04/03/2019 – I pericoli della personalizzazione degli incarichi. La paradossale situazione dei segretari comunali

I pericoli della personalizzazione degli incarichi. La paradossale situazione dei segretari comunali

Luigi Oliveri

Dipendenti personalmente dai politici che li incaricano o nominano? O al servizio della Nazione, a prescindere dalla soggettività della persona che nomina o incarica e della sua appartenenza ad uno schieramento politico?

E’ una questione, quella della corretta qualificazione del rapporto dei dirigenti e funzionari pubblici e dei segretari comunali, sulla quale si continua a dibattere da anni. Nonostante la Costituzione all’articolo 98, comma 1, l’abbia definitivamente risolta: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

Eppure, si fa in modo da lasciare la questione ancora aperta a spazi piuttosto larghi nei quali la politica possa selezionare i dirigenti in base a rapporti di fiducia e letteralmente “personali”.

E’, sia pure in parte, il caso della sentenza 23/2019 della Corte costituzionale, che ha accertato (tra molte incertezze argomentative) la legittimità costituzionale dello spoil system dei segretari comunali.

Un passaggio molto significativo della sentenza è il seguente: “la giurisprudenza di legittimità e quella amministrativa sottolineano concordemente che il segretario comunale, benché dipenda personalmente dal sindaco, intrattenendo un rapporto funzionale con l’amministrazione locale, resta tuttavia un funzionario statale, e il suo status giuridico, ancorché particolare, è interamente disciplinato dalla legislazione statale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 agosto 2016, n. 17065; Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 5 aprile 2005, n. 1490)”.

La sentenza, come si nota, giunge ad enucleare l’esistenza di un rapporto di “dipendenza personale” tra segretario comunale e sindaco. Nonostante, sullo stretto piano della forma, la legge non lo preveda affatto. Infatti, l’articolo 99, comma 1, del d.lgs 267/2000 stabilisce che “Il sindaco e il presidente della provincia nominano il segretario, che dipende funzionalmente dal capo dell’amministrazione, scegliendolo tra gli iscritti all’albo di cui all’articolo 98”.

La legge disciplina un nucleo minimo di regolazione della procedura per giungere alla nomina del segretario, completato da una serie di deliberazioni dell’Albo.

Si tratta sicuramente di una regolazione molto scarna, poiché la proceduralizzazione della scelta dei sindaci non fornisce indicazione alcuna su elementi come titoli, esperienza, carriera, né l’iscrizione nell’albo costituisce “posizioni di ranking”, fermi solo restando i titoli particolari derivanti dal superamento di alcune tipologie di corsi che abilitano i segretari al passaggio progressivo dalle fasce C alla B e alla A.

La Corte costituzionale, con una “voce dal sen fuggita”[1] ci ricorda che la “proceduralizzazione” prevista dalla legge per gli incarichi ai segretari altro non è, sul piano fattuale, se non una flebile copertura ad una scelta che giunge fino all’arbitrarietà, perché non è nemmeno da motivare. La raccolta delle manifestazioni di interesse fa da cortina fumogena ad un processo di scelta da parte del sindaco che generalmente si svolge e si conclude ben prima della pubblicazione della sede vacante e della raccolta delle manifestazione di adesione dei candidati, che giungono quando il sindaco ha già consultato e scelto.

Non è chi non veda che nella debolezza della procedura di scelta e nella totale opacità di essa, a disdoro per altro dai principi di trasparenza imposti dalla normativa anticorruzione con la quale la disciplina degli incarichi dei segretari comunali è in evidente ed insanabile contrasto, sta lo spunto per poter affermare che tra sindaco e segretario comunale si instauri, addirittura, un rapporto di “dipendenza personale”.

La dipendenza personale, in un sistema democratico ed evoluto, non dovrebbe nemmeno poter essere pensata. Essa, infatti, è propria di sistemi giuridici ed istituzionali arcaici ed ancestrali, quale quello medievale, costruito sulle ceneri dell’impero romano.

