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IL VULNUS DELL’AVOCAZIONE DEI PROVVEDIMENTI DA PARTE DEL SEGRETARIO COMUNALE

Luigi Oliveri
E’ incredibile come sia possibile che nessuno abbia eccepito le molteplici illegittimità, ma soprattutto i pericoli di utilizzo distorto, del potere di avocazione degli atti dirigenziali che l’atto di indirizzo rivolto all’Aran per l’avvio del Ccnl dell’area dirigenza del comparto Funzioni locali vorrebbe attribuire ai segretari comunali.
La previsione dell’atto di indirizzo è la seguente: “L’ARAN definisce i contenuti delle attività di sovraintendenza e coordinamento di cui all’art. 97, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000, tra cui, a titolo esemplificativo, la sovraintendenza alla gestione complessiva dell’ente, la predisposizione del piano dettagliato degli obiettivi, la proposta del piano esecutivo di gestione, l’esercizio del potere di avocazione degli atti dei dirigenti in caso di inadempienza e ogni 12 altra funzione di direzione richiamata nei regolamenti di organizzazione. Conseguentemente è fatta salva la disciplina prevista dall’art. 41 commi 4 e 5 CCNL 16/5/2001”.
Poche righe, nelle quali sono contenute una quantità enorme di illegittimità. Proviamo ad elencarne qualcuna:
  1. l’atto vorrebbe assegnare all’Aran il compito di definire i contenuti delle attività di sovrintendenza e coordinamento. Ma l’Aran dispone di questa competenza? La definizione delle funzioni di sovintendenza e coordinamento consiste nella specificazione della sfera di competenza e delle modalità di esercizio di un pubblico ufficio: quello del segretario. Le norme violate sono almeno:
    1. articolo 97, commi 2 e 3 della Costituzione, i quali stabiliscono: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

      Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”. La definizione dell’organizzazione e delle competenze, come si nota, è soggetto a riserva di legge. La legge, certo, potrebbe disporre di se stessa ed attribuire ai contratti collettivi nazionali l’esercizio di queste competenze. Peccato che nel caso di specie non sia così, come si dimostra col successivo punto;

    2. articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001 che fa espresso divieto alla contrattazione collettiva di curarsi di materie «afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17»: è evidente che introdurre un potere di avocazione implica proprio ingerirsi nelle prerogative dirigenziali esplicitamente vietate. Se i segretari comunali adottassero atti nell’esercizio di un potere di avocazione, i loro provvedimenti risulterebbero tutti a fondato rischio di nullità per assoluta carenza di potere.
    3. articolo 107, comma 4, del d.lgs 267/2000: “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
    4. Articolo 46, comma 1, del lgs 165/2001, ai sensi del quale “L’ARAN esercita a livello nazionale, in base agli indirizzi ricevuti ai sensi degli articoli 41 e 47, ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e alla assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi”. Come si nota, l’Aran non dispone per legge nemmeno in minima parte del potere di definire le funzioni non solo del segretario comunale, ma di qualsiasi organo amministrativo;
  2. nella parte in cui la previsione si occupa della predisposizione del piano dettagliato degli obiettivi e della proposta del piano esecutivo di gestione, l’atto di indirizzo vìola le previsioni contenute nel d.lgs 267/2000, le quali attribuiscono, ovviamente, al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi e al regolamento di contabilità la disciplina di questi temi, che non può essere affrontata in alcun modo legittimo e lecito dalla contrattazione collettiva;
  3. nella parte in cui prevede il potere di avocazione, le norme violate sono[1]:
    1. l’articolo 97, commi 2 e 3, della Costituzione, visti sopra;
    2. l’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001, visto sopra;
    3. l’articolo 107, comma 4, del d.lgs 267/2000, visto sopra;
    4. l’articolo 107, comma 6, del lgs 267/2000, ai sensi del quale “I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione”;
    5. l’articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990, ai sensi del quale “l’organo di governo individua, nell’ambito delle figure apicali dell’amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell’ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all’ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente”.
