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Urbanistica. Cessione di cubatura tra fondi non contigui
Pubblicato: 21 Novembre 2019
Cass. Sez. III n. 43253 del 22 ottobre 2019 (Ud  19 set 2019)

Pres. Di Nicola Est. Reynaud Ric. Ferilli

La legittimità della cessione di cubatura tra fondi non contigui deve escludersi, oltre che nei casi in cui gli stessi siano lontani, oppure esprimano diversi indici di fabbricabilità quando più elevato sia quello del fondo cedente, ovvero abbiano diversa destinazione urbanistica, anche laddove l’atto negoziale abbia consentito di realizzare una assai maggiore volumetria in un terreno paesaggisticamente vincolato.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 24 settembre 2018, la Corte d’appello di Lecce, respingendo i gravami proposti da Mauro Ferilli e Fortunato Pirelli, ha confermato la sentenza con cui i medesimi erano stati condannati alle pene di legge per le contravvenzioni previste dagli artt. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2011, n. 380  e 181, comma 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n.  42 per aver realizzato – nelle rispettive qualità di proprietario/committente e di progettista/direttore dei lavori – un edificio in zona agricola vincolata in assenza di permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica, dovendo ritenersi illegittimi i provvedimenti rilasciati. In particolare, gli imputati avevano richiesto ed ottenuto dal comune di Castrignano del Capo il permesso di costruire e l’autorizzazione paesaggistica per l’edificazione di un edificio destinato a deposito agricolo ed in forza dei medesimi – giudicati illegittimi perché in contrasto con le previsioni normative e urbanistiche e da ritenersi dunque inesistenti, essendo stata autorizzata una volumetria superiore rispetto a quella esprimibile dal lotto, ottenuta in base ad un illecito asservimento urbanistico di terreni distanti ed in assenza dei requisiti soggettivi e oggettivi relativi ad un’edificazione connessa all’esercizio di attività imprenditoriale agricola – avevano invece edificato una casa di civile abitazione con annessa piscina.

2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del comune difensore di fiducia, hanno proposto ricorso i suddetti imputati, deducendo, con il primo motivo, difetto assoluto di motivazione e violazione di legge con riguardo all’invocata applicazione del DPCM 8 luglio 2003, del d.m. Ministero dell’Ambiente del 29 maggio 2008 e degli artt. 27 e 35 del PdF del comune di Castrignano del Capo.

In particolare, censurando il fatto che la sentenza impugnata si era limitata a motivare in ordine alla vigenza o meno dell’art. 51 l.reg. Puglia n. 56 del 1980 in tema di accorpamento dei fondi ai fini del computo volumetrico delle opere realizzabili, i ricorrenti si dolgono che la Corte d’appello non abbia considerato – omettendo di motivare sulle specifiche doglianze proposte con il gravame – come l’art. 35 del PdF dello strumento urbanistico consenta la possibilità di trasferire oltre il “limite di rispetto” le volumetrie espresse dall’indice di fabbricabilità di fondi che ricadano in particolari aree nelle quali non è consentita l’edificazione per la vicinanza a strade ovvero a zone cimiteriali, disposizioni ritenute applicabili anche al caso, che è quello di specie, di aree contigue agli elettrodotti, secondo i vincoli posti dal DPCM 8 luglio 2003 e dal d.m. Ministro dell’ambiente 29 maggio 2008.

Allo stesso modo – si lamenta – la sentenza impugnata ha incomprensibilmente affermato che lo strumento urbanistico non consentirebbe l’indiscriminata realizzazione di case padronali senza considerare il disposto di cui all’art. 27 del PdF del comune di Castrignano del Capo, che invece ammette nelle zone E1 la costruzione di case padronali per residenza estiva unifamiliare.