Nel medioevo il sistema feudale era appunto fondato da una “dipendenza personale” tra il proprietario terriero (generalmente un discendente delle popolazioni barbare che avevano conquistato le terre), che concedeva un feudo, e il vassallo che lo riceveva.

In funzione di questa concessione, il vassallo rendeva l’omaggio “vassallatico”, consistente in una vera e propria sottomissione di tipo personale, ben ritualizzata. In una cerimonia pubblica, il vassallo, ma anche un cavaliere, dimostrava pubblicamente la costituzione del rapporto di dipendenza personale col “signore”. Si trattava appunto della cerimonia dell’ “omaggio”.

Soffermiamoci sull’etimologia della parola “omaggio”: essa deriva dal tardo latino hominaticum (è evidente la radice di homo-hominis), poi giunto nelle lingue romanze come homenatge, poi hommage e in italiano, appunto, omaggio. Il significato è: “uomo che sta con te”, “tuo uomo”.

A seguito dell’omaggio, il vassallo o il cavaliere diveniva “uomo del feudatario” che gli concedeva l’usufrutto della terra o mezzi ed armi. La cerimonia prevedeva che il vassallo si inchinasse davanti al signore, mettendo le proprie mani giunte in quelle del feudatario, letteralmente “consegnandosi” personalmente a lui. Dopo di che, il vassallo pronunciava il giuramento e il signore lo abbracciava, baciandolo in bocca.

In questo modo, il vassallo diveniva “uomo di bocca e di mani” del feudatario, creandosi un rapporto personale di dipendenza e fedeltà. Al vassallo non era consentito tradire né offendere il signore, dovendosi invece obbligare a pagare tasse, prestare corveè, alla bisogna anche combattere per il signore. Obblighi personali, che costituivano il sinallagma della concessione ricevuta, che costituiva comunque il riconoscimento di un privilegio rispetto alla vita del volgo rurale.

Trattandosi di una dipendenza personale non c’erano atti o contratti: era la “consegna” della persona con l’omaggio a stringere un rapporto personale inscindibile, sacrale.

Questo rapporto di dipendenza personale era costituito volontariamente dai vassalli, che erano persone libere. Nessuno obbligava i vassalli all’omaggio; ma questo risultava essenziale per ottenere l’usufrutto di terre, poteri di dominio, cariche politiche e protezione militare o politica. Con la prospettiva che anche future generazioni avrebbero potuto rendersi libere dal vincolo feudale (di certo, non pacificamente).

Naturalmente, questo rapporto personale e sacrale, non regolato da leggi o contratti, ripugnava alle classi borghesi dei commercianti e delle corporazioni, la cui ricchezza e posizione sociale dipendevano non da rapporti con i feudatari, ma dalla propria attività. Per questo nei territori nei quali si sviluppò, prima, la civiltà dei comuni borghesi, si affermava il principio dell’uguaglianza formale tra gli uomini e la teorica loro possibilità di accedere a cariche e poteri con uguali possibilità (poi, molti comuni invece sfociarono in “signorie” e persino nella repubblica di Venezia l’accesso alle cariche era riservato a pochissime famiglie molto potenti).

Questa coscienza dell’autonomia e dell’indipendenza della persona, affiancata all’acquisizione della consapevolezza che lo Stato non si doveva e poteva identificare col re fu uno dei pensieri di base dell’epoca dei lumi, che è sfociata nell’attuale organizzazione istituzionale e democratica, nella quale la Costituzione ripudia del tutto poteri personali. Gli organi costituzionali ed istituzionali ricevono i propri poteri da un mandato di rappresentanza, e per quanto i rappresentanti siano scelti da una “parte” (da qui il nome “partiti”) del corpo elettorale, insediati nelle Istituzioni perseguono un indirizzo politico liberamente definito, ma nel rispetto degli strumenti e dei contrappesi previsti dalla Costituzione e nell’interesse dell’intera popolazione.

