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Voglia di scudo anche dei sindaci
Gli scudi da qualche tempo sono molto di moda. Scudi fiscali se ne sono visti moltissimi, mentre per ora imperversa nelle cronache la questione dello “scudo penale” per Arcelor Mittal.

I sindaci non vogliono essere da meno e reclamano anche il loro “scudo” dalla responsabilità amministrativo-contabile della cui cognizione è competente la Corte dei conti.

Per la verità, i sindaci non sono soli: già la riforma della dirigenza targata Madia, fortunatamente mai entrata in vigore, avrebbe contenuto l’agognato “scudo”, che però adesso i sindaci tornano a chiedere a gran voce, mediante il disegno di legge denominato “Liberiamo i sindaci”.

Se l’intento è liberarli, i sindaci come qualsiasi altro organo o funzionario politico, dalle responsabilità personali, di qualsiasi natura, occorrerebbe subito osservare che la richiesta di “liberazione”, in un ordinamento giuridico minimamente coerente, dovrebbe subito essere dichiarata irricevibile.

Invece, proprio il precedente della tentata riforma Madia rivela che in Italia i problemi del rispetto delle regole si affrontano non tentando si approntare strumenti idonei allo scopo, bensì eliminando proprio le responsabilità connesse alla violazione delle regole, oppure scaricando le responsabilità su altri.

Questo secondo metodo è quello indicato dai sindaci col disegno di legge per la loro “liberazione”. Lo spiega abbastanza bene il seguente stralcio della relazione di presentazione: “Allo stesso tempo i sindaci rispondono direttamente degli effetti di atti di gestione compiuti dai dirigenti, nonostante la vigenza del principio di separazione fra indirizzo politico e gestione. 

Ad esempio, che c’entra il sindaco con l’assegnazione di una causa a un avvocato scelto in autonomia dal dirigente? Che c’entra il sindaco con il rilascio di una concessione di occupazione di suolo pubblico eventualmente illegittima?“.

L’affermazione appare alquanto suggestiva e convincente: chi non darebbe ragione ai sindaci, nella loro richiesta di non rispondere per fatti altrui?

Ora, sgomberiamo il campo da equvoci. Non si tratta di responsabilità penale, che è solo personale: un sindaco risponde in via penale solo di reati che abbia commesso di persona e non certo per reati commessi da terzi, dirigenti o no. Non si tratta nemmeno di responsabilità oggettiva di tipo civilistico, posto che la responsabilità oggettiva è sostanzialmente assente nel nostro ordinamento, salvo pochi tassativi casi, tra i quali non rientra assolutamente l’attività dei sindaci.

Resta, quindi, la responsabilità erariale. Per caso, allora, questa responsabilità, dovuta a fatti imputabili ai dirigenti, può essere traslata ai sindaci?

La risposta la si deve reperire nella norma che regola la responsabilità amministrativo contabile, che è la legge 20/1994. Leggiamo, allora, il suo articolo 1, comma 1, primo periodo: “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità’ nel merito delle scelte discrezionali“.

La responsabilità erariale, come quella penale, dunque è sempre e solo personale. Non è oggettiva, non è traslativa.

Dunque, l’affermazione dalla quale muove le mosse l’iniziativa normativa volta a creare lo “scudo” per i sindaci è semplicemente priva di fondamento, se non del tutto falsa.

Ma, proseguiamo nella lettura della relazione al disegno di legge sul piano tecnico: “L’articolo 5 introduce il principio, già contenuto come principio di delega nella legge n. 124 del 2015 (riforma Madia), della distinzione netta tra la responsabilità amministrativo-contabile dei dirigenti e quella politico-istituzionale degli amministratori locali, in coerenza con il vigente assetto ordinamentale in materia, che assegna la responsabilità dell’attività gestionale in via esclusiva ai dirigenti“.

leggiamo, allora, il contenuto dell’articolo 5 del disegno di legge: “Al comma 6 dell’articolo 107 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Sono altresì titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività di gestione, anche se derivante da atti di indirizzo dell’organo politico di vertice“.

Scopriamo, dunque, qual è il vero intento della norna. La quale non “introduce” per nulla la responsabilità dei dirigenti, da molti anni prevista prima dalla legge 142/1990 (poi, dopo decine di riforme, trasfusa nel d.lgs 267/2000 e in particolare nell’articolo 107, comma 6) e poi dal d.lgs 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs 165/2001; nè “introduce” il principio di separazione, anch’esso regolato da molti anni, esattamente dalle norme citate poco prima.

La vera novità del disegno di legge non è l’introduzione nè del principio di separazione delle competenze (previgente), nè quello della responsabilità dirigenziale (previgente), ma proprio lo “scudo” contro la responsabilità erariale.

Infatti, l’articolo 5 del disegno di legge intende introdurre nell’ordinamento quella sorta di responsabilità per conto terzi, che i sindaci – senza fondamento alcuno – lamentano di subire.

Lo scopo della norma è visibilmente creare capri espiatori nei dirigenti che abbiano commesso danni erariali, adottando provvedimenti evidentemente lesivi dei bilanci locali, anche se detti provvedimenti siano attuativi di indirizzi degli organi politici.