3. Con il secondo motivo si deduce violazione della legge penale per aver la sentenza affermato che l’art. 51 l.reg. Puglia n. 56 del 1980 sarebbe tuttora vigente nonostante il maturare della condizione risolutiva di efficacia prevista dalla stessa disposizione con riguardo all’approvazione, nell’anno 2000, del Piano Urbanistico Territoriale Tematico (P.U.T.T.) per il paesaggio, che, per l’art. 8 della stessa legge regionale, ha il medesimo contenuto e segue lo stesso provvedimento di formazione del P.U.T., vale a dire dello strumento urbanistico considerato dalla disposizione. Essendo pertanto venuti meno i più stringenti requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dal citato art. 51 l.reg. 56/1980 rispetto alla connessione con l’esercizio dell’impresa agricola dell’accorpamento di fondi al fine di cumularne la superficie per ottenere la volumetria necessaria ad edificare, detto accorpamento – peraltro definitivamente legittimato dalla previsione della cessione di cubatura regolata dall’art. 5 d.l. n. 70 del 2011 – non era dunque vietato da alcuna disposizione normativa né dagli strumenti urbanistici.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 149, comma 1, lett. a), d.lgs. 42/2004 e l’erronea applicazione del requisito normativo della “doppia conformità” con riguardo alla ritenuta inefficacia del permesso di costruire in sanatoria n. 74/2015, ottenuto in ordine al mutamento di destinazione d’uso – da agricolo a residenziale – del manufatto edificato. In particolare, posto che la citata disposizione esclude dalla necessità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica gli interventi che non alterano lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici, il semplice mutamento della destinazione d’uso del manufatto, senza modificazione esterno dello stesso, non richiedeva un’ulteriore autorizzazione paesaggistica, diversa da quella a suo tempo già concessa.

5. Con l’ultimo motivo di ricorso si censura il vizio di motivazione in relazione all’art. 62 bis cod. pen. per non essere state riconosciute le invocate circostanze attenuanti generiche, omettendosi di considerare la particolarità della vicenda per l’obiettiva difficoltà di interpretare la normativa applicabile quale più sopra richiamata e l’esistenza di una consolidata prassi amministrativa comunale – di Castrignano del Capo, come di altri limitrofi comuni – che legittimava l’operato dei ricorrenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I primi due motivi di ricorso – da affrontarsi congiuntamente perché obiettivamente connessi – sono inammissibili per plurime, ed anche indipendenti, ragioni che ne attestano la genericità e manifesta infondatezza.

In primo luogo deve osservarsi come i ricorrenti non si confrontino in alcun modo con un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità ribadito in numerose, pure recenti, decisioni pronunciate in procedimenti riguardanti fatti analoghi, commessi, oltre che a Castrignano del Capo, a Morciano di Leuca, a Patù ed in altri comuni della provincia di Lecce.

Occorre richiamare, in particolare, le argomentazioni svolte nelle recenti decisioni Sez. 3, n. 38838 del 09/07/2018, Baracetti e a., non massimata, Sez. 3, n. 39337 del 09/07/2018, Renna, non massimata, Sez.  3, n. 46228 del 09/07/2018, Rv. 274673, nella quale si è affermato il principio secondo cui  integra il reato previsto dall’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 la realizzazione di un immobile in assenza di valido permesso di costruire, perché ottenuto mediante illegittima cessione di cubatura a scopo edificatorio tra terreni non reciprocamente prossimi, aventi un indice di fabbricabilità differente o una diversa destinazione urbanistica. Le argomentazioni esposte nelle motivazioni di queste decisioni, condivise dal Collegio, sono state peraltro riproposte in numerose altre sentenze (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 46225 del 09/07/2018, Vertua e aa.; Sez. 3, n. 46226 del 09/07/2018, De Marini e a.; Sez. 3, n. 39248 del 12/07/2018, Chiarillo e a.; Sez. 3, n. 51831 del 03/10/2018, Morciano e a.; Sez. 3, n. 51832 del 03/10/2018: Sez. 3,  n. 54706 del 13/11/2018, Bonerba e a.).