Per questo gli impiegati pubblici debbono essere al servizio della Nazione e non di una parte politica e men che meno essere considerati come soggetti ad una “dipendenza personale” di questo o quel politico: passano, infatti, dagli impiegati pubblici i milioni di atti concreti, con i quali l’indirizzo politico si traduce concretamente in benefici, provvedimenti, concessioni, permessi, divieti, contratti. Tutti atti da compiere nell’interesse generale e non di una parte.

Ritenere, dunque, che il segretario comunale possa condurre col sindaco un rapporto di “dipendenza personale” è un errore storico, prima ancora che giuridico ed istituzionale.

L’osservazione fattuale secondo la quale concretamente, invece, il sistema consente la creazione di relazioni personali di dipendenza, dovrebbe condurre a soluzioni che pongano rimedio a questa situazione. Confrontando le scarne regole  dell’assegnazione degli incarichi dei segretari con la Costituzione, non dovrebbe essere difficile cogliere il punto: non possono prevalere regole di fatto che portino al paradosso della costituzione di rapporti di dipendenza “personale”, su discipline moderne di regolazione dei rapporti tra istituzioni e cittadini.

Certo, c’è chi ritiene che, al contrario, un margine, anche molto ampio, di discrezionalità nella scelta dei propri collaboratori stretti debba essere lasciato agli organi di governo.

Al di là che questa considerazione, condivisibile o meno, non potrebbe mai condurre a ritenere possibile la costituzione di rapporti funzionali con dipendenti pubblici basata sulla “dipendenza personale”, occorre preliminarmente verificare se possa fondarsi una sorta di “diritto alla scelta” dei propri collaboratori, in capo al sindaco (come di qualsiasi altra carica politica monocratica).

Il direttore de Il Fatto Quotidiano in un fondo dell’8 settembre 2016 scrisse che “un sindaco eletto dal popolo ha tutto il diritto di scegliersi i collaboratori”. Convinzione del tutto coerente con la filosofia di fondo della riforma della dirigenza targata Madia, per fortuna mai venuta alla luce.

E tale convinzione il direttore de Il Fatto Quotidiano l’ha poi ribadita nell’editoriale “Pirla coi tartufi” del 23 settembre 2018 ove scrisse, a proposito delle polemiche tra l’attuale Governo e i soliti “tecnici” del Mef (si era nella fase di costruzione della manovra finanziaria): “se alcuni tecnici del Mef sabotano le riforme del “cambiamento” democraticamente votato dagli elettori, il premier o un ministro spiega chi e perché non gode più della fiducia del governo, e lo sostituisce. Com’è suo diritto e dovere fare, non trattandosi di figure “terze” di garanzia, come i magistrati, le Authority e i giornalisti, ma di esecutori tenuti a obbedire a direttive politiche”.

Su questa visione del rapporto tra politica e dirigenza pubblica ci si è già espressi (https://luigioliveri.blogspot.com/2018/09/lirrefrenabile-voglia-di-spoil-system.html), ma il tema rimane attuale, per cui riportiamo alcuni brani. “Questa è la visione comune a tutte le forze politiche grazie alla quale da oltre 25 anni in Italia vige ed impera lo spoil system, una vera e propria piaga della pubblica amministrazione, senza che mai nessuno abbia avuto l’intenzione di porvi rimedio, abolendolo o, meglio, circoscrivendolo alle sole figure per le quale il rapporto “di fiducia” ha giustificazione e senso.