Una vera e propria esenzione di responsabilità. Il meccanismo pensato è davvero perverso. Infatti, i sindaci in cerca di liberazione, mirano a poter essere liberi di adottare atti di indirizzo esenti da responsabilità, anche se i contenuti di merito, se attuati, portino appunto a danno all’erario: indirizzi per sottoscrivere contratti che riconoscano indennità non finanziate o inesistenti o progressioni orizzontali a pioggia, indirizzi per riconoscere contributi non dovuti, indirizzi per agevolare attività edilizie senza o con forti riduzioni degli oneri, indirizzi per esentare dai tributi per cause non previste dalla legge, indirizzi per ridurre indebitamente canoni e affitti, indirizzi per assumere oltre le capacità o reclutare dirigenti a contratto senza presupposti, indirizzi per proroghe o rinnovi di appalti non dovuti e così via. Indirizzi che, per altro, non è affatto difficile riscontrare nella prassi di ogni giorno negli enti locali, nonostante la loro evidente illegittimità.

Ora, è evidente che una norma come quella pensata dal disegno di legge finirebbe per creare un assurdo cortocircuito. Infatti, i dirigenti (o negli enti senza dirigenza, i responsabili di servizio) svolgono le proprie funzioni per effetto di un incarico specifico, ricevuto dal sindaco. Lo capisce chiunque che l’organo politico, sulla base dell’errata presunzione che l’elezione gli permetta di adottare arbitrariamente qualsiasi scelta a prescindere al rispetto di vincoli e regole normative, anche solo inconsciamente considererebbe rinnovabile o semplicemente proseguibile l’incarico al vertice organizzativo proprio in funzione della capacità di questo di “fare da scudo” appunto: dunque, di adottare il provvedimento attuativo dell’indirizo illegittimo, dare corso, quindi, ad una gestione che conduca a danno erariale e rispondere in via esclusiva ed al posto di chi, con l’indirizzo ha dato avvio al circolo vizioso che conduce al danno. Il dirigente verrebbe “misurato” non in relazione alle capacità operative, ma alla volontà di rispondere per danno erariale attuando indirizi illeciti.

Presi tra due fuochi, molti dirigenti sarebbero portati a fidare nella fortuna: attuare le indicazioni foriere di danno e sperare che mai la Corte dei conti ne abbia cognizione o che ne abbia cognizione oltre il periodo di prescrizione; oppure, come già molti fanno, fidare nella protezione delle assicurazioni.

La norma finirebbe per essere una bella e gradita occasione di profitto per le compagnie assicuratrici, ma una vera e propria istigazione ad agire in spregio al rispetto delle regole contabili e dell’interesse pubblico. Gli atti dannosi per l’erario finirebbero per moltiplicarsi, a tutto detrimento della finanza pubblica.

E’ questo il modo per “liberare i sindaci”? Non si deve dimenticare che sempre la legge 20/1994, all’articolo 1, comma 1-ter, disciplina la cosiddetta “scriminante politica”: “Nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione“.

Esattamente al contrario di quanto si afferma nella relazione del disegno di legge, questa norma mira proprio ad escludere qualsiasi responsabilità di sindaci, assessori e consiglieri per atti adottati dai dirigenti, qualora tali atti rientrino nella competenza esclusiva dei dirigenti medesimi e questi, come per pessima abitudine troppo spesso avviene, ritengano comunque di coinvolgere gli organi politici per ottenere da essi una sorta di “copertura”.

Dunque, già la legge adesso prevede:

1. che la responsabilità amministrativo-contabile è personale;

2. che gli organi di governo non possano rispondere di atti adottati dagli organi gestionali, se la competenza è di questi secondi anche laddove gli organi di governo siano stati – indebitamente – coinvolti nelle scelte gestionali, anche a soli fini conoscitivi o autorizzatori (un atto rientrante nelle competenze gestionali lo è ex lege e non richiede autorizzazione alcuna dell’organo di governo).

Dunque, la richiesta dei sindaci non avrebbe alcuna ragione d’essere, se non fosse che il suo vero intento consiste nell’estendere l’esimente politica anche ad atti di interverenza della politica nella gestione, come direttive che si trasformerebbero (e già spessissimo accade negli enti locali) in vere e proprie decisioni, che poi si pretende il dirigente o responsabile di servizio faccia proprie, adottando un proprio atto.

Insomma, il risultato sarebbe diametralmente opposto a quello enunciato: altro che garantire la separazione della politica dalla gestione, ma al contrario precarizzare la dirigenza ed esporne la durata degli incarichi alle azioni di “copertura” della politica, che verrebbe messa nelle condizioni di adottare simulati indirizzi, nella realtà contenenti vere e proprie decisioni, che si pretenderebbe i dirigenti traducessero pedissequamente in atti propri, con esclusiva assunzione della responsabilità.

L’intento è chiaro. La poca tenuta di un’idea simile di uno “scudo” come questo con l’ordinamento giuridico e l’assetto delle responsabilità è evidente. Il Legislatore, però, aveva già provato con la riforma Madia ad introdurre questo inacettabile vulnus. Vedremo se sarà questa la volta buona per un ulteriore decadimento delle regole minime di buona amministrazione.

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