1.1. Quanto alle modalità applicative dell’istituto della cessione di cubatura ed alla vigenza o meno dell’articolo 51 della l. reg. 56/1980, questa  Corte ha da tempo chiarito che, essendo stato emanato, con delibera della Giunta regionale della Puglia n. 1748 del 15 dicembre 2000, il Piano Urbanistico Territoriale Tematico per il paesaggio (PUTT/P), si è verificata, una volta entrato in vigore quest’ultimo, la clausola risolutiva espressa dell’efficacia delle predetta disposizione legislativa (così, Sez. 3, n. 8635 del 18/9/2014, dep. 2015, Manzo e aa., Rv. 262512; Sez. 3, 18/03/2017, n. 35166, non massimata; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 2018, Siciliano e aa., Rv. 271770). Tale assunto – spesso non condiviso dalla Corte di appello di Lecce e valutato in termini problematici anche dalla sentenza qui impugnata –  viene frequentemente invocato nei ricorsi degli imputati, come pure nella specie avvenuto, senza tuttavia adeguatamente considerare le altre argomentazioni sviluppate nelle citate decisioni, che la sentenza impugnata invece correttamente richiama al fine di dichiarare la illegittimità dell’operazione di accorpamento di volumi effettuata anche nel caso in esame. Pare dunque opportuno riepilogare nel dettaglio le motivazioni espresse dall’orientamento in parola.

1.1.1.  

Onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, il legittimo ricorso a tale meccanismo è tuttavia soggetto a determinate condizioni, una delle quali – rilevante anche nella vicenda esaminata – è costituita dall’essere i terreni in questione, se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità, perché altrimenti, attraverso l’utilizzazione di tale strumento, astrattamente legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, contrastanti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio. A titolo di esempio, le citate decisioni ricordano come si potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la “cessione di cubature” fra terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di “affollamento edilizio” in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situati i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l’attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici.

Pur essendo spesso stata detta ratio decidendi associata all’ulteriore rilievo –ritenuto parimenti ostativo ad una legittima cessione di cubatura – dell’essere i terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 35166 del 28/3/2017, Nespoli e aa., non massimata; Sez. 3, n. 30040 del 30/1/2018, Strambone, non massimata; Sez. 3, n. 30025 del 4/12/2017, dep. 2018, Scrudato, non massimata; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 2018, Siciliano e aa., Rv. 271770; Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Melcarne, non massimata; Sez. 3, n. 52605 del 4/10/2017, Renna, non massimata; Sez. 3, n. 26714 del 14/1/2015, Tedoldi, non massimata), si è ritenuto che anche in ipotesi di aree entrambe tipizzate come zona agricola ed aventi il medesimo indice di fabbricabilità non può essere esclusa la illegalità dell’operazione effettuata (Sez. 3, n. 39337 del 09/07/2018, Renna; Sez. 3, n. 46225 del 09/07/2018, Vertua e aa.; Sez. 3, n. 46226 del 09/07/2018, De Marini e a.; Sez. 3, n. 51833 del 03/10/2018, Sangalli e aa.).

Va infatti richiamata l’attenzione sul significativo dato fattuale, più volte correttamente valorizzato dalla giurisprudenza amministrativa, dell’assenza del necessario requisito della “contiguità” dei fondi, intesa nel senso che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza (così C. St., Sez. V, n. 6734, 30 ottobre 2003; C. St., Sez. V, n. 400, 1 aprile 1998; più recentemente, TAR Campania –Salerno, Sez. II n. 1675 del 19/7/2016). Tali principi, come detto, sono stati richiamati anche da questa Corte nelle numerose decisioni più sopra citate.

1.1.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto che dalle prove assunte risultava che i terreni accorpati erano tra loro distanti circa 4/5 Km. e la circostanza non forma oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti. Si è aggiunto, inoltre, che mentre il terreno edificato si trova in zona paesaggisticamente vincolata, i fondi accorpati la cui volumetria è stata ceduta si trovano in una zona di scarso pregio stante la vicinanza ad una centrale elettrica.