Nelle poche righe dell’editoriale del direttore de Il Fatto si condensano tutti i modi di pensare e di agire, spicci ed infondati, che caratterizzando da troppi decenni i rapporti tra politica e civil servant. Il cocktail è completo: la convinzione che l’elezione dia poteri speciali, al di sopra delle regole e della tecnica; la persuasione che il rapporto tra organi politici ed amministrativi non si fondi sulla competenza, ma sulla “fiducia”, intesa come prova inconfutabile di “fedeltà” ed appartenenza; la sicurezza di un diritto di disporre “degli uomini”, invece che delle “regole”, per far sì che siano i primi ad intervenire a prescindere dalle seconde, come scorciatoia per giungere prima ai risultati politici, senza passare appunto per le modalità imposte dalla legge, spesso descritte come “liturgie” o “appesantimenti burocratici”, che, per altro, sono nel 99% dei casi imposti proprio dalla politica che legifera ed imposte all’apparato tecnico; infine la convinzione che i tecnici siano “esecutori”, privi di qualsiasi autonomia e, quindi, “tenuti ad eseguire” le direttive politiche.

Questo insieme di persuasioni produce, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al più piccolo degli enti locali, un sistema di pressione della politica sull’apparato amministrativo, condito da un linguaggio che sindaci, assessori, consiglieri e loro “staff” esprimono con toni spessissimo per nulla diversi da quelli utilizzati da Casalino. Un sistema di pressione finalizzato ad indurre il “burocrate” a “fare come dico io”, a prescindere dai modi, dai tempi, dalle regole, imposte dalla normativa; perché se si evidenzia la necessità di rispettare quei modi, quei tempi, quelle regole, a parte il primo degli epiteti sprezzanti “lei si comporta da burocrate”, piovono gli insulti e le minacce di “vendette” eseguite attraverso la “cacciata” e la “revoca dell’incarico”, perché così agendo, nel rispettare le regole, “non si merita la fiducia” e, soprattutto, “si boicotta””. E, ancora: “Gli sconquassi del sistema sono ben espressi dal professor Sabino Cassese nell’articolo “I custodi dei conti in trincea” pubblicato il 21 settembre su Il Corriere della sera, proprio a proposito delle pressioni sul Mef, poi comprovate dall’audio del Casalino: “Si conferma così l’atteggiamento del governo nei confronti dei titolari di uffici pubblici di ogni specie, ministeri, autorità indipendenti, agenzie: cambiare gli uomini per adattare le regole dello Stato alle promesse fatte in campagna elettorale da un partito. Questo tipo di minacce ha un duplice effetto. Uno diretto, quando la minaccia diventa realtà, e il governo riesce a nominare propri fedeli. Uno indiretto, quando la minaccia non può trovare attuazione e rimane un mero avvertimento. In questo secondo caso, crea un clima generalizzato di timore, quello di poter perdere il posto, ed ha un effetto di fidelizzazione sui funzionari meno capaci o con più debole spina dorsale”.

E’ questo quello a cui deve puntare uno Stato? E’ così che si vuole assicurare il “cambiamento”?

E’ lo stesso Cassese ad evidenziare che l’intollerabile spoil system va avanti esponendo lo Stato a questi disservizi da decenni: “Emerge qui un errore madornale del centro sinistra, confermato dal centro destra, quello di aver iniziato l’epoca degli spoils system , ora divenuti una vera e propria famiglia di istituti, tutti ispirati all’idea che i politici, nello Stato, nelle regioni e negli enti locali, non debbano soltanto dare gli indirizzi, ma possano anche sostituire gli uomini. Il sistema per cui il vincitore politico prende le spoglie dell’avversario vinto, introdotto sul finire dello scorso secolo, e finora gestito con discrezione, ha mutato il modello costituzionale del funzionario pubblico imparziale, perché così ogni nuovo governante nomina i propri fedeli, come se non bastassero gli uffici di «staff», cioè i gabinetti ministeriali, che cambiano di regola col passaggio degli esecutivi. Non ultimi inconvenienti della sistematica interferenza della politica nei posti amministrativi sono il vestito d’Arlecchino che il frequente ricambio dei governi produce, la perdita di tecnici che hanno esperienza e conoscono i precedenti, lo sconcerto e la frustrazione che questi ricambi producono nei più giovani, che vedono arrivare sulla loro testa, nei posti ai quali essi aspirano, persone nominate dall’esterno o da altri uffici interni, per meriti politici””.

