26/02/2019 – Pubblicazione redditi dei dirigenti pubblici, Consulta: trasparenza non può sempre prevalere

Pubblicazione redditi dei dirigenti pubblici, Consulta: trasparenza non può sempre prevalere

Corte Costituzionale, sentenza 21/02/2019 n° 20

Di Michele Iaselli – Pubblicato il 25/02/2019

 

E’ illegittima la disposizione dell’art. 14, comma 1-bis, del Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33 nella parte in cui prevede che lepubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari diincarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

E’ quando ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza 23 gennaio – 21 febbraio 2019, n. 20.

In altri termini la norma estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici. 

La pubblicazione riguarda, in particolare, i compensi percepiti per lo svolgimento dell’incarico e i dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da apposite attestazioni sui diritti reali sui beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di società e sulle quote di partecipazione a società. 

Questi dati, in base alla disposizione censurata, dovevano essere diffusi attraverso i siti istituzionali e potevano essere trattati secondo modalità che ne avessero consentito l’indicizzazione, la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web e anche il loro riutilizzo.

La Corte ha ritenuto irragionevole il bilanciamento operato dalla legge tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.

Secondo i giudici costituzionali, il legislatore, nell’estendere tutti i descritti obblighi di pubblicazione alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), ha violato il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali e presidiato dall’articolo 3 della Costituzione. Pur riconoscendo che gli obblighi in questione sono funzionali all’obiettivo della trasparenza, e in particolare alla lotta alla corruzione nella Pubblica amministrazione, la Corte ha infatti ritenuto che tra le diverse misure appropriate non è stata prescelta, come richiesto dal principio di proporzionalità, quella che meno sacrifica i diritti a confronto.

In vista della trasformazione della PA in una “casa di vetro”, il legislatore può prevedere strumenti che consentano a chiunque di accedere liberamente alle informazioni purché, però, la loro conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente collegata all’esercizio di un controllo sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali sia sull’impiego virtuoso delle risorse pubbliche.

Ciò vale certamente per i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché per le spese relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con fondi pubblici, il cui obbligo di pubblicazione viene preservato, dalla sentenza, per tutti i dirigenti pubblici. Non così per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, la cui pubblicazione era imposta, senza alcuna distinzione, per tutti i titolari di incarichi dirigenziali.

Si tratta, infatti, di dati che non sono necessariamente e direttamente collegati all’espletamento dell’incarico affidato. Inoltre, la loro pubblicazione non può essere sempre giustificata – come avviene invece per i titolari di incarichi politici – dalla necessità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.

A ciò si aggiunga che la pubblicazione di quantità così massicce di dati – senza alcuna distinzione tra i dirigenti, in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta – non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi, anche a fini anticorruttivi, e rischia, anzi, di generare “opacità per confusione” oltre che di stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare mere curiosità.

Non a caso la problematica è stata sollevata proprio in seno all’Autorità Garante dove diversi dirigenti hanno posto la questione di costituzionalità. La stessa Autorità ha sempre guardato con sospetto una normativa sulla trasparenza divenuta in determinati casi troppo ampia e poco equilibrata.

Un eccesso indiscriminato di pubblicità rischia, peraltro, di occultare informazioni realmente significative con altre del tutto inutili, così ostacolando, anziché agevolare, il controllo diffuso sull’esercizio del potere e degenerando in una forma di sorveglianza massiva. Per la trasparenza c’è bisogno di un approccio qualitativo e non meramente quantitativo: meno dati ma più qualificati.

Sempre critica è stata anche la posizione dell’Autorità garante con riferimento all’accesso universale ritenuto troppo ampio in quanto non prevede quelle cautele dettate dalla L. 241/1990 per l’accesso ad atti amministrativi contenenti dati sensibili o giudiziari e, soprattutto, la regola del “pari rango” per i dati ipersensibili, secondo cui ove siano coinvolti dati sanitari o sulla vita sessuale, l’accesso è ammesso solo per la tutela di una situazione giuridicamente rilevante di rango “almeno pari” o di un “altro” diritto o libertà fondamentale e inviolabile.

Secondo l’Autorità, quindi, l’attuale disciplina sulla trasparenza andrebbe rimodulata, prevedendo che ove l’accesso coinvolga dati personali di terzi, esso possa essere effettuato solo previo accertamento della prevalenza dell’interesse perseguito dall’accesso ovvero, previo oscuramento dei dati personali presenti.

Tale previsione andrebbe poi completata con un generale divieto di comunicazione di dati sensibili o giudiziari nonché di dati personali di minorenni, in osservanza della tutela rafforzata accordata dall’ordinamento interno e dal diritto dell’Unione europea a tali categorie di dati personali.

In realtà ritengo che bisogna intendersi su cosa si intenda davvero per “trasparenza” poiché la divulgazione di un patrimonio informativo, senza adeguati criteri discretivi, immenso e sempre crescente (quale quello delle pubbliche amministrazioni) rischia di mettere in piazza spaccati di vita individuale la cui conoscenza è inutile ai fini del controllo sull’esercizio del potere ma, per l’interessato, può essere estremamente dannosa.

Al cittadino bisogna consentire l’accesso a tutte quelle informazioni che sono davvero utili per poter ottenere l’accesso e quindi usufruire di servizi pubblici nel modo più agevole e semplice possibile. Questa è la trasparenza che conta, non certo sapere quanto guadagna un dirigente che appaga al massimo un’esigenza di curiosità, ma non soddisfa di certo un interesse preminente del cittadino.

Spetterà ora al legislatore ridisegnare – con le necessarie diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali – il complessivo panorama dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con cui devono essere attuati, nel rispetto del principio di proporzionalità posto a presidio della privacy degli interessati.

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