Per ciò solo, dunque, l’accorpamento della volumetria nel caso di specie non era consentito, con conseguente illegittimità del permesso di costruire, posto che il lotto ove l’edificio è stato realizzato – si legge in imputazione, confermata dalla sentenza impugnata (pag. 4) – avrebbe consentito di esprimere 39,18 mc., vale a dire poco più di un decimo della cubatura di fatto realizzata (367,05 mc.).

Va ulteriormente rilevato come il terreno edificato, pur avendo il medesimo indice di fabbricabilità di quelli accorpati, è, a differenza di questi ultimi, paesaggisticamente vincolato, e correttamente la sentenza impugnata ha valorizzato questo aspetto nel giudizio circa l’illegittimità dell’accorpamento. E’ evidente, di fatti, che il maggior impatto urbanistico derivante dalla realizzazione di una cubatura circa dieci volte superiore a quella che il fondo in concreto edificato poteva esprimere ha nella specie inciso in modo ancora più significativo sulle scelte di programmazione urbanistica del territorio proprio per il pregio ambientale del sito.

Va quindi affermato il principio secondo cui, la legittimità della cessione di cubatura tra fondi non contigui deve escludersi, oltre che nei casi in cui gli stessi siano lontani, oppure esprimano diversi indici di fabbricabilità quando più elevato sia quello del fondo cedente, ovvero abbiano diversa destinazione urbanistica, anche laddove l’atto negoziale abbia consentito di realizzare una assai maggiore volumetria in un terreno paesaggisticamente vincolato.

Quest’ultimo elemento – che per quanto detto incide sulla valutazione circa la legittimità della cessione di cubatura ai fini urbanistici e, dunque, sulla legittimità del permesso di costruire che sia ciò nondimeno stato rilasciato – consente di comprendere come risulti certamente compromessa anche la legittimità dell’accertamento di compatibilità paesaggistica laddove, ciò che nella specie è avvenuto, lo stesso sia espresso sull’errato presupposto del rispetto degli standards urbanistici di zona quanto alla volumetria legittimamente edificabile.

1.1.3. Come posto in rilievo dalla copiosa giurisprudenza di legittimità più sopra richiamata, altro elemento da tenere in considerazione ai fini del giudizio circa la sussistenza dell’elemento oggettivo delle contestate contravvenzioni, anche a prescindere dalla non più efficace disposizione di cui all’art. 51 l.reg. 56/1980, è l’assenza della effettiva correlazione con l’attività agricola dell’immobile edificato in zona E1. Nel caso di specie, l’imputazione contestava peraltro anche la mancanza di tale presupposto, quale richiesto dall’art. 27 n. att. P.d.F. del comune di Castrignano del Capo, e la diversa destinazione del fabbricato (una civile abitazione con annessa piscina) rispetto a quella dichiarata nella richiesta delle autorizzazioni (un deposito agricolo). Tale specifica contestazione è indubbiamente fondata anche con riguardo alla disposizione regolamentare fatta oggetto di specifica doglianza, non essendo condivisibili le argomentazioni in contrario svolte sul punto dai ricorrenti.

La sentenza impugnata al proposito richiama i rilievi di quella, conforme, di primo grado, e può dirsi pacifico, in fatto, (cfr. sentenza impugnata, pag. 7) che il proprietario e committente Ferilli non fosse dedito all’agricoltura e che sia stato edificato in zona agricola un immobile con finalità esclusivamente residenziale, pur simulando che il fabbricato avrebbe invece avuto la richiamata destinazione agricola, quella che era richiesta dal Comune di Castrignano del Capo per poter edificare in zona E1.