L’atto di indirizzo, come si nota, si ingerisce in competenze totalmente sottratte alla contrattazione e, per altro, intenderebbe disciplinare fattispecie già in parte regolate dalla legge.
Si ribadisce: è incredibile che la leggerezza con la quale si possano prevedere tutte queste violazioni clamorose di norme non sia stata, come doveroso, censurata e fermata. Avviare una contrattazione sulla base di questi presupposto inaccettabili è avventuristico.
Soffermiamoci, in ogni caso, sulle due ultime norme di legge violate clamorosamente dall’atto di indirizzo elencate prima.
Dovrebbe risultare chiaro ed evidente il carattere definitivo e, dunque, non suscettibile di un intervento di riesame da parte di altri organi, dei provvedimenti dei dirigenti, come indicato dall’articolo 107, comma 6, del d.lgs 267/2000. Il quale indirettamente attribuisce la caratteristica della definitività ai provvedimenti dei dirigenti, in quanto rimette alla loro esclusiva responsabilità la gestione. Poiché la loro responsabilità è “esclusiva”, nessun altro soggetto può ingerirsi nella gestione. E poiché i loro atti sono definitivi, non può in alcun modo immaginarsi nemmeno lontanamente un rapporto di gerarchia tra segretario comunale e dirigenti. Il potere di avocazione, come noto, è intimamente e strettamente connesso alla sovraordinazione gerarchica, sistema di organizzazione degli uffici mediante il quale la medesima sfera di competenza è attribuita all’ufficio sovraordinato e all’ufficio sottoordinato; quest’ultimo, quindi, esercita le competenze sotto le strette ed inviolabili indicazioni dell’ufficio sovraordinato, che dispone di poteri estremamente forti di ingerenza, quali gli ordini di servizio e, appunto, l’avocazione, quando il sovraordinato ritenga di riservare a se stesso l’adozione di provvedimenti, per qualsiasi ragione; inoltre, nel sistema gerarchico, gli atti del sottoordinato non sono definitivi e, quindi, nei confronti di questi è possibile presentare ricorso gerarchico.
L’articolo 107, comma 6, come evidenziato prima, attribuisce ai dirigenti degli enti locali una responsabilità esclusiva ed intangibile: il loro atti non possono essere oggetto di ricorso gerarchico. Dal canto suo, il comma 4 dell’articolo 1017, che si compone in evidente armonia con l’articolo 40, comma 1, del d.lgs 165/2001, esclude che qualsiasi fonte diversa dalla legge possa incidere la competenza e la responsabilità esclusive della dirigenza.
L’assenza, dunque, di un potere gerarchico in capo ai segretari comunali, e di una competenza del Ccnl di introdurlo e meno ancora di regolarlo inficiano gravemente la liceità dell’atto di indirizzo e del contratto che fosse sottoscritto attuando incautamente il vulnus gravissimo della previsione in argomento.
La cui illiceità è ulteriormente confermata dall’articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990. Questa norma ha già affrontato e risolto il problema posto dall’esclusività della competenza dirigenziale, nell’ipotesi in cui il singolo dirigente risulti negligente e adotti con ritardo gli atti del proprio ufficio.
La norma introdotta nella legge 241/1990, lungi dal prevedere un potere di avocazione, impossibile per l’assenza della sovraordinazione gerarchica, dispone, invece, un potere sostitutivo di tipo straordinario. La sostituzione non modifica l’ordine delle competenze: il sostituto si insedia in via eccezionale e temporanea (in modo virtuale) nell’ufficio inerte o in ritardo ed al posto di questo adotta provvedimenti riferiti a quell’ufficio, anche se se ne assume la responsabilità diretta.
