/2012 (legge Anticorruzione).
[27] Art. 6, n. 4 del Dlgs. 25 maggio 2016, n. 97 (Modifiche all’articolo 5 del decreto legislativo n. 33 del 2013 e inserimento degli articoli 5-bis e 5-ter e del capo I-ter): “Il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo è gratuito, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali.”
[28] Il tema è stato affrontato da L. OLIVIERI, in La riforma della trasparenza. Come cambia il Dlgs. 14 marzo 2013, n. 33 dopo il Dlgs. 25 maggio 2016, n. 97. Commento articolo per articolo della nuova disciplina, 2016
[29] A. SIMONATI, L’accesso civico come strumento di trasparenza amministrativa: luci ombre e prospettive future, in Saggi e Articoli, 2017 p. 725 e ss.
[30] Prevede l’art. 6, primo comma della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
[31] Si aggiunge che “nell’accertare la grave violazione, che può sfociare in una condanna dello Stato al pagamento di quanto dovuto a titolo di equa riparazione, la corte d’appello considera la complessità del caso, il comportamento delle parti e del giudice, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrere al procedimento e a contribuire alla sua definizione.” In tal senso G. ARIETA, F. DE SANTIS, L. MONTESANO Corso base di diritto processuale civile, Vicenza, Cedam, 2016, p. 77
[32] Così l’art. 2, comma 2-ter l. 208/2015 che ha modificato la cosiddetta Legge Pinto del 2001, n. 89 in materia di equa riparazione in favore di chi ha subito un pregiudizio derivante dal mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 della CEDU. Più precisamente la riforma del 2015 ha stabilito l’inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non abbia preventivamente esperito uno dei cosiddetti “rimedi preventivi” introdotti dalla stessa.
[33] La frase è di Sandro Pertini, pronunciata nel suo Discorso di insediamento, 1978 (https://storia.camera.it/deputato/alessandro-pertini-18960925)

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