22/05/2019 – Il Comune non può bloccare un’attività di somministrazione se il regolamento regionale prevede una disciplina autorizzatoria più ampia

Il Comune non può bloccare un’attività di somministrazione se il regolamento regionale prevede una disciplina autorizzatoria più ampia

di Marilisa Bombi – Giornalista, consulente autonomie locali
Il filtro a carbone è meglio della canna fumaria, checché ne dica il regolamento comunale. Con sentenza n. 2866, e depositata il 3 maggio scorso, il Consiglio di Stato Sezione V, ha bocciato la tesi del Tar Lazio il quale aveva respinto il ricorso del titolare di esercizio pubblico, avverso il divieto comunale di prosecuzione dell’attività di cottura dei cibi, (avviato in forza di una SCIA sanitaria) a causa della riscontrata assenza, in tale locale, della canna fumaria e della ritenuta inadeguatezza dell’impianto alternativo di smaltimento dei fumi, a carboni attivi, utilizzato. Motivo del divieto di prosecuzione dell’attività il parere dell’Azienda sanitaria la quale aveva ritenuto perdurante la vigenza del regolamento comunale di igiene che risale alla fine degli anni 30 e peraltro era mancato l’accertamento preventivo, in concreto, circa l’equivalenza degli effetti di neutralizzazione dei fumi (e dunque l’efficienza di rendimento) con l’impianto a carboni attivi rispetto a quelli tradizionali.
Relativamente alla questione posta, la Sezione ha rilevato che l’art. 12 del regolamento regionale n. 1 del 2009 consente ai Comuni di garantire l’equilibrio tra le esigenze di tutela dei contesti urbani di particolare pregio artistico-architettonico e quelle di tutela della libera iniziativa economica degli esercizi già operanti all’interno dei contesti stessi. Tale bilanciamento di interessi viene effettuato dalla norma riconoscendo a tali esercizi la possibilità di «utilizzare, in alternativa alle canne fumarie, altri strumenti o apparati tecnologici aspiranti e/o filtranti per lo smaltimento dei fumi, la cui idoneità è accertata secondo la normativa vigente in materia». Ciò tanto più in considerazione del fatto che la stessa L.R. Lazio 29 novembre 2006, n. 21 (in esecuzione della quale è stato adottato il regolamento regionale), all’art. 7, comma 2, lett. d), prevedeva, da parte dei Comuni, l’adozione di regolamenti per disciplinare, in particolare, «l’utilizzo, da parte dei locali in cui si svolge attività di somministrazione di alimenti e bevande, di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi, di preferenza senza immissione in atmosfera, e per la diminuzione dell’inquinamento acustico, con particolare riferimento ai centri storici».
Peraltro, anche con riferimento alla disciplina di cui al (comunque subordinato, sul piano della gerarchia delle fonti) regolamento di igiene del Comune di Roma, risalente al 1932, è stato precisato che l’art. 64, ultimo comma, prevede che l’Ufficio d’Igiene «potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l’uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori». Si aggiunga che l’art. 58 del regolamento edilizio, pur prescrivendo in generale che ogni “focolare” deve essere dotato di canna fumaria prolungata oltre il piano di copertura dell’edificio e che i locali destinati a cucina devono inoltre essere dotati di cappa posta sopra i fornelli comunicante con canna esalatrice, precisa che nel caso in cui «si usino fornelli elettrici è sufficiente che detta canna esalatrice sfoci all’aria libera, su un muro esterno, purchè sia dotata di efficiente aspiratore elettrico e purché lo sbocco non sia ubicato direttamente sotto finestre di stanze di abitazione». In sostanza, dal complesso delle disposizioni vigenti rilevanti per il caso in questione deve escludersi che per i locali commerciali in cui si svolge l’attività di gastronomia calda sussista un obbligo inderogabile di convogliare i fumi ed i vapori sulla sommità dell’edificio e di espellere gli stessi tramite una canna fumaria. La Sezione, in pratica, ha dato ragione all’appellante il quale aveva osservato come le disposizioni vigenti consentono un’alternativa al sistema del camino (nel caso di specie, l’impianto a carboni attivi di smaltimento dei fumi), purché in grado di abbattere il livello delle emissioni inquinanti. L’illegittimità dell’ordine di cessazione è dunque derivante dal fatto che Roma Capitale non ha verificato la possibilità di percorrere le alternative previste a livello regolamentare.

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