Proprio l’art. 27 n.att. al P.d.F., riportato in ricorso, rivela l’infondatezza della tesi circa il fatto che la disposizione urbanistica sembrerebbe consentire nelle zone E1 anche la libera edificazione per fini residenziali. Ed invero, il citato art. 27, al primo comma – dopo aver premesso che «le zone per attività primarie sono prevalentemente destinate all’agricoltura, alle foreste, alla caccia, alla pesca» e che sono «inoltre ammesse attività industriali connesse con l’agricoltura e allevamenti di bestiame, industrie estrattive, piccoli depositi di carburante» – con formulazione che indica chiaramente la finalizzazione dell’attività costruttiva alla conduzione delle aziende agricole, prevede la possibilità di realizzare in zona E1 soltanto «costruzioni al servizio dell’agricoltura e cioè: fabbricati rurali, case coloniche, laboratori  carattere artigiano-agricolo, magazzini per la lavorazione di prodotti agricoli commisurati alle normali esigenze dell’azienda agricola su cui dovranno sorgere». La possibilità – consentita dal successivo terzo comma – di realizzare «costruzioni di case padronali per residenza estiva unifamiliare per iniziativa del singolo proprietario su lotti di congrua estensione, con indice di fabbricabilità fondiaria non superiore a 0,03 mc/mq» deve, pertanto, coerentemente ricondursi al medesimo, oggettivo, collegamento con lo sfruttamento agricolo dei fondi: le case padronali (che la norma ha peraltro cura di precisare come destinabili ad un uso estivo e non, quindi, a stabile residenza) sono da intendersi riferite al godimento (saltuario, nel corso dell’anno) della famiglia di chi si dedica all’agricoltura o di chi, proprietario dei fondi agricoli, sovrintende all’esercizio dell’attività da altri svolta. Che l’ultimo comma dell’art. 27 n.att. faccia menzione delle «licenze per tutte le costruzioni residenziali previste nel presente articolo» – vale a dire a quelle padronali appena descritte – non consente, quindi, di ritenere che lo strumento urbanistico comunale abbia in via generale legittimato interventi con destinazione residenziale in zona agricola E1. Di qui, peraltro, la necessità dei ricorrenti di falsamente allegare la destinazione d’uso dell’edificando manufatto nella richiesta del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica.

1.1.4. Quanto alla violazione dell’art. 35 P.d.F. e dei richiamati decreti ministeriali ed al vizio di omessa motivazione dedotto sul punto, va innanzitutto osservato – a quest’ultimo proposito – come nel giudizio di cassazione il vizio di motivazione non sia denunciabile con riferimento a questioni di diritto, posto che il giudice di merito non ha l’onere di motivare l’interpretazione prescelta, essendo sufficiente che il risultato finale sia corretto (Sez.  3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Monai, Rv. 264273 nella cui motivazione si osserva che le lett. b e c dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen. si riferiscono all’inosservanza ed all’erronea applicazione della legge e non fanno alcun riferimento al percorso logico-argomentativo del giudice, a differenza della successiva lett. e, che si riferisce, peraltro, ai profili in fatto della motivazione). Nel giudizio di cassazione, dunque, le questioni di diritto disattese dal giudice di merito – motivatamente o meno – possono soltanto dare luogo al motivo di censura costituito dalla violazione di legge, sicché, se sono infondate, il loro mancato esame non determina alcun vizio di legittimità della pronuncia (Sez.  1, n. 16372 del 20/03/2015, De Gennaro, Rv. 263326; Sez.  2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri e aa., Rv. 247123).

Ciò premesso, osserva il Collegio come la pretesa violazione di legge fatta oggetto di doglianza sia inammissibile perché senz’altro infondata e ciò anche a voler prescindere dalla genericità della stessa, posto che i ricorrenti non specificano se i fondi oggetto di cessione di cubatura fossero o meno integralmente collocati nella fascia di rispetto normativamente prevista per gli elettrodotti secondo i complessi calcoli di cui agli allegati al d.m. 29 maggio 2008, ciò certo non desumendosi dal generico riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, al fatto che queste aree fossero “vicine ad una centrale elettrica”, né dalla sentenza di primo grado, che (pag. 7) attesta la medesima circostanza aggiungendo che solo una delle tre particelle catastali che individuano il fondo è attraversata in più punti da linee elettriche di media tensione ed alta tensione (salvo poi rilevare, alla successiva pag. 9, che, secondo quanto evidenziato nella relazione tecnica del progettista, anche le altre due lo sarebbero).