La previsione della legge 241/1990 rimedia brillantemente al rischio che l’autonomia e l’esclusività della responsabilità dei dirigenti possa indurli ad agire in modo arbitrario e senza rendere conto del dovere di attuare il programma di governo. Ma, d’altra parte, l’articolo 109, comma 1, del d.lgs 267/2000 è molto chiaro da sempre sul dovere dei dirigenti di gestire nel rispetto degli indirizzi di governo: infatti gli incarichi dirigenziali sono “sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell’assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall’articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”.
Se, quindi, la preoccupazione del Comitato di settore (composto dall’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI), dall’Unione delle province d’Italia (UPI) e dall’Unioncamere) è quello di garantire ai cittadini che comunque il provvedimento cui hanno diritto venga in ogni caso adottato – ferme restando le responsabilità per il ritardo – la normativa vigente è già sufficiente a risolvere il problema.
La sensazione è, invece, che proprio il soggetto la cui parte nel Comitato di settore è quella del leone, cioè l’Anci, in accordo con alcune sigle sindacali dei segretari comunali, intenda ottenere un risultato del tutto diverso: la verticalizzazione del potere, sulla base della convinzione (rafforzata da una lettura distorta della sentenza della Corte costituzionale 23/2019) che il segretario comunale sia di fatto un soggetto coinvolto in pieno nella parte politica, scelto fiduciariamente in quanto in grado quanto meno di influenzare il programma di governo e, come tale, “garante” dell’esecuzione di detto programma.
In questa ottica, il potere di avocazione evidenzia ancora maggiori vulnus all’ordinamento, più sul piano fattuale e di merito, che della legittimità.
E’ evidente che l’avocazione, intesa come sopra, è il cavallo di Troia per superare di fatto il principio di separazione tra politica e gestione: il segretario comunale avocante, fiduciario del sindaco e della parte politica, potrebbe essere lo strumento, la longa manus con la quale la politica si reimpossessa della gestione diretta.
Basta che ogni volta che una decisione gestionale dirigenziale non piaccia, il sindaco solleciti il segretario ad avocare la decisione dirigenziale, in modo che sia corrispondente in toto ai desiderata politici.
L’atto di indirizzo non ne parla: ma è facile immaginare che dietro questa volontà di introdurre la verticalizzazione del potere che si era tentata con la – per fortuna – fallita riforma Madia, vi sia la mira a creare quel “dirigente apicale” che possa ambire alle retribuzioni aggiuntive, connesse al concreto esercizio dei potere che l’atto di indirizzo vorrebbe fossero regolati dal Ccnl. Insomma, un rimedio all’abolizione della figura del direttore generale nei comuni fino a 100.000 e la riapertura del mercato delle retribuzioni a compenso di queste funzioni.
Uno scambio che potrebbe sedurre molti segretari, come in effetti nel passato è accaduto, sì che per circa 12 anni, fino al doveroso intervento normativo del 2009 che ha soppresso opportunamente l’inutile figura del direttore generale nei comuni fino a 100.000 abitanti, sono stati sperperati denari, spesso posti già a suo tempo per trasformare una figura essenziale per l’organizzazione efficace ed il rispetto delle regole, qual è il segretario comunale, in un gestore verticale, chiamato solo all’attuazione pedissequa di un programma politico; sulla base di una concezione dell’efficienza ed efficacia non più connesse all’imprescindibile legalità, ma solo al grado di compiacenza alle indicazioni politiche.
Il tutto gira intorno all’indefinito concetto di “inadempienza”, citato dall’esiziale atto di indirizzo come presupposto per l’avocazione. Inadempienza a cosa?
Se si trattasse dell’inadempienza all’adozione del provvedimento nei termini, come visto sopra, il rimedio sarebbe già pronto: l’articolo 2, comma 9-bis, della legge 241/1990.
Ma se l’Anci insiste, evidentemente per “inadempienza” non può non intendere qualcosa d’altro. E non è difficile immaginare che questo qualcosa d’altro possa essere volontariamente frainteso come qualsiasi decisione gestionale non totalmente aderente alle indicazioni della politica.