La domanda è, dunque: davvero si ritiene un passaggio verso il progresso considerare che le figure di vertice, simmetricamente al presunto diritto dei politici di scegliersi i propri collaboratori, consista nell’instaurare un legame di dipendenza personale o, comunque, tale da determinare la possibilità di “influenzare” le scelte politiche, come ritiene la Consulta nella sentenza 23/2019?

Che la politica possa e debba scegliersi il proprio “gabinetto” non vi sono dubbi. Ma, lo staff non può che essere composto da soggetti che abbiano la direzione e la gestione della struttura a servizio della carica politica: capo di gabinetto, segreteria, portavoce, addetto stampa; o da soggetti che a seconda della carica politica rivestano funzioni di supporto: consigliere politico, consigliere per gli esteri, consigliere legislativo, consigliere economico. Tutte figure, queste ultime, del tutto inutili negli enti locali, ove il sindaco ha già istituzionalmente lo staff politico: la giunta.

E non è un caso che proprio l’ordinamento locale stabilisca in modo espresso, per effetto della legificazione di un orientamento giurisprudenziale radicato, che i componenti dello staff degli organi di governo locale non debbano e non possano disporre di poteri gestionali; così, infatti, stabilisce espressamente l’articolo 90, comma 3-ter, del d.lgs 267/2000: “Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale”.

Eppure, la Consulta con la sentenza 23/2019 ritiene che la gestione sia un tratto fondante della figura del segretario comunale, seppur insieme alla “stretta collaborazione”, che giunge fino alla dipendenza personale col sindaco.

Così, in molti giungono all’equazione falsa postulata da molti: il dirigente pubblico è “uomo del politico” e il segretario comunale è “uomo del sindaco”, che lo ha scelto per via fiduciaria ed in ragione della persona, sicché è necessario gestire ed agire in modo collaborativo, in staff col sindaco.

C’è, tuttavia, da stare attenti alle concrete conseguenze di questa concezione della funzione del segretario comunale e della dirigenza comunque chiamata allo svolgimento di competenze gestionali.

Se qualsiasi figura di vertice organizzativa resta sulla soglia, o anche la valichi, della funzione “di gabinetto” e della costituzione del rapporto o dell’incarico per via fiduciaria, le conseguenze sono due.

In primo luogo, torneranno ovviamente le pulsioni verso l’abolizione della figura del segretario comunale e la riproposizione dell’impianto naufragato della riforma Madia della dirigenza. Infatti, un segretario comunale che nei fatti è un dirigente a contratto ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 165/2001, al quale affidare, sulla base di un rapporto di dipendenza personale, la gestione, è esattamente quel genere di esecutore tenuto ad obbedire ai dettami della politica, che può e deve essere fatto fuori ad ogni cambio di maggioranza, vagheggiato dalla politica e da molta stampa: con tanti saluti all’articolo 98 della Costituzione.

In secondo luogo, chi accetta di trasformarsi nell’ “uomo del sindaco”, un suo capo di gabinetto che però eserciti – non si capirebbe a quale titolo, però – anche funzioni gestionali, rischia a questo punto che la personalizzazione del rapporto lo porti dalle stelle a seri problemi anche con la giustizia.

Il rapporto personale col sindaco per molti può risultare anche interessante e vantaggioso (in modo non dissimile da quanto avveniva nel medioevo): trovato il sindaco in ascesa nella cordata giusta, si possono percorrere grazie a lui i binari velocissimi e dedicati della carriera che porta in poco tempo dal piccolo ente al grande capoluogo.

Ma, il rischio è anche cadere nella cenere, in base ad un concetto contorto del rapporto “personale”.