In disparte il cennato rilievo, è assorbente osservare – ed il primo giudice l’ha puntualmente fatto (cfr. pag. 10 sentenza), senza che i ricorrenti, reiterando la doglianza nel gravame di merito come pure nel ricorso per cassazione, si confrontino con quelle esatte argomentazioni – come l’art. 35 n. att. P.d.F. si riferisca esclusivamente alle norme di rispetto dovuto alle strade secondo, quanto ricavabile dal d.m. 1° aprile 1968, ed alle zone di rispetto cimiteriale, e non riguarda le zone di rispetto previste dagli invocati decreti ministeriali quanto alla vicinanza a centrali elettriche, né questi ultimi contengono al proposito alcuna previsione, non segnalata neppure dai ricorrenti.

Ma, quand’anche volesse ipotizzarsi – come i ricorrenti sembrano voler fare, richiamando una prassi amministrativa che la sentenza di primo grado ha tuttavia motivatamente ritenuto illegittimia – un’interpretazione analogica dell’art. 35 dello strumento urbanistico pure a tali zone, osserva il Collegio come questo preveda che «la cubatura relativa alla superficie posta sotto vincolo può essere trasferita oltre il limite di rispetto». Questo “trasferimento di cubatura oltre il limite di rispetto” va in prima battuta ritenuto certamente ammissibile con riguardo al medesimo fondo, nel senso che laddove questo sia parzialmente interessato dal vincolo, la cubatura esprimibile dall’area vincolata può essere sfruttata nell’ulteriore porzione non vincolata. Quanto alla possibilità di sfruttare la cubatura in un fondo diverso, coerentemente con la ratio che presiede ai casi di cessione di cubatura tra fondi quale più sopra analizzata, non v’è invece ragione di ritenere – soprattutto a fronte di una generica disposizione secondaria come quella invocata – che non valgano gli stessi limiti, imposti dal superiore interesse pubblico alla tutela di un ordinato sviluppo urbanistico. Il “trasferimento” della cubatura previsto dalla citata norma secondaria, dunque, è assoggettato alla ricorrenza dei medesimi presupposti di contiguità ed omogeneità dei fondi già più sopra analizzati e nella specie ritenuti insussistenti.

1.1.5. Va aggiunto, infine, che la sentenza impugnata (pag. 5) motiva la sussistenza delle contravvenzioni contestate anche con riguardo alla totale difformità di quanto edificato rispetto a quanto richiesto con riguardo alla destinazione d’uso, e questa argomentazione – di per sé sufficiente a giustificare la conferma della sentenza di condanna – non è stata in alcun modo contestata ed è indubbiamente corretta sul piano giuridico, sì che, anche soltanto per questa ragione, tutte le altre doglianze sono inammissibili, giusta il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui difetta di specificità, con violazione dell’art. 581 cod. proc. pen., il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti (Sez.  3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448;  Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972; Sez. 3, n. 30013 del 14/07/2011, Melis e Bimonte, non massimata). Del resto, in tali casi, sotto altro angolo visuale, il ricorso sarebbe comunque inammissibile per difetto di concreto interesse ad impugnare, in quanto l’eventuale apprezzamento favorevole della doglianza non condurrebbe comunque all’accoglimento del ricorso (Sez. 6, n. 7200 del 08/02/2013, Koci, Rv. 254506).

Ed invero, in difetto di qualsiasi specifica contestazione al proposito mossa in ricorso, basti qui osservare, quanto all’illecito urbanistico, che «sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso» (art. 30, comma 1, T.U.E.). E che la costruzione di una casa di civile abitazione con piscina (identificata dallo stesso ricorrente, si ricorda in sentenza, con la targhetta, apposta all’ingresso, “Villa Manuela”) sia un manufatto costituente sul piano tipologico e di utilizzazione un aliud pro alio rispetto ad un deposito agricolo – con conseguente difformità totale c.d. “qualitativa”, che integra, se commessa in zone vincolate, la contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), T.U.E. – è conclusione che, non essendo stata fatta oggetto di contestazione, non necessita di ulteriori chiose.