Inadempienza potrebbe essere, allora, gestire un appalto mediante procedura aperta, mentre la politica vorrebbe imporre affidamenti diretti; non prorogare un contratto che si vorrebbe prorogare; evidenziare l’inesistenza dei presupposti per l’affidamento di una consulenza che si insiste a voler dare; gestire un contributo con procedura di individuazione pubblica e non in modo diretto; derogare in vari modi a regole su concessioni, licenze, tributi.
Il “dirigente apicale” dotato di potere di avocazione potrebbe essere lo strumento deleterio di questo. E indirettamente favorire, certo nei per fortuna pochi, ma pur sempre troppi, casi di enti inquinati da corruzione e conflitti di interessi, l’adozione di atti gestionali funzionali alla mala amministrazione.
All’opposto, il potere di avocazione potrebbe essere un’arma tremenda di pressione proprio nei confronti del segretario comunale. Se, come spessissimo accade, vi è uno stretto rapporto di “fiducia” tra politici e dirigenti, questi potrebbero decidere di fare del segretario il parafulmine ogni volta che una decisione sia a conclamato rischio; l’accordo tacito tra politica e dirigenti è che questi restino appositamente inadempienti (ma non sanzionati), per passare la patata bollente di un atto a sospetta efficienza, efficacia e legittimità, al segretario comunale, non proprio in rapporto di piena consentaneità con la politica, il sindaco potrebbe imporre l’avocazione dell’atto, pena la revoca dell’incarico o dell’emolumento aggiuntivo.
L’utilizzo distorto degli istituti, specie quando introdotti e regolati in modo illegittimo come avverrebbe per l’avocazione, è sempre dietro l’angolo. Non bisogna dimenticare il monito derivante dalla sentenza della Cassazione, Sesta Sezione Penale 23 maggio 2019, n. 22871: la Suprema Corte ha condannato per abuso d’ufficio il sindaco che ha revocato l’incarico al responsabile della Polizia Municipale, perché questo aveva evidenziato comportamenti illeciti e dannosi di alcuni componenti del Corpo e non aveva accettato di condizionare il rinnovo dell’incarico all’insabbiamento. Ecco: quel sindaco, comunque, aveva avuto modo di nascondere l’atto ritorsivo dietro l’applicazione distorta della “rotazione” prevista dalla normativa anticorruzione. Facile comprendere che in quell’ente oltre ad essere stato calpestato il buon andamento della pubblica amministrazione e la dignità professionale di un funzionario corretto, punito per questo, è stato del tutto messo in un angolo il segretario comunale. Messo nella condizione, evidentemente, di non poter eccepire nulla sui provvedimenti illegittimi adottati e addirittura sullo stesso utilizzo illecito della rotazione, strumento dell’anticorruzione del quale il segretario, come è noto, è il principale responsabile.
La presa di coscienza delle inaccettabili illegittimità dell’atto di indirizzo e delle conseguenze di fatto dannosissime che deriverebbero dall’introduzione dell’avocazione dovrebbero consigliare di pensare molto bene a quel che le parti sottoscriveranno. L’Aran stessa, per prima, avrebbe l’onere di evidenziare al Comitato di settore l’impossibilità di dare corso a queste indicazioni.
 
 

[1] Non può convincere, quindi, l’erronea ricostruzione dottrinale (Brevi considerazioni sul potere avocativo del Segretario comunale, di M. Lucca e G Gianbattista Zanon; La Gazzetta degli enti locali, 6 luglio 2007) ove si sostiene che il potere di avocazione sia introducibile mediante il regolamento di organizzazione o, addirittura, perfino con provvedimento del sindaco o del presidente della provincia: la violazione dell’articolo 107, comma 4, del d.lgs 267/2000 di simili provvedimenti sarebbe clamorosa.
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