Mentre la sentenza 23/2019 della Consulta veniva redatta, la Corte d’appello, Sezione lavoro, di Lecce, adottava la sentenza 19 febbraio 2019, n. 315, interessantissima perché osserva lo status del segretario comunale non dal punto di vista astratto della Consulta e con il problema dell’equilibrio tra i principi costituzionali e le aspettative dei sindaci, bensì alla luce dei problemi materiali e concreti derivanti dallo svolgimento della funzione di segretario comunale in un ente in dissesto, con conseguenze gravi finanziarie, contabili e financo penali a carico degli amministratori: quel tipo di situazioni estreme, che però, pur non generali, è necessario considerare per valutare la “tenuta” delle regole o della loro corretta interpretazione.

La sentenza si occupa della mancata conferma del segretario comunale di Taranto, da parte del Commissario prefettizio nominato, in ragione appunto della disastrata situazione finanziaria dell’ente.

La Corte d’appello di Lecce, oltre ad evidenziare con estrema accuratezza e correttezza l’inesistenza del potere del Comissario prefettizio di adottare poteri specifici del sindaco, quali quello della mancata conferma del segretario, si diffonde in un’analisi fattuale concreta che dovrebbe far riflettere moltissimo tanto i giudici costituzionali che hanno pronunciato la sentenza 23/2019, quanto i sostenitori dell’inevitabile rapporto di fiducia tra politica e dirigenza.

Afferma la sentenza della Corte d’appello: “Pare piuttosto potersi affermare che l’operato del Commissario sia stato, nella specie, condizionato dalle vicende di rilevanza penale che avevano indotto il Sindaco ___ alle dimissioni, risalenti tuttavia ad epoca precedente all’incarico svolto” dal segretario non confermato, il quale, sottolinea la Corte “è stato evidentemente -ma del tutto ingiustificatamente – accomunato allo scandalo per il dissesto finanziario del Comune, con conseguente giudizio (quantomeno ) di inaffidabilità”.

Dunque, attenzione con la “dipendenza personale”. Come detto prima, può essere utile alla rampa di lancio e (perché no) ad incarichi gestionali ulteriori, che fruttano qualche maggior compenso ed ulteriori “meriti” (per quanto ci si dimentichi che le funzioni gestionali i segretari comunali, ai sensi del d.lgs 267/2000 e dei contratti collettivi nazionali e decentrati vigenti, possono svolgerle solo per via suppletiva e solo provvisoria). Ma, la “dipendenza personale” può indurre anche ad accomunare figura e persona del segretario, che abbia svolto la sua funzione in un ente funestato da mala gestione e vertenze penali a carico degli amministratori, a chi ha commesso i delitti penali o le irregolarità amministrative, tanto da meritare l’assimilazione di fatto a questi e, quindi, un giudizio di “inaffidabilità”.

Ora, se un giudice del lavoro giunge ad una conclusione come quella evidenziata sopra, non dovrebbe sfuggire che il livello di guardia sia stato ampiamente superato.

Non ci si rende conto che concepire la figura del dirigente o del segretario comunale come “rapporto di dipendenza personale e fiduciaria” da un lato significa violare del tutto l’articolo 98 della Costituzione e permettere la costruzione non di un apparato di civil servant, ma di organi di parte, persino non di partito, ma alle dipendenze personali di questo o quel sindaco, chiamati ad agire anima e corpo nell’interesse di quella persona. Legando a questa carriere ed opportunità, al punto da giungere ad una opinio ac necessitatis dell’accomunazione personale del segretario comunale alle vicende persino penali del sindaco, a disdoro dei principi di personalità della responsabilità penale e della divisione delle competenze e responsabilità politico amministrative da quelle amministrative.

Non si può, quindi, che concordare con le ulteriori affermazioni della Corte d’appello di Lecce: “Ne deriva che l’opportunità della sua sostituzione , anche alla luce dell’affermazione contenuta nella sentenza appellata “… la sussistenza di un rapporto fiduciario fra il capo dell ‘amministrazione comunale (qual è il commissario prefettizio) e il peculiare organo ausiliario che funzionalmente ne dipende (qual è il segretario generale) costituisce di per sé potenziale garanzia di buon andamento dell’amministrazione …”, richiedeva d’essere motivata. E’ del resto nota l’assimilazione della figura del segretario generale a quella dei dirigenti, per modo che nemmeno può condividersi l’affermazione del primo Giudice in virtù della quale essendo – la disciplina per l’uno e per gli altri – distinta (in quanto dettata per i dirigenti al capo III del titolo IV del d.lg.vo 267/00 e per il segretario al capo II ) – determinati principi garantisti (quelli affermati dalla Corte Costituzionale in tema di spoils system con riferimento alle figure dirigenziali) non troverebbero applicazione. Considerato lo status e la carriera del segretario comunale prima e dopo la cd riforma Bassanini ( ed il curriculum dello Specchia ), la qualifica dirigenziale del segretario è infatti indubitabile ( come del resto ormai univocamente affermato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità) , con la conseguenza che non trova giustificazione l’esclusione delle garanzie previste dal predetto titolo III del dlg.vo 267/00”.

Certo, alla luce della pronuncia della Consulta 23/2019 le conclusioni cui giunge la Corte d’appello di Lecce potrebbero considerarsi infondate.

A ben vedere, però, è la pronuncia della Consulta ad apparire apodittica e non in linea con la propria consolidata giurisprudenza sorta a partire dal 2007, tanto appunto da teorizzare quella “dipendenza personale” che trasfigura il segretario comunale da coordinatore generale tecnico della struttura amministrativa, in qualcosa di simile ad un capo di gabinetto, destinatario però di volta in volta anche di poteri gestionali tali da “influenzare” le decisioni politiche.

Una figura così, allora, non serve sia sorretta da garanzie procedurali per l’incarico o la revoca.

La Consulta ha in sostanza scritto, non si sa se volontariamente, non una sentenza capace di tutelare la peculiarità dei segretari, bensì il fondamento di una riforma che, concepiti come personali dipendenti del sindaco, li trasformi in componenti di staff, legati a rapporti talmente personali da non necessitare di quella motivazione che, saggiamente, invece, la Corte d’appello ritiene indispensabile per ogni decisione di nomina e conferma.

Del resto, a parte la circostanza che la motivazione dovrebbe essere contenuto obbligatorio di ogni provvedimento amministrativo, è proprio l’esplicazione delle ragioni che conducono ad una decisione ciò che caratterizza il provvedimento amministrativo rispetto alla decisione arbitraria.

Spazi per l’esercizio di arbitrio la politica ne ha proprio nella costituzione di uffici di gabinetto. La sentenza 23/2019 pare allargarli alla figura del segretario comunale, accettando un comune sentire, che tuttavia non può non considerarsi erroneo. Anche perché il componente dello staff, che anche gestisce, che anche controlla pur essendo in personale dipendenza dal controllato, che anche valuta se stesso, che anche funge da garante dell’anticorruzione di se stesso e di chi lo incarica come tale, non può essere garanzia reale alcuna di trasparenza, imparzialità e buon andamento.

Il legislatore tragga dalla sentenza della Consulta 23/2019 le conclusioni; o i segretari sono una figura di staff; oppure, poiché non hanno nulla in comune con poteri e prerogative dei dirigenti di prima fascia incaricati ai sensi dell’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lgs 165/2001, che di fatto sono dei sottosegretari di Governo, con incarico non politico ma dirigenziale, prendere atto che il coordinamento generale dell’apparato tecnico deve obbedire ai dettami dell’articolo 98 della Costituzione e non si può in alcun modo tenere insieme con rapporti personali o fiduciari.

 

 

 


[1]Metastasio, Ipermestra, atto II, sc. 1: “Vóce del sén fuggita Pòi richiamàr non vale”.

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