Lo stesso dicasi quanto alla sussistenza dell’illecito paesaggistico, posto che il reato di cui all’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, giusta la chiara formulazione del precetto contenuta nel primo comma della disposizione, si configura rispetto a lavori di qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di tutela paesaggistica, in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità da essa, senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica (cfr. Sez.  3, n. 3655 del 17/12/2013, dep. 2014, Alimonti, Rv. 258491; Sez.  6, n. 19733 del 03/04/2006, Petrucelli, Rv. 234730). Laddove – come nel caso di specie – l’autorizzazione rilasciata abbia ad oggetto manufatti completamente diversi da quelli eseguiti, sì che quanto realizzato sia addirittura configurabile quale aliud pro alio, anche in relazione alla vocazione agricola (e non residenziale) dell’area paesaggisticamente vincolata, non v’è alcun dubbio sulla sussistenza del reato in esame.

2. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

Contrariamente a quanto deducono i ricorrenti, la sentenza impugnata non ha escluso efficacia al permesso di costruire ottenuto in sanatoria ritenendo necessario il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (conclusione, quest’ultima, affermata nella sentenza di primo grado e peraltro indubbiamente esatta posto che l’autorizzazione rilasciata si riferiva ad un edificio di natura completamente diversa da quello realizzato, come appena chiarito supra), bensì – nel richiamare le argomentazioni svolte sul punto nella sentenza di primo grado alle pagg. 17 s. – perché privo del requisito della c.d. doppia conformità. Per quanto sopra osservato, di fatti, è evidente come l’opera in questione non potesse essere realizzata, a tacer d’altro perché incompatibile con le previsioni urbanistiche quanto all’eccesso di volumetria.

 

3. Con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, la doglianza proposta con l’ultimo motivo di ricorso è del pari inammissibile per manifesta infondatezza, poiché il diniego costituisce valutazione di merito sottratta a censure in sede di legittimità se, come nella specie, correttamente motivata.

Premesso che in tema di attenuanti generiche, la meritevolezza dell’adeguamento della pena, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni del fatto o del soggetto, non può mai essere data per presunta, ma necessita di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 271315), quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Piliero, Rv. 266460). La motivazione della sentenza d’appello che, nel confermare, il giudizio di insussistenza delle circostanze attenuanti generiche, si limiti a condividere il presupposto dell’adeguatezza della pena in concreto inflitta, può dirsi illegittima soltanto quando ometta ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei fattori attenuanti specificamente indicati nei motivi d’impugnazione (Sez. 6, n. 20023 del 30/01/2014, Gligora e aa., Rv. 259762).

Nel caso di specie, i suddetti imputati ricorrenti non allegano se e quali motivi avevano sottoposto al giudice di appello al fine di ottenere la concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’atto d’appello era sul punto assolutamente generico, sicché la notazione contenuta nel provvedimento impugnato – che dà atto dell’insussistenza di positivi elementi al proposito valorizzabili – è sufficiente e non può essere in questa sede sindacata. Del resto, anche nel ricorso per cassazione gli imputati si sono limitati ad allegazioni generiche, osservando come il giudice d’appello avrebbe omesso di considerare la particolarità della vicenda per l’obiettiva difficoltà di interpretare la normativa applicabile e la prassi seguita dal comune, ignorando che la sentenza impugnata dà atto del fatto che gli imputati hanno comunque realizzato un manufatto completamente difforme da quello richiesto e pur illegittimamente autorizzato.

4. I ricorsi vanno pertanto dichiarati inammissibili e, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il relativo ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,  consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento di un somma in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00 ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 19 Settembre 